Il giornalismo pensa senza il piacere di pensare
Karl Kraus
Da qualche tempo a questa parte, ogni qual volta lo spettro emblematico del Kavarna finisce sotto i riflettori dell'opinione pubblica attraverso i giornali locali, questo viene costantemente associato ad una trama di rapporti politici e di relazione interpersonali che fanno di un luogo, il fienile autogestito che ha sede al Cascinetto, un'organizzazione dai chiari contorni identitari, alla cui guida ci sarebbe persino un capo!
Se ci fosse ancora bisogno di ribadirlo, il Kavarna non è un'organizzazione politica, ma un luogo fisico intorno al quale si intrecciano diverse individualità e progettualità, il cui minimo comune denominatore è il rifiuto dell'autorità e delle gerarchie. Va da sé che questa sperimentazione dal carattere anarchico non può coincidere con l'immagine che i giornalisti, senza interrogarsi sull'oggetto dei loro articoli, vorrebbero appiccicare addosso a questo luogo e alle persone che in vari modi lo attraversano. Troviamo d'altronde superfluo riflettere sulla deontologia del giornalismo nel momento in cui quest'ultimo diventa lo specchio pubblico della Questura; molto più interessante sarebbe ragionare sui perché taluni giornalisti continuano ad essere socialmente percepiti in modo diverso dagli sbirri.
Quello che ci preme raccontare è come l'immagine di un'organizzazione politica gerarchicamente strutturata sia funzionale ad un attacco repressivo che trova nel linguaggio giuridico il suo campo di battaglia: trasformare delle relazioni libere e solidali in una struttura gerarchica con tanto di capo e sottoposti è stato il deterrente che negli ultimi anni ha permesso alle Questure di varie città di prendersi delle rivincite nei confronti di chi promuove certi conflitti sociali e difende certe forme d'azione. Inventare ad arte ruoli e gerarchie è diventato uno dei passatempi preferiti della repressione, nella quale lo sbirro, il giudice e il giornalista, diventano gli attori di un'unica regia, costruita sul registro penale dei reati associativi di stampo mafioso e lanciata addosso contro coloro che reputa indesiderabili, a prescindere dai rapporti e affetti che intercorrono tra questi rompipalle.
Non ci interessa confrontarci con chi viene pagato per spettacolarizzare sulle nostre vite, tanto meno possiamo presagire nel dettaglio quali strumenti repressivi verranno utilizzati per stroncare i progetti che portiamo avanti; quello che invece possiamo fare è ribadire il nostro disprezzo per qualunque apparato politico e culturale intriso di infamia e autorità, nel quale anche delle semplici scritte sui muri si trasformano in qualcosa di simile a dei crimini di guerra, e contro il quale continueremo, con tutti i nostri pregi e difetti, a coltivare opposizione.
La diversità di segni e dove essi vengono incisi non è solo una differenza di linguaggio ma è soprattutto un modo altro di guardare il mondo.
cani sciolti e teste calde