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A proposito di Kavarna

...la passione per la libertà è più forte d'ogni autorità...

-lacrime e cemento-

Una festa è una festa. La festa è solo il momento della TAZ, il momento dello scatenamento delle passioni psicoattive e del turbinio dell'emozione musicale? La festa è solo uno strumento, un continuum spazio-temporale diviso dalla nostra esistenza?
Se questo fosse vero, la festa non sarebbe più il gioco di un qualcosa altro in cui le convinzioni saltano per aria, ma solo un ripetersi dell'esistenza alienata in ogni dove, divisa da un solo momento in cui distrarsi. Se questo avviene, il potere, il sistema che ci opprime e ci sfrutta ogni giorno, lo Stato, l'economia, la politica, essi che cosa penserebbero? E' dura dirlo, ma è facile comprenderlo; che stanno vincendo, come una grossa mano che tiene i fili dei nostri corpi e dei nostri cuori. Vogliamo far veramente vincere il potere? Vogliamo continuare questa esistenza dove o si lavora o si muore di fame, dove si finisce in galera o in qualche CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione)?
Se ci vogliamo divertire, crediamo che il gioco della rivolta non possa essere tralasciato.
Ha senso divertirsi alla festa per poi tornare all'esistenza deprimente e ripetitiva di tutti i giorni? Ha senso essere una massa acritica e avvilente rinnegando l'individuo leggero e pensoso?
“La vita non può essere solo qualcosa a cui aggrapparsi.
È un pensiero che sfiora chiunque, almeno una volta.
Abbiamo una possibilità che ci rende più liberi degli dèi: quella di andarcene.
È un’idea da assaporare fino in fondo. Niente e nessuno ci costringe a vivere.
Nemmeno la morte. Per questo la nostra vita è una tabula rasa, una tavoletta che non è ancora stata scritta e che quindi contiene tutte le parole possibili.
Con una simile libertà non si può vivere da schiavi. La schiavitù è fatta per chi è condannato a vivere, per chi è costretto all’eternità, non per noi.
Per noi c’è l’ignoto. L’ignoto di ambienti in cui perdersi, di pensieri mai rincorsi, di garanzie che saltano per aria, di sconosciuti perfetti a cui regalare la vita.
L’ignoto di un mondo a cui poter finalmente donare gli eccessi dell’amore di sé.
Il rischio, anche. Il rischio della brutalità e della paura.
Il rischio di vederlo finalmente in faccia, il male di vivere.
Tutto questo incontra chi vuole farla finita col mestiere di esistere.
I nostri contemporanei sembrano vivere per mestiere. Si dimenano boccheggianti tra mille obblighi, compreso il più triste – quello di divertirsi. L’incapacità di determinare la propria vita la mascherano con attività dettagliate e frenetiche, con una velocità che amministra comportamenti sempre più passivi.
Non conoscono la leggerezza del negativo.
Possiamo non vivere, ecco la più bella ragione per aprirsi con fierezza alla vita.
«Per dare la buonanotte ai suonatori c’è sempre tempo; tanto vale rivoltarsi e giocare» – così parla il materialismo della gioia.
Possiamo non fare, ecco la più bella ragione per agire.
Raccogliamo in noi stessi la potenza di tutti gli atti di cui siamo capaci, e nessun padrone potrà mai toglierci la possibilità del rifiuto.
Ciò che siamo e ciò che vogliamo cominciano con un no.
Da lì nascono le sole ragioni per alzarsi al mattino. Da lì nascono le sole ragioni per andare armati all’assalto di un ordine che ci soffoca.
Da un lato c’è l’esistente, con le sue abitudini e le sue certezze.
E di certezze, questo veleno sociale, si muore.
Dall’altro c’è l’insurrezione, l’ignoto che irrompe nella vita di tutti.
L’inizio possibile di una pratica esagerata della libertà.”
(Tratto da “Ai ferri corti con l'esistente”)

