Vai al contenuto

Voglio credere a promesse impossibili
e voglio cambiare il mondo per renderle possibili

Mary Shelley

Scriviamo dalla sponda delle isteriche, per le isteriche, le femministe che escludono, le scassacazzo. Perché sia chiaro: non ci scusiamo di niente, non veniamo a lamentarci, siamo solo colme di rabbia. Le accuse di inquisizione che ci lanciate in modo strumentale, con l'esplicito tentativo di screditarci, non possono che aumentare il nostro disprezzo. Miriamo a distruggere questo sistema mortifero, non a conquistare alcun potere al suo interno. Non scambieremmo il nostro posto con nessuno perché essere un'alterità è più interessante di qualsiasi altra «unità del movimento».

Dicono che non dovremmo neppure esistere ma siamo sempre esistite, forse abbiamo parlato troppo poco. Non abbiamo urlato abbastanza per allontanare gli stupratori dai luoghi che vogliamo attraversare, non abbiamo reagito abbastanza di fronte al mancato riconoscimento delle varie forme di violenza, non abbiamo schiaffeggiato abbastanza quando ci rispondevano che le questioni di genere si sarebbero affrontate dopo la rivoluzione. «Non è il momento giusto», un mantra che ci hanno continuamente ripetuto. Tra molteplici tentacoli del potere che vogliono catturarci vi è quello del patriarcato che si annida nelle nostre relazioni e nelle nostre viscere, ed è tale da richiedere la forza e il coraggio di guardarsi allo specchio e riconoscere in noi queste strutture.

È parecchio dura sentirsi accomunate al femminismo mainstream o a quel vetero femminismo filo-istituzionale ma, nonostante le spiegazioni a riguardo, continuano a ribadirlo e farciscono il loro pressapochismo aggiungendo che censuriamo, limitiamo il desiderio altrui, costituiamo dei tribunali. La lotta radicale a questa società e la ricerca di strutture protettive legalitarie sono due cose incomparabili, non vogliamo lasciarci ingabbiare in forme legali e le ripugniamo con la medesima rabbia e determinazione che ci spinge a voler distruggere l'esistente. Ma va bene così, tanto più che ci siamo salvate da una vita di merda a sciropparci discorsi teorici su come dovremmo essere anarchiche mentre le nostre compagne vengono inascoltate, derise, stuprate. Discorsi che non spalancano ad alcun orizzonte bensì aiutano ad indossare una benda nera che rende ciechi e spoglia dell'unicità l'individuo.
Ci facciamo cazziare da loro che hanno paura, come se fosse colpa nostra, dovremmo sentirci responsabili di quello che subiamo. Non sta a chi detiene un privilegio sentirsi responsabili delle dinamiche di potere che mette in atto, dei sottili schemi sessisti che ingabbiano relazioni, che creano ruoli. Sta a noi sentirci responsabili di quello che ci capita, di volerci convivere. È incredibile che chi detiene un privilegio venga a piangere perché la sottomessa non ci mette del suo. O facciamo le vittime, o non scopiamo come si deve, in ogni caso non abbiamo capito niente. Chissenefrega, non vogliamo piacervi ma essere la vostra spina nel fianco.

Nello stesso ordine di idee vi sono quei femminismi transfobici o pro-life che assomigliano tanto a una propaganda catto-fascista così rumorosa. Dobbiamo procreare e non scostarci dal binarismo uomo e donna, maschio o femmina, altrimenti verremo punite. Non dobbiamo allargare la prospettiva, riportando le esperienze di tutte quelle persone che hanno deciso di avvicinarsi il più possibile all'immagine che hanno di sé, nonostante i divieti religiosi e i pregiudizi morali di coloro che le vogliono ingabbiare nei corpi in cui sono nate. E se invece ci azzardiamo ad includere nelle nostre narrazioni questi vissuti, allora il nostro femminismo è ideologico ed escludente nei confronti di tutte coloro che si sentono vere donne, di tutte le persone che difendono una certa mistica della femminilità o della mascolinità e che ripudiano che un corpo non sentito come proprio possa essere trasformato.

