Guerra e carcere, Bladley Manning e la diserzione.
L'esistente ha la particolarità di dirsi democratico, dove la risoluzione dei problemi è affidata a due dispositivi di morte: la guerra e il carcere.
Il carcere è un'istituzione totalitaria e rappresenta, in tutti i suoi aspetti, il totalitarismo del sistema di morte in cui esistiamo. Ogni attività viene svolta nello stesso luogo, sotto stretta sorveglianza, dove il ticchettio dell'orologio viene scandito da gesti ripetitivi e avulsi nell'inutilità, attuando un'estrema standardizzazione dei comportamenti.
La razionalità imperterrita della prigione emette un sentenza aberrante su corpi e menti: eliminazione attraverso controllo e gestione, dove discorso penale e discorso psichiatrico si confondono nella totalità della prigionia, nell'ortopedia gestionale, nella considerazione del prigioniero come esperimento ed espiazione della sofferenza.
Il regime carcerario riesce a rendere naturale il castigo e la pena. Obiettivo principale nella sua prospettiva sociale il ricatto legalitario a cui tutti sono sottomessi. Si è obbligati ad esistere lavorando, si lavora (o non lavora) esistendo all'ombra delle carceri.
Sfruttamento, servitù, inganno e paura si mischiano in un'unica soluzione.
Va da sé che la guerra non è più qualcosa da dipingere come un “fuori”, ma è un macigno che entra nella nostre vita, nei nostri spazi, che ci opprime e ci mistifica.
Sappiamo, oggi, riconoscerla?
Questa società è sempre più sottomessa ai giganteschi apparati tecnologici e direttamente al gran Capitale che li produce.
Per difendersi, entrano nel regime della quotidiana manipolazione schiere di militari, per produrre e gestire un'emergenza sociale permanente. Se la guerra, convenzionalmente, ha bisogno di due eserciti che si combattono a vicenda, oggi quella convenzione è perduta. Il potere ha compreso che il nemico è irregolare e sfuggente. Quello che terrorizza la macchina dominante è una ribellione generalizzata ed informale, diffusa nelle strade, attraverso corpi e menti che trovano complicità nella sedizione pericolosa. Una rivolta senza legge, senza capi, senza esecutori ma orizzontale, esplosione tra le pieghe del contemporaneo sfruttamento. La prospettiva è sotto i nostri occhi: gestione dei conflitti affidati agli eserciti, il modello israeliano che viene esportato dovunque, muri e confini interni, ghetti di “scarti umani” sempre più a ridosso delle metropoli stellari, gentrification come cavallo di battaglia di qualunque piano urbanistico e videosorveglianza nelle strade.
La miseria progressiva, cioè l'unico progresso oggi di questo sistema, è una delle condizioni di esistenza del Capitale guerrafondaio mondiale.
Oggi questa miseria è in continua crescita. Per le forze militari il campo su cui confrontarsi non è più l'omogeneità di un conflitto di guerra, ma uno scontro asimmetrico, dove il nemico è rappresentato da una eterogeneità non codificabile, dove esso diventa per definizione interno. Da questo si può capire come sia emersa nel corso dell'ultimo decennio, una radicale indistinzione fra guerra interna e guerra esterna.
Se il potere, attraverso questo stato di guerra permanente, vuole far passare il concetto che militarmente si possano stanare le possibili rivolte contro questo esistente, è importantissimo comprendere che una possibile insurrezione non è una guerra, ma una rivolta generalizzata dove si mettono a sedere le vecchie abitudini, dove si rompe ogni legame con autorità e merce.
Più volte si è detto che solo una rottura della normalità può dare la possibilità di sperimentare forme di vita diverse. Allo stesso modo e per le identiche ragioni solo una rottura del discorso può dare la possibilità di sperimentare un linguaggio diverso. Ciò che è in gioco è qualcosa di completamente altro: un movimento senza misura, lo slancio di una parola esorbitante, che parla sempre al di là, che supera, sconfina e così minaccia tutto ciò che confina e che limita. Una parola che trasgredisce, non che blandisce. Assolutamente non assimilabile alla procedura del "dialogo" che la stupidità e l'ipocrisia liberale propongono come il massimo della libera comunicazione, mentre invece il dialogo, nella sua struttura binaria, è destinato all'adeguatezza di uno scambio di compromesso e tende a livellare nella banalità una parola plurale che deve restare sempre differente, parlando a partire dalla differenza, fino alla rottura, e ciò senza sosta, sempre di nuovo.
Essere intempestivi, contro-tempo. Laddove un mondo intero sollecita ad optare fra Coca o Pepsi, Cristo o Maometto, destra o sinistra, la libertà inizia con il silenzio ai suoi appelli, con l'assenza ai suoi appuntamenti, condizione necessaria per riuscire ad immaginare altro, a desiderare altro, a realizzare altro.
Una diserzione premessa di sedizione.
Questo, forse, oggi rappresenta la lotta di Bladley.
Individualità contro tutte le guerre