Kavernicole e kavernicoli

Guerra e carcere, Bladley Manning e la diserzione.
L'esistente ha la particolarità di dirsi democratico, dove la risoluzione dei problemi è affidata a due dispositivi di morte: la guerra e il carcere.
Il carcere è un'istituzione totalitaria e rappresenta, in tutti i suoi aspetti, il totalitarismo del sistema di morte in cui esistiamo. Ogni attività viene svolta nello stesso luogo, sotto stretta sorveglianza, dove il ticchettio dell'orologio viene scandito da gesti ripetitivi e avulsi nell'inutilità, attuando un'estrema standardizzazione dei comportamenti.
La razionalità imperterrita della prigione emette un sentenza aberrante su corpi e menti: eliminazione attraverso controllo e gestione, dove discorso penale e discorso psichiatrico si confondono nella totalità della prigionia, nell'ortopedia gestionale, nella considerazione del prigioniero come esperimento ed espiazione della sofferenza.
Il regime carcerario riesce a rendere naturale il castigo e la pena. Obiettivo principale nella sua prospettiva sociale il ricatto legalitario a cui tutti sono sottomessi. Si è obbligati ad esistere lavorando, si lavora (o non lavora) esistendo all'ombra delle carceri.
Sfruttamento, servitù, inganno e paura si mischiano in un'unica soluzione.
Va da sé che la guerra non è più qualcosa da dipingere come un “fuori”, ma è un macigno che entra nella nostre vita, nei nostri spazi, che ci opprime e ci mistifica.
Sappiamo, oggi, riconoscerla?
Questa società è sempre più sottomessa ai giganteschi apparati tecnologici e direttamente al gran Capitale che li produce.
Per difendersi, entrano nel regime della quotidiana manipolazione schiere di militari, per produrre e gestire un'emergenza sociale permanente. Se la guerra, convenzionalmente, ha bisogno di due eserciti che si combattono a vicenda, oggi quella convenzione è perduta. Il potere ha compreso che il nemico è irregolare e sfuggente. Quello che terrorizza la macchina dominante è una ribellione generalizzata ed informale, diffusa nelle strade, attraverso corpi e menti che trovano complicità nella sedizione pericolosa. Una rivolta senza legge, senza capi, senza esecutori ma orizzontale, esplosione tra le pieghe del contemporaneo sfruttamento. La prospettiva è sotto i nostri occhi: gestione dei conflitti affidati agli eserciti, il modello israeliano che viene esportato dovunque, muri e confini interni, ghetti di “scarti umani” sempre più a ridosso delle metropoli stellari, gentrification come cavallo di battaglia di qualunque piano urbanistico e videosorveglianza nelle strade.
La miseria progressiva, cioè l'unico progresso oggi di questo sistema, è una delle condizioni di esistenza del Capitale guerrafondaio mondiale.
Oggi questa miseria è in continua crescita. Per le forze militari il campo su cui confrontarsi non è più l'omogeneità di un conflitto di guerra, ma uno scontro asimmetrico, dove il nemico è rappresentato da una eterogeneità non codificabile, dove esso diventa per definizione interno. Da questo si può capire come sia emersa nel corso dell'ultimo decennio, una radicale indistinzione fra guerra interna e guerra esterna.
Se il potere, attraverso questo stato di guerra permanente, vuole far passare il concetto che militarmente si possano stanare le possibili rivolte contro questo esistente, è importantissimo comprendere che una possibile insurrezione non è una guerra, ma una rivolta generalizzata dove si mettono a sedere le vecchie abitudini, dove si rompe ogni legame con autorità e merce.
Più volte si è detto che solo una rottura della normalità può dare la possibilità di sperimentare forme di vita diverse. Allo stesso modo e per le identiche ragioni solo una rottura del discorso può dare la possibilità di sperimentare un linguaggio diverso. Ciò che è in gioco è qualcosa di completamente altro: un movimento senza misura, lo slancio di una parola esorbitante, che parla sempre al di là, che supera, sconfina e così minaccia tutto ciò che confina e che limita. Una parola che trasgredisce, non che blandisce. Assolutamente non assimilabile alla procedura del "dialogo" che la stupidità e l'ipocrisia liberale propongono come il massimo della libera comunicazione, mentre invece il dialogo, nella sua struttura binaria, è destinato all'adeguatezza di uno scambio di compromesso e tende a livellare nella banalità una parola plurale che deve restare sempre differente, parlando a partire dalla differenza, fino alla rottura, e ciò senza sosta, sempre di nuovo.
Essere intempestivi, contro-tempo. Laddove un mondo intero sollecita ad optare fra Coca o Pepsi, Cristo o Maometto, destra o sinistra, la libertà inizia con il silenzio ai suoi appelli, con l'assenza ai suoi appuntamenti, condizione necessaria per riuscire ad immaginare altro, a desiderare altro, a realizzare altro.
Una diserzione premessa di sedizione.
Questo, forse, oggi rappresenta la lotta di Bladley.
Individualità contro tutte le guerre