Apparteniamo al sesso della paura, dell'umiliazione ed è su questi precetti che si costruisce la cultura dello stupro. Ma ci dicono che non è esattamente stupro, nessuno si considera uno stupratore, ciò che è successo è un'altra cosa. Lo stupro è inaccettabile, certamente, quello che fanno loro è altro. Già, perché se non avessimo voluto farci stuprare avremmo dovuto dire di no, una compagna non può non riuscire a farlo. Siamo disgustate. La parola di una compagna che muove un'accusa di stupro è prima di tutto una parola che viene messa in dubbio, bisogna sempre dimostrare che non eravamo d'accordo. Talvolta viene chiamata violenza o fattaccio ma finché quell'aggressione non viene chiamata con il suo nome perde la sua oscurità, sembra una strategia che ha una sua utilità. Dal momento che lo chiamiamo stupro tutte le credenze crollano e si mette in moto una messa in discussione totalizzante. Noi vogliamo strappare lo stupro a quell'incubo assoluto, al non detto, decidiamo di rialzarci e venirne fuori nel migliore dei modi possibili, anche vendicandoci. Nessuna parla di limitare le proprie pulsioni sessuali ma semplicemente capire cosa vuol dire NO, a prescindere dal modo in cui questo rifiuto viene manifestato.

Dinamiche di sopraffazione vorrebbero spacciarcele come simpatiche, pulsionali. Il termine sessualità è ben lungi dall'essere accostato alla violenza, se vi è consenso e desiderio, una complicità fra due o più corpi che si incontrano nell'atto del piacere. Ciò che definiamo violento è il controllo esercitato su di noi, decidere per noi.

Vogliamo guardarci allo specchio e spogliarci di tutte queste puzzolenti catene che ci vogliono far indossare, riuscendo a distruggerle sperimentando la meravigliosa possibilità di conoscerci. Le nostre parole parlano di noi, le nostre azioni parlano di noi, le nostre fantasie sessuali parlano di noi e dei nostri sogni.
Ardenti di desiderio lottiamo per l'esplosione di questo ordine che ci vuole accondiscendenti. Vittimizzazione, xenofemminismo, femminismo istituzionale, morale, linguaggio politically correct, mancato riconoscimento delle violenze. C'è sempre qualcuno che ha interesse che le cose restino come sono, e che non si provi a scavare in quella profondità oscura e infernale. Ci dicono che dobbiamo rimanere piantonate, normate ma non siamo addomesticabili. Vogliamo travolgere, non ci facciamo ammansire ed esprimiamo la nostra forza, che non determina una dominazione, ma genera caos. Conviviamo con ciò che ci viene imposto e con rabbia ascoltiamo tutto quello che non vogliamo sentire. Non abbiamo intenzione di scusarci per quello che ci impongono, né di far finta di trovarlo giusto. Siamo sopravvissute di una violenza inaudita, questa è la proposta: che se ne vadano a cagare, con la loro arroganza di sapere, con la loro ostentazione di far parte del movimento, con la loro capacità di lavarsene le mani sempre. È difficile sopportare sempre queste stronzate.

Non vogliamo che ci zittiscano, non vogliamo sottrarci al conflitto, è ora che la feccia si rivolti così com'è: puzzolente e stracciona ma ardente di sogni.

Si aprirà l’11 settembre a Lecce, un maxi processone contro quasi un centinaio di manifestanti, accusati, a vario titolo, di essersi opposti alla realizzazione del gasdotto Tap. Una sorta di evento spettacolare con grandi numeri, fatto più per impressionare e lasciare un segno repressivo che in qualche modo sia da monito anche per altri. Al di là della sede scelta per il processo, l’aula bunker, ufficialmente per motivi legati alle norme anti-covid, ufficiosamente per creare un clima adatto alla criminalizzazione dell’opposizione a Tap, che cosa resti nelle mani di accaniti e ligi dipendenti dell’Ordine e dell’Economia, non è molto. Non abbiamo nulla, infatti, da cui doverci difendere. Al contrario: questo processo dovrebbe essere un’accusa che si ribalta contro coloro che devastano la terra, per un progresso che ha svelato il suo volto marcio ormai da secoli. Infrastrutture impattanti, come un gasdotto, alimentano un sistema energivoro che produce solo devastazione, controllo, repressione. Basta guardarsi attorno. Non vi è nulla che non sia connesso e collegato alle altre cose. Per questo non possiamo pensare che la realizzazione di un gasdotto sia solo questo.

