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A proposito di Kavarna

...la passione per la libertà è più forte d'ogni autorità...

Se proviamo a leggere la realtà che ci circonda ci accorgiamo che stiamo assistendo allo sviluppo di profonde trasformazioni dal punto di vista della gestione del potere politico ed economico. Tali cambiamenti si riflettono anche a livello sociale. È necessario confrontarsi con le trasformazioni in atto e tenerne conto in quelle che sono le nostre analisi e prospettive di attacco. Il capitale non è in crisi, ma più "semplicemente" le scelte finanziarie degli Stati hanno creato delle difficoltà nella tradizionale gestione del mercato e hanno prodotto, in generale, un peggioramento delle condizioni di vita dei consumatori-cittadini. Le contraddizioni che il capitale ha sviluppato hanno contribuito a determinare in alcune zone delle occasioni di scontro, più o meno cruente e di lunga durata, fra i guardiani del potere e le sue strutture e quelle sacche di popolazione stanche di essere escluse dagli agi che il fasullo benessere delle società del consumo promettono. Di fronte a ciò è naturale chiedersi che fare. Essere «qui ed ora» è infatti alla base del nostro desiderio di rottura violenta con ogni sistema di valori, con il capitale e le sue sfumature. Nell’ambito di tali riflessioni e nella definizione di prospettive che possano orientarci nelle strade incerte ed inesplorate della rivolta crediamo sia necessario evitare di confrontarsi con la realtà con gli occhi insabbiati da quei facili entusiasmi che rischiano di far vedere insurrezioni ad ogni angolo, complici in ogni indignato, soggetti rivoluzionari in ogni sfruttato. Al tempo stesso crediamo sia altrettanto pericoloso rimanere ancorati ad una sorta di pessimismo realista che rischia di renderci immobili di fronte allo scorrere del tempo, di trasformarci in attendisti imprigionati in una logica di tipo determinista. Ciò che riteniamo fondamentale è porsi in un’ottica di lucida osservazione che può consentirci di cogliere le trasformazioni in atto, individuare gli aspetti vulnerabili del nemico, per poter meglio valutare cosa e come attaccare. In una condizione mentale e materiale in cui domina l’urgenza di esserci (e non di essere), cioè di definizione di un proprio ruolo all’interno di una possibile conflittualità diffusa, si rischia di perdere di vista la centralità della questione: la necessità di partire da sé, dalle proprie idee e prospettive anarchiche. Ecco dunque che in occasione di una rivolta spontanea il problema degli anarchici non è quello di cercare un ruolo tra altri ruoli, di trovare il modo per farsi accettare dagli altri, di risultare gradevoli o nascondere i propri veri desideri per catturare alleanze. Sarebbe semmai utile scegliere delle condizioni di attacco che impediscano un ritorno alla normalità, sperimentare l'agire che ci appartiene, trovare degli obiettivi che la spontaneità da sola può non essere in grado di trovare. Qualsiasi ipotesi insurrezionale è imprevedibile e indipendente da noi, ma come anarchici, in un’ottica di conflittualità permanente e di definizione di progetti insurrezionali possiamo certo dare un contributo fondamentale a quando accade.  Il problema che bisognerebbe porsi, secondo noi, non è tanto come relazionarsi alle possibilità di rivolta per strada, di lotte territoriali e/o specifiche che potrebbero radicalizzarsi e diffondersi, quanto come continuare ad agire e ad attaccare, in una dimensione pratica e teorica, alla luce delle trasformazioni in atto all’interno della società e dei meccanismi di dominio. Analizzare le pratiche e i percorsi di lotta in relazione agli obiettivi è tappa fondamentale di un discorso volto ad individuare i limiti e le prospettive nella teoria e nella pratica della sovversione sociale. Per poter meglio toccare i diversi quesiti e proposte che intendiamo portare avanti in questa sede individuiamo in alcuni punti alcune delle argomentazioni che vorremmo portare all’attenzione dei compagni. Crediamo sia urgente affrontare la questione delle modalità di comunicazione fra compagni. Il problema può essere affrontato distinguendo due aspetti, quello delle modalità con cui decidiamo di comunicare e quello del valore che riconosciamo agli strumenti che di volta in volta scegliamo di utilizzare. Nello specifico ci riferiamo all'uso della rete telematica e il modo con cui ci relazioniamo alla stessa. L'utilizzo da parte nostra degli strumenti, seppur in piccola parte, è un dato di fatto, ma questo non è di certo un elemento per il quale possiamo considerarli utili in caso di insurrezioni o strumento fondamentale nella definizione delle nostre prospettive o, addirittura, qualcosa di cui possiamo liberamente disporre. I sistemi di comunicazione di tipo virtuale hanno avuto uno sviluppo incredibile all'interno delle società in cui viviamo negli ultimi vent'anni e permeano ogni giorno di più la realtà e il sistema di relazioni fra le persone. Non possiamo ignorare che tali sistemi siano lentamente entrati nelle nostre vite, condizionando inevitabilmente anche il nostro modo di rapportarci con gli altri, con ciò che ci circonda e con gli strumenti telematici stessi. Tutto ciò è accaduto nonostante ognuno di noi sia consapevole che l'irrealtà virtuale è funzionale al potere e ne è la forza. Nell'ultimo decennio i metodi tradizionali con cui facevamo circolare le idee, come ad esempio giornali, volantini, manifesti, libri, si sono ridotti sensibilmente e la diffusione delle idee stesse è stata quasi totalmente delegata all'universo virtuale. È più che mai indispensabile tornare a rispolverare le vecchie forme di incontro e comunicazione fra compagni e sperimentarne di nuove, ma che siano soltanto nostre e non del nemico. Tornare ad incontrarsi e prendersi il tempo per farlo, cosa resa sempre più difficile dai ritmi imposti dalla vita moderna, ritmi che più o meno consapevolmente abbiamo fatto nostri. Capita spesso di sentire qualcuno fare considerazioni sulla possibilità di sfruttare gli strumenti telematici in situazioni specifiche, ma trovarsi faccia a faccia con un uso pressoché quotidiano di internet, in particolare per lo scambio di informazioni e idee, ci ha mostrato quanto la realtà virtuale giunge a condizionare in modo negativo il modo di relazionarsi stesso. L'idea di un {\em buon uso} della realtà virtuale in una prospettiva rivoluzionaria non ci convince, crediamo infatti che prendere in considerazione una tale possibilità comporterebbe scegliere delle vie che non danno alcuna garanzia perché funzionali al capitale e gestite dal potere. La telematica e lo sviluppo tecnologico devono semmai essere potenziali obiettivi d'attacco.  

