Si aprirà l’11 settembre a Lecce, un maxi processone contro quasi un centinaio di manifestanti, accusati, a vario titolo, di essersi opposti alla realizzazione del gasdotto Tap. Una sorta di evento spettacolare con grandi numeri, fatto più per impressionare e lasciare un segno repressivo che in qualche modo sia da monito anche per altri. Al di là della sede scelta per il processo, l’aula bunker, ufficialmente per motivi legati alle norme anti-covid, ufficiosamente per creare un clima adatto alla criminalizzazione dell’opposizione a Tap, che cosa resti nelle mani di accaniti e ligi dipendenti dell’Ordine e dell’Economia, non è molto. Non abbiamo nulla, infatti, da cui doverci difendere. Al contrario: questo processo dovrebbe essere un’accusa che si ribalta contro coloro che devastano la terra, per un progresso che ha svelato il suo volto marcio ormai da secoli. Infrastrutture impattanti, come un gasdotto, alimentano un sistema energivoro che produce solo devastazione, controllo, repressione. Basta guardarsi attorno. Non vi è nulla che non sia connesso e collegato alle altre cose. Per questo non possiamo pensare che la realizzazione di un gasdotto sia solo questo.
Esso invece è la realizzazione di un’opera che colonizza i luoghi e le menti. È l’espressione di un sistema economico che sta spingendo al baratro il pianeta, alla morte e alla schiavitù milioni di individui. Abbiamo una sensazione strana. Da qualche tempo ormai, da quando è scoppiata la questione xylella, questo territorio vive una trasformazione senza precedenti. Sulla morte della foresta di ulivi che lo abitavano, aleggiano gli interessi di lobby varie, dal turismo all’agricoltura industriale, tutto sembra andare nella direzione di un cambiamento economico radicale che impoverirà profondamente la natura di questi luoghi. E nel deserto che avanza, le infrastrutture energetiche troveranno di sicuro meno ostacoli. Tentativi in corso ormai da tempo anche con l’energia rinnovabile. Questo è ciò che sembra stia accadendo. Potremmo sbagliarci, ma che vi sia una lenta espropriazione di questi territori e di coloro che li abitano non sembra affatto fantascienza. Basta vedere che fine hanno fatto le tradizioni musicali, ormai imbalsamate, come in un museo, ad uso esclusivo della società dello spettacolo televisivo. Viene in mente ciò che è accaduto in Argentina, dove i Benetton hanno realizzato un museo dedicato ai Mapuche, dopo averli espropriati, uccisi e repressi, così da eliminarli e zittirli una volta per tutte e rendere testimonianza di ciò che si vuole solo passato. Ecco, nel Salento Nuovo non si vuole più vita ma solo testimonianza, sfruttamento, privatizzazione, morte culturale, omologazione, gentrificazione, emigrazione. Perciò, in questo processo, il posto da imputato è l’unico su cui ci si possa sedere, per avere tentato di opporsi almeno in parte al filo spinato che si sta ergendo davanti a noi. Ed averlo fatto praticamente, lottando, mettendo in mezzo i propri corpi. Se c’è qualcosa da difendere in questa storia, è proprio l’autodeterminazione di alcune decine di individui che, a dispetto di tutto, hanno provato ad essere sabbia negli ingranaggi del sistema industriale. E vanno difese anche le pratiche messe in atto, dai blocchi stradali, ai sabotaggi, dai disturbi arrecati alle ditte coinvolte, alle pietre. Molto poco purtroppo, ma è dall’esperienza che si impara di più, poiché l’esperienza rimane nel vissuto degli individui e delle popolazioni. Per cui, signori giudici, avete ben poco da giudicare. La vostra legge serve a garantire lo sfruttamento e il privilegio. Infrangerla è il minimo che si possa fare.
Alcuni anarchici, imputati e non