Esso invece è la realizzazione di un’opera che colonizza i luoghi e le menti. È l’espressione di un sistema economico che sta spingendo al baratro il pianeta, alla morte e alla schiavitù milioni di individui. Abbiamo una sensazione strana. Da qualche tempo ormai, da quando è scoppiata la questione xylella, questo territorio vive una trasformazione senza precedenti. Sulla morte della foresta di ulivi che lo abitavano, aleggiano gli interessi di lobby varie, dal turismo all’agricoltura industriale, tutto sembra andare nella direzione di un cambiamento economico radicale che impoverirà profondamente la natura di questi luoghi. E nel deserto che avanza, le infrastrutture energetiche troveranno di sicuro meno ostacoli. Tentativi in corso ormai da tempo anche con l’energia rinnovabile. Questo è ciò che sembra stia accadendo. Potremmo sbagliarci, ma che vi sia una lenta espropriazione di questi territori e di coloro che li abitano non sembra affatto fantascienza. Basta vedere che fine hanno fatto le tradizioni musicali, ormai imbalsamate, come in un museo, ad uso esclusivo della società dello spettacolo televisivo. Viene in mente ciò che è accaduto in Argentina, dove i Benetton hanno realizzato un museo dedicato ai Mapuche, dopo averli espropriati, uccisi e repressi, così da eliminarli e zittirli una volta per tutte e rendere testimonianza di ciò che si vuole solo passato. Ecco, nel Salento Nuovo non si vuole più vita ma solo testimonianza, sfruttamento, privatizzazione, morte culturale, omologazione, gentrificazione, emigrazione. Perciò, in questo processo, il posto da imputato è l’unico su cui ci si possa sedere, per avere tentato di opporsi almeno in parte al filo spinato che si sta ergendo davanti a noi. Ed averlo fatto praticamente, lottando, mettendo in mezzo i propri corpi. Se c’è qualcosa da difendere in questa storia, è proprio l’autodeterminazione di alcune decine di individui che, a dispetto di tutto, hanno provato ad essere sabbia negli ingranaggi del sistema industriale. E vanno difese anche le pratiche messe in atto, dai blocchi stradali, ai sabotaggi, dai disturbi arrecati alle ditte coinvolte, alle pietre. Molto poco purtroppo, ma è dall’esperienza che si impara di più, poiché l’esperienza rimane nel vissuto degli individui e delle popolazioni. Per cui, signori giudici, avete ben poco da giudicare. La vostra legge serve a garantire lo sfruttamento e il privilegio. Infrangerla è il minimo che si possa fare.

Alcuni anarchici, imputati e non

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è sterp.jpg

Il nuovo numero di Sterpaglia, aperiodico errante kavernicolo, è fuori sui peggiori muri e nei luoghi pulsanti della città in rovina.

Qui sotto trovate l'indice degli scritti e se cliccate sul link potete leggerlo, scaricarlo e diffonderlo.

Nel numero di Settembre 2020:
Il Caos delle chimere
La conquista della coscienza infelice
Carogne e fischietti
Paura?!

Fino a tempi non lontani la medicina si sforzava di valorizzare ciò che avviene in natura: favoriva la tendenza delle ferite a sanarsi, del sangue a coagularsi, dei batteri a farsi sopraffare dall'immunità naturale. Oggi invece essa cerca di materializzare i sogni della ragione. I contraccettivi orali, per esempio, vengono ordinati «per prevenire un evento normale nelle persone sane». Certe terapie inducono l'organismo a interagire con delle molecole o delle macchine in modi che non hanno precedenti nell'evoluzione. I trapianti implicano la completa obliterazione delle difese immunologiche programmate geneticamente. Perciò il collegamento fra il bene del malato e il successo dello specialista non si può dare per presupposto; ormai dev'essere dimostrato, e l'apporto netto della medicina al carico di malattia della collettività va calcolato dall'esterno della professione. Ma qualunque accusa contro la medicina per il danno clinico ch'essa provoca non è che il primo passo nell'incriminazione della medicina patogena. Il segno lasciato nei campi è solo un ricordo del danno ben maggiore procurato dal barone al villaggio devastato dalla sua caccia.