Sabotare la produzione

La macchina del capitale si alimenta grazie alle strutture di potere (burocrazie e istituzioni), meccanismi di repressione e di controllo (carceri, tribunali, forze militari e di polizia, sistemi di sorveglianza), al lavoro, al consenso, alla produzione. La critica radicale e le prospettive di attacco devono quindi svilupparsi su più livelli, da un punto di vista sia teorico che pratico. Nello specifico il sistema di produzione e consumo è ciò che lega ed incatena direttamente gli individui al capitale e alle sue sfumature. La creazione di falsi bisogni determina la sottomissione, più o meno consapevole, allo sfruttamento nel lavoro, alle logiche di colonialismo economico. La produzione di energia, i complessi industriali e di fabbrica più o meno delocalizzati, la diffusione della merce sono alla base del funzionamento di questo mondo. Ed è proprio in questa direzione che bisogna agire, senza aspettare che quel muro di mercificazione, che si sta infiltrando in ogni aspetto dell'esistenza, ci crolli inesorabilmente addosso, mentre proviamo a scalfirlo mirando alla superficie e non alle fondamenta, seppellendo ogni possibilità di tentativo futuro di attacco. Acquisire, scambiare e diffondere informazioni, pratiche e teoriche, in merito al reperimento e all'utilizzo di strumenti e conoscenze è uno degli aspetti che crediamo sia indispensabile discutere e sviluppare. Possiamo porci degli interrogativi su come agire e come attaccare, ma è altrettanto importante chiedersi contro cosa agire e quali gli obiettivi da individuare, puntando sull'iniziativa piuttosto che rinchiudersi in una logica di risposta. Ciò che ci circonda pullula di luoghi attraverso i quali il capitale prolifera. Luoghi che sono nati o mutati radicalmente negli ultimi decenni. Facciamo, brevemente, un esempio, col quale mettere facilmente in evidenza alcuni dei cambiamenti ai quali facciamo riferimento. Si pensi alla differenza che c'è fra degli archivi cartacei e i database. In passato il rogo di documentazione all'interno di un ufficio anagrafe, del lavoro, di un grosso complesso industriale poteva essere un'azione distruttiva concreta. Oggi no, le informazioni, i dati d'archivio vengono conservate nei database, in piccoli strumenti elettronici, scorrono lungo chilometri di cavi. Non è forse necessario tenerne conto? E non è forse palese che i cambiamenti che il nemico sono stati radicali e non si posso ignorare, ma è necessario approfondirli e conoscerli? Non vogliamo in questa sede fare un elenco di quelli che possono essere possibili obiettivi di attacco, preferiamo lasciare ad ognuno la fantasia nella ricerca e la creatività nel definire le proprie prospettive di rivolta. Un altro punto sul quale ci interessa puntare brevemente l'attenzione è la dimensione internazionale che credo debba assumere o tornare ad avere la prospettiva insurrezionale. Occasioni come questa consentono di vedersi, di discutere, di confrontarsi fra compagni provenienti da diversi posti, e devono costituire un punto di partenza per l'approfondimento di relazioni future, laddove nascano e si desideri approfondirle. Ma la possibilità di stringere rapporti individuali o fra diverse realtà non è l'obiettivo finale, ma un presupposto e un aspetto della dimensione internazionalista alla quale aspiriamo. Avere dei rapporti con i compagni che vivono all'estero o scambiarsi materiale e conoscenze da solo non basta, occorre anche che ognuno di noi sappia proiettarsi in un ottica di osservazione ed azione che superi i confini territoriali. Per spiegarci meglio. Pensiamo a ciò che è accaduto in Grecia negli ultimi anni, l'insurrezione di dicembre, mille attacchi disseminati su tutto il territorio, conflittualità ripetuta con le forze dell'ordine e vari simboli e luoghi di potere, saccheggi nei supermercati e tante altre azioni che ci hanno scaldato il cuore e infuocato gli animi. Fuochi che però raramente sono traboccati dai nostri animi e hanno assunto una dimensione di concretezza. Le ragioni sono diverse e differenti l'una dall'altra. Mancanza di contatti? Una realtà troppo lontana dalla nostra? Condizioni interne difficilmente decifrabili? Notizie sporadiche e spesso esclusivamente legate alle fonti di regime? Di certo sì, sono ragioni che probabilmente hanno