Vai a votare, puoi anche fare a meno di mettere una croce, ma la
scheda mettila almeno nell’urna» — così ci bisbiglia nell’orecchio la buona coscienza democratica.
Questa voce, demenziale quante poche altre, è in vena di concessioni: in effetti può capitare che in una elezione non ci siano candidati capaci di riscuotere la nostra fiducia, e quindi in simili casi è anche giustificato non votare per nessuno.
Ma alle urne, bisogna comunque andarci. Perché è un diritto, strappato attraverso enormi sacrifici alla più feroce tirannia. Perché è un dovere, che ogni bravo cittadino è tenuto a rispettare. Con la nostra scheda bianca, con la nostra scheda nulla, dimostreremo che la nostra parte in ogni modo l’avremo fatta. E saremo contati fra i votanti.
Invece no. Noi non andremo a votare.
Recarsi alle urne sarebbe l’ennesima concessione a un sistema che
merita di sparire il più in fretta possibile.
Non vogliamo essere contati, non siamo numeri.
Non abbiamo né diritti da rivendicare, né doveri cui adempiere.
Le tirannie si combattono molto meglio con la spada che con la carta.
Quanto alla cittadinanza, tutti hanno capito che fa rima con sudditanza.
Lo spettacolo è finito, non l’avete ancora capito?
Non ci sono né mai ci saranno candidati in grado di governare senza sfruttare, ingannare, derubare, opprimere.
Non vi daremo la soddisfazione di scambiare la vostra eterna infamia per una momentanea debolezza.
Non aspettateci alle urne. Abbiamo altro e di meglio da fare.

Anarco-freaks, nichilisti,
sfruttati, punks, non-produttivi

Qualche riflessione, un mondo altro.
Esprimiamo tutta la nostra solidarietà ad Aro e Colo, compagni di cui condividiamo pensieri e la gioia di quella notte.
Oltre alla solidarietà, affermiamo la nostra complicità nella rottura con questo mondo.
A chi ha usato le parole “prigionieri politici”, PRRRRRRRRRRRR.
Noi ci sentiamo prigionieri esistenziali, dove l'evasione da questo mondo fatto di sfruttamento e oppressione, questo ergastolo sociale, è quello per cui ci battiamo, sentiero che vogliamo esplorare in ogni momento e ovunque.
Riabbracciare i nostri compagni è stata un'emozione indescrivibile, atto pratico della scritta apparsa mercoledì sera, subito dopo l'arresto: I CUORI DI ARO E COLO SARANNO LIBERATI. LIBERI/E TUTTI/E.
C'è chi dice, c'è chi fa. C'è chi tiene la teoria al di fuori della pratica.
Tutto questo ci è avverso, come sbirri, padroni, banchieri, preti, politici e pennivendoli di regime.
Tutto questo ci ha fatto capire, ancora di più, che sono le relazioni rivoltose la sola cosa che salveremmo in questo sistema fatto di merda, di merce e di autoritarismo.
Con profonda collera verso l'esistente, ringraziamo tutte/i della solidarietà mostrata.

Anarchiche e anarchici di Cremona

Nella notte di martedì 5 febbraio, mentre ci adoperavamo nell'atto derisorio ai danni del potere bancario, il nostro saper fare è stato interrotto ora dallo spettro di una pallottola in testa ora dal rumore della mano poliziesca. Una volta presi in ostaggio, siamo stati rinchiusi nella sala fermi della caserma dei carabinieri; senza essere informati dei reati commessi, siamo stati lasciati al nulla della stanza fino alla dichiarazione di arresto avvenuta alle 18 del giorno seguente.
Il ricorso alla galera è scattato in quanto nelle nostre abitazioni (perquisite in mattinata), sono stati trovati “pericolosi” scritti anarchici, utilizzati dall'apparato repressivo per costruire la solita menzogna del mostro insurrezionalista. Le accuse con le quali varchiamo l'ingresso di Ca' del ferro (carcere di Cremona) sono pesantissime e spropositate ai fatti: due reati associativi, uno per danneggiamento, un altro per trasporto di esplosivi e, il tanto in voga 280 bis - terrorismo.
Il progetto politico non può che essere mediatico: le cazzate uscite dai giornali e la nostra liberazione avvenuta già Giovedì ne sono la conferma. Prigionieri politici!? Siamo anarchici: il privilegio della politica non solo ci disgusta, ma lo combattiamo come ogni forma di autorità.
Tutti liberi - tutti viventi!
Un caldo abbraccio agli amici/compagni/solidali
che fin dalle prime ore di mercoledì hanno scaldato i nostri cuori.
Per la libertà.