Iatrogenesi sociale

La medicina pregiudica la salute non soltanto con la diretta aggressione agli individui, ma anche per l'effetto della sua organizzazione sociale sull'intero ambiente. Quando il danno medico alla salute individuale è prodotto da un modo di trasmissione sociopolitico, parlerò di «iatrogenesi sociale», intendendo con questo termine tutte le menomazioni della salute dovute appunto a quei cambiamenti socioeconomici che sono stati resi desiderabili, possibili o necessari dalla forma istituzionale assunta dalla cura della salute. La iatrogenesi sociale designa una categoria eziologica che abbraccia molteplici manifestazioni. Insorge allorché la burocrazia medica crea cattiva salute aumentando lo stress, moltiplicando rapporti di dipendenza che rendono inabili, generando nuovi bisogni dolorosi, abbassando i livelli di sopportazione del disagio o del dolore, riducendo il margine di tolleranza che si usa concedere all'individuo che soffre, e addirittura abolendo il diritto di autosalvaguardarsi. La iatrogenesi sociale agisce quando la cura della salute si tramuta in un articolo standardizzato, un prodotto industriale; quando ogni sofferenza viene «ospitalizzata» e la case diventano inospitali per le nascite, le malattie e le morti; quando la lingua in cui la gente potrebbe far esperienza del proprio corpo diventa gergo burocratico; o quando il soffrire, il piangere e il guarire al di fuori del ruolo di paziente sono classificati come una forma di devianza.

Monopolio medico

Come il suo corrispettivo clinico, la iatrogenesi sociale, da aspetto occasionale, può svilupparsi fino a diventare una caratteristica intrinseca al sistema medico.

Quando l'intensità dell'intervento biomedico supera una soglia critica, la iatrogenesi clinica si trasforma in errore, infortunio o difetto, in una insanabile perversione della pratica medica. Allo stesso modo, quando l'autonomia professionale degenera in un monopolio radicale e la gente è resa incapace di far fronte al proprio ambiente, allora la iatrogenesi sociale diventa il principale prodotto dell'organizzazione medica.

Il monopolio radicale va più in fondo di quello di una ditta o di un governo. Può assumere varie forme. Quando una città viene costruita intorno ai veicoli, toglie valore ai piedi umani; quando la scuola ha la prelazione sull'apprendimento, svaluta l'autodidatta; quando l'ospedale diventa il centro di raccolta obbligato di tutti quelli che si trovano in condizioni critiche, impone alla società una nuova forma di agonia. I monopoli comuni si accaparrano il mercato; i monopoli radicali rendono la gente incapace di fare da sé. Il monopolio commerciale limita il flusso di merci; il monopolio sociale, più insidioso, paralizza la produzione dei valori d'uso non commerciali. I monopoli radicali usurpano ancora di più la libertà e l'indipendenza: rimodellando l'ambiente e «appropriandosi» di quelle sue caratteristiche generali che avevano fin lì permesso alla gente di cavarsela da sola, obbligano un'intera società a sostituire i valori d'uso con delle merci.

L'istruzione intensiva fa dell'autodidatta un candidato alla disoccupazione, l'agricoltura intensiva elimina il contadino autosufficiente, lo spiegamento di polizia sgretola la capacità d'autocontrollo della comunità. La propagazione maligna della medicina ha risultati analoghi: trasforma l'assistenza reciproca e l'automedicazione in atti illeciti o criminosi. Come la iatrogenesi clinica diventa incurabile dai medici quando raggiunge una intensità critica e può allora regredire solo con un ridimensionamento dell'impresa, così la iatrogenesi sociale è reversibile solo mediante un'azione politica che riduca il dominio professionale.

Il monopolio radicale si nutre di se stesso. La medicina iatrogena rafforza una società morbosa nella quale il controllo sociale della popolazione da parte del sistema medico diventa un'attività economica fondamentale; serve a legittimare ordinamenti sociali in cui molti non riescono ad adattarsi; definisce inabili gli handicappati e genera sempre nuove categorie di pazienti. L'individuo che è irritato, nauseato e menomato dal lavoro e dallo svago industriali può trovare scampo solo in una vita sotto vigilanza medica e viene distolto o escluso dalla lotta politica per un mondo più sano.

La iatrogenesi sociale non è ancora accettata come una normale eziologia di stato morboso. Se si ammettesse che la diagnosi spesso serve come mezzo per convertire le lagnanze politiche contro lo stress della crescita in richieste di maggiori terapie che significano solo maggiori quantità dei suoi costosi e stressanti prodotti, il sistema industriale perderebbe una delle sue principali difese. Nello stesso tempo, la consapevolezza della misura in cui la cattiva salute iatrogena è trasmessa politicamente scuoterebbe le basi del potere medico molto di più di qualunque catalogo delle insufficienze tecniche della medicina.

Cure indipendenti dai valori?

Il problema della iatrogenesi sociale viene spesso confuso con l'autorità diagnostica del guaritore. Per disinnescare il problema e difendere la propria reputazione, alcuni medici insistono sull'ovvio: e cioè che non si può praticare la medicina senza che si abbia una creazione iatrogena di malattia. La medicina crea sempre la malattia come stato sociale. Il guaritore ufficialmente riconosciuto trasmette agli individui le possibilità sociali di comportarsi da malati. Ogni cultura ha un proprio modo di concepire la malattia e quindi una sua peculiare maschera sanitaria. La malattia prende i suoi caratteri dal medico, il quale assegna agli attori uno dei ruoli disponibili. Rendere la gente legittimamente malata è altrettanto implicito nel potere del medico quanto il potenziale tossico nel rimedio che funziona. Lo stregone padroneggia veleni e incantesimi. L'unico termine che avevano i greci per «medicinale», pharmakon, non faceva distinzioni tra il potere di guarire e il potere di uccidere.

La medicina è un'impresa morale, e inevitabilmente perciò dà contenuto al bene e al male. In ogni società la medicina, al pari del diritto e della religione, definisce ciò che è normale, giusto o desiderabile. La medicina ha l'autorità di etichettare come malattia legittima ciò che lamenta un individuo, di dichiarare malato un altro che non si lamenta, e di rifiutare a un terzo il riconoscimento sociale della sua sofferenza, della sua invalidità e persino della sua morte. È la medicina che autentica un certo dolore come «meramente soggettivo», una determinata infermità come simulazione e certe morti (e non altre) come suicidio. Il giudice stabilisce che cosa è legale e chi è colpevole, il prete dichiara che cosa è sacro e chi ha violato un tabù; il medico decide che cosa è un sintomo e chi è malato. Egli è un imprenditore morale, dotato di poteri inquisitori per scoprire certi torti da raddrizzare. Come tutte le crociate, la medicina crea un nuovo gruppo di diversi ogni volta che fa attecchire una nuova diagnosi. La morale è altrettanto implicita nella malattia quanto nel delitto o nel peccato.

Nelle società primitive è ovvio per tutti che l'esercizio dell'arte medica comporta il riconoscimento di un potere morale: nessuno chiamerebbe lo stregone se non gli riconoscesse l'abilità di discernere gli spiriti maligni da quelli buoni. In una civiltà superiore questo potere si espande. Qui la medicina è esercitata da specialisti a tempo pieno, i quali controllano vaste popolazioni per mezzo di istituzioni burocratiche. Questi specialisti formano professioni le quali esercitano sul loro lavoro un tipo di controllo che è unico nel suo genere. Diversamente dai sindacati, infatti, esse debbono la loro autonomia non alla vittoria conseguita in una lotta, ma a un mandato di fiducia. Diversamente dalle associazioni di mestiere, le quali si limitano a stabilire chi ha il diritto di lavorare e a quali patti, esse stabiliscono anche quale lavoro bisogna fare. Nata spesso da riforme delle facoltà di medicina (negli Stati Uniti, per esempio, alla vigilia della prima guerra mondiale), la professione medica è la manifestazione, in un settore particolare, del controllo sulla struttura del potere di classe acquisito dalle élite di formazione universitaria nel corso dell'ultimo secolo. Soltanto i dottori oggi «sanno» che cosa costituisce una malattia, chi è malato, e che cosa bisogna fare al malato e a quelli che essi considerano «esposti ad uno speciale rischio». Paradossalmente, la medicina occidentale, che ha sempre affermato di voler tenere separato il proprio potere dalle religione e dalla legge, l'ha ormai esteso al di là di ogni precedente. In alcune società industriali la classificazione sociale è stata medicalizzata a tal punto che ogni devianza deve avere un'etichetta medica. L'eclissi della componente esplicitamente morale della diagnosi medica ha così conferito all'autorità asclepiea un potere totalitario.

Si è difeso il divorzio della medicina dalla morale con l'argomento che le categorie mediche, a differenza di quelle giuridiche e religiose, poggiano su fondamenti scientifici non soggetti a giudizio morale. L'etica sanitaria è stata occultata in un reparto specializzato, che aggiorna la teoria alla pratica effettiva. I tribunali e la legge, quando non vengono impiegati per far rispettare il monopolio asclepieo, sono trasformati in portieri dell'ospedale, addetti a selezionare tra i postulanti quelli che rispondono ai criteri stabiliti dai medici. Gli ospedali diventano monumenti di scientismo narcisistico, concretizzazioni dei pregiudizi professionali ch'erano di moda il giorno in cui fu posta la loro prima pietra e che spesso risultano superati il giorno dell'inaugurazione. L'impresa tecnica del medico vanta un potere esente da valori. In un simile contesto, è ovvio, diventa facile schivare il problema della iatrogenesi sociale di cui mi occupo. Il danno medico mediato politicamente viene visto come inerente al mandato della medicina, e chi lo critica è considerato un sofista che cerca di giustificare l'intrusione dei profani nel territorio di competenza del medico. Proprio per questo motivo è urgente un'analisi profana della iatrogenesi sociale. L'affermazione che l'attività terapeutica sarebbe indipendente dai valori è ovviamente un nefasto nonsenso, e i tabù che hanno fatto scudo alla medicina irresponsabile cominciano a crollare.

La medicalizzazione del bilancio

La misura più semplice della medicalizzazione della vita è la quota del reddito annuo tipico che viene spesa su ordine del medico. […]

In tutti i paesi la medicalizzazione del bilancio è in rapporto con ben note situazioni di sfruttamento all'interno della struttura di classe. Non c'è dubbio che il dominio delle oligarchie capitalistiche negli Stati Uniti, l'arroganza dei nuovi mandarini in Svezia, la servilità e l'etnocentrismo dei professionisti moscoviti e le manovre di corridoio degli ordini dei medici e dei farmacisti, come pure la nuova ondata di sindacalismo corporativo nel settore sanitario, costituiscono tanti formidabili ostacoli a una distribuzione delle risorse che avvantaggi i malati anziché i loro sedicenti tutori. Ma la ragione fondamentale per cui queste costose burocrazie sono perniciose per la salute non sta nella loro funzione strumentale, bensì nella loro funzione simbolica; esse esaltano tutte quante il concetto di prestazioni di assistenza per la componente umana della megamacchina, e le critiche che rivendicano una prestazione migliore e più equa non fanno che consolidare l'impegno sociale a tener occupata la gente in lavori che la fanno ammalare. La guerra tra i fautori delle mutue e quelli che invece vogliono un servizio sanitario nazionale, come la guerra tra chi difende e chi combatte la libera professione, sposta l'attenzione pubblica dal danno causato dalla medicina che protegge un ordinamento sociale distruttivo, al fatto che i medici fanno meno di quanto ci si aspetta a tutela della società dei consumi.

Al di là di una certa incidenza sul bilancio, il denaro che espande il controllo medico sullo spazio, sugli orari, sull'istruzione, sulla dieta, sul disegno delle macchine e dei beni finisce inevitabilmente per scatenare un «incubo forgiato di buone intenzioni». Il denaro può sempre minacciare la salute; troppo denaro la corrompe. Al di là di un certo punto, ciò che può produrre denaro o ciò che si può comprare col denaro restringe l'ambito della «vita» scelta autonomamente. Non soltanto la produzione ma anche il consumo accentua la scarsità di tempo, di spazio e di scelta. Il prestigio della merce medica non può quindi che insidiare la coltivazione della salute, la quale, all'interno di un ambiente dato, dipende in larga misura dal vigore innato e congenito. Quanto più tempo, fatica e sacrifici vengono spesi per produrre medicina-merce, tanto maggiore sarà il sottoprodotto, cioè la falsa idea che la società abbia una provvista di salute riposta che può essere tirata fuori e messa sul mercato. La funzione negativa del denaro è quella di un indicatore della svalutazione dei beni e servizi che non si possono comprare. Più alto è il prezzo da sborsare per carpire il benessere, tanto maggiore è il prestigio politico d'una espropriazione della salute pubblica.

L'invasione farmaceutica

Non occorrono dottori per medicalizzare ifarmaci di una società. Anche senza troppi ospedali e facoltà di medicina una cultura può diventare preda di una invasione farmaceutica. Ogni cultura ha i suoi veleni, i sui rimedi, i suoi placebo e i suoi scenari rituali per la loro somministrazione. La maggior parte di essi è destinata ai sani più che ai malati. I potenti farmaci medici distruggono facilmente la struttura, radicata nella storia, che adatta ogni cultura ai suoi veleni; di solito essi procurano più danno che beneficio alla salute, e finiscono con l'instaurare una nuova mentalità per cui il corpo viene visto come una macchina, azionata da manopole e interruttori meccanici.

[…] Ancora 10 anni fa, in Messico, quando la popolazione era povera, i medicinali relativamente scarsi e la maggior parte dei malati era assistita dalla vecchia nonna o dall'erborista, i prodotti farmaceutici erano accompagnati da un foglietto di spiegazioni; oggi che le medicine sono più abbondanti, potenti e pericolose e si vendono per televisione e per radio e la gente che ha fatto le scuole si vergogna della propria residua fede nel guaritore azteco, il foglietto descrittivo è stato sostituito da un'avvertenza sempre uguale che dice: «Da usare secondo prescrizione medica». La finzione intesa a esorcizzare il farmaco medicalizzandolo, in realtà, non fa che confondere l'acquirente: ammonendolo a consultare un medico gli fa credere d'essere incapace di badare a se stesso. Nella maggior parte del mondo i medici non sono abbastanza ben distribuiti per poter prescrivere terapie a doppio taglio ogni volta che occorre, ed essi stessi nella maggioranza dei casi sono impreparati, o troppo ignoranti, per poter prescrivere con la necessaria cautela. Di conseguenza la funzione del medico, specialmente nei Paesi poveri, è diventata banale: il dottore si è trasformato in una volgare macchina da ricette che tutti prendono in giro, e la maggioranza della gente prende ormai le stesse medicine, altrettanto a caso, ma senza il suo benestare. […]

Lo stigma preventivo

Mentre l'intervento curativo si veniva concentrando sempre su stati per i quali esso è inefficace, costoso e doloroso, la medicina cominciava a smerciare prevenzione. Il concetto di morbosità si è esteso fino ad abbracciare i rischi pronosticati. Dopo la cura delle malattie, anche la cura della salute è diventata una merce, cioè qualcosa che si compra e non che si fa. […] Ci si tramuta in pazienti senza essere malati. La medicalizzazione della prevenzione diventa così un altro grande sintomo di iatrogenesi sociale. Essa tende a trasformare la mia responsabilità personale per il mio futuro in gestione del mio essere da parte di qualche agenzia. […]

L'esecuzione sistematica di controlli diagnostici precoci su vaste popolazioni garantisce al medico-ricercatore un'ampia base da cui attingere i casi che meglio si adattano ai sistemi di cura esistenti o che sono più utili per portare avanti le indagini, servano o no le terapie a guarire o a dare sollievo. Ma mentre avviene questo, le persone si rafforzano nell'idea di essere delle macchine la cui durata dipende dalle visite all'officina di manutenzione, e sono così non solo obbligate ma trascinate a pagare perché la corporazione medica possa fare i suoi studi di mercato e sviluppare la sua attività commerciale.

La diagnosi, sempre, aggrava lo stress, stabilisce un'incapacità, impone inattività, concentra i pensieri del soggetto sulla non-guarigione, sull'incertezza e sulla sua dipendenza da futuri ritrovati medici: tutte cose che equivalgono a una perdita di autonomia nella determinazione di sé. Inoltre, isola la persona in un ruolo speciale, la separa dai normali e dai sani ed esige sottomissione all'autorità di un personale specializzato. Quando tutta una società si organizza in funzione di una caccia preventiva alle malattie, la diagnosi assume allora i caratteri di una epidemia. Questo strumento tronfio della cultura terapeutica tramuta l'indipendenza della normale persona sana in una forma intollerabile di devianza. Alla lunga, l'attività principale di una simile società dai sistemi introvertiti porta alla produzione fantomatica di speranza di vita come merce. Identificando l'uomo statistico con gli uomini biologicamente unici, si crea una domanda insaziabile di risorse finite. L'individuo è subordinato alle superiori «esigenze» del tutto, le misure preventive diventano obbligatorie, e il diritto del paziente a negare il consenso alla propria cura si vanifica allorché il medico sostiene ch'egli deve sottoporsi alla diagnosi non potendo la società permettersi il peso d'interventi curativi che sarebbero ancora più costosi.

Tratto da Nemesi medica di Ivan Illich, 1976

Una lettera di Carla dal carcere di Fresnes (Parigi) ricevuta da alcuni compagni prima che fosse estrada in Italia.

Fresnes, 19 agosto 2020

Ciao,

dopo 536 giorni di latitanza sono stata arrestata il 26 luglio scorso vicino St. Etienne. Ho vissuto il mio arresto come la prima messa in scena di una rappresentazione ripetuta mille volte nella mia testa, o meglio 536 volte… Mi è sembrato che tutto andasse al rallentatore: gli sbirri col passamontagna che mi puntano contro i loro fucili, mi sbattono a terra e mi chiedono il nome che così spesso ho taciuto in questi ultimi tempi e che mi ha fatto strano pronunciare. In seguito la SDAT (reparto antiterrorista della polizia francese, ndt) mi ha portato a Parigi: quattro ore di viaggio con le manette dietro la schiena in compagnia dei loro passamontagna. Pochi chilometri prima di arrivare nella loro sede a Levallois-Perret mi hanno bendato gli occhi. Sempre loro, due giorni dopo il mio arresto, mi hanno condotto prima in tribunale e poi nella prigione di Fresnes.

Durante l’udienza che ha convalidato il mio arresto, ho accettato senza esitare la mia estradizione. Avevo seguito con attenzione ciò che era capitato a Vincenzo Vecchi (che approfitto per salutare) che invece aveva preferito rifiutare l’estradizione dandosi una possibilità di rimanere libero in Francia. Per quanto mi riguarda questo avrebbe significato attendere il processo in Francia invece che in Italia dove si trovano gli altri accusati nell’operazione Scintilla, al momento tutti liberi ad eccezione di Silvia, sottoposta tuttora a divieto di dimora dal comune di Torino.

Sembra che negli ultimi tempi l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo e l’estradizione che ne consegue, costituiscano per la giustizia europea delle semplici formalità burocratiche da espletare. Lo abbiamo visto recentemente in Italia in diverse riprese, ma anche in occasione della repressione seguita alle rivolte di Amburgo o in Grecia e in Spagna. Le polizie europee affinano le proprie armi e le loro collaborazioni sembrano essere sempre più strette, con scambi di soffiate e favori. Alla luce di questi ultimi avvenimenti penso che stia a noi interessarci alla questione e studiarne i meccanismi.

Scopro la prigione al tempo del coronavirus: la quarantena regolamentare ai nuovi giunti, la mascherina per ogni spostamento e per tutta la durata dell’aria, la sospensione di ogni attività e cella chiusa 22 ore su 24. Al termine della mia quarantena e alla vigilia della data prevista per la mia estradizione, io e tutte le altre detenute presenti nella sezione delle nuove giunte siamo state messe per la seconda volta in isolamento sanitario con la scusa che avevamo condiviso l’ora d’aria con una nuova giunta risultata positiva al covid.

I test ai quali siamo state sottoposte dopo questo conclamato caso, e che all’inizio ci era stato detto non fossero possibili per tutte le detenute, ora sono prassi per tutte le nuove giunte. Non sorprende vedere come l’amministrazione penitenziaria arrivi perennemente in ritardo.

Durante la primavera scorsa le misure adottate dall’amministrazione penitenziaria in risposta al diffondersi del Covid19 hanno causato delle rivolte e una forte solidarietà nelle prigioni. Sfortunatamente, almeno qui, sembra che convivere con il virus sia diventato la norma, e al timore che una nuova giunta sia positiva e possa contagiare le altre si aggiunge la paura di vedersi sospendere i colloqui, come è successo a noi quest’ultima settimana. I magri palliativi concessi in primavera dall’amministrazione penitenziaria sotto forma di crediti telefonici fanno ormai parte del passato e un piccolo gruppo di nuove giunte non può essere all’altezza delle grosse mobilitazioni dello scorso marzo. Aspetto l’estradizione da un momento all’altro e so che molto probabilmente quando arriverò in Italia mi aspetterà un terzo periodo di isolamento sanitario.

Per il momento mi godo tutte le dimostrazioni di solidarietà dopo tanto silenzio. Malgrado le pubblicazioni sul tema, sicuramente preziose, la latitanza viene considerata ancora troppo spesso come un’avventura romantica e si pensa di solito ai/alle compagni/e come liberi/e. In quest’anno e mezzo non mi sono mai mancati né la solidarietà né un sostegno caloroso, non mi è mai mancato nulla, ma non si è liberi quando si è privati della propria vita.

Avrei voluto essere in strada assieme ai/lle miei compagni/e durante le manifestazioni in risposta allo sgombero dell’Asilo, ho accompagnato con il pensiero lo sciopero della fame lanciato da Silvia, Anna e Natascia, ho pensato ogni giorno ai/lle compagni/e arrestati/e nelle ondate successive. Avrei voluto essere al fianco dei miei familiari quando hanno conosciuto dei momenti difficili e avere loro notizie durante il lock-down.

Oggi sono pronta e determinata ad affrontare i prossimi mesi, ma il mio pensiero va a coloro che sono ancora in giro, spesso lontani dalle persone care. Spero possano rimanere in giro fin tanto che lo vorranno e che gli incontri che faranno diano loro il calore e la forza per continuare a lottare.

Carla

Per scriverle:

Carla Tubeuf

Casa Circondariale di Vigevano

Via Gravellona 240

27029 Vigevano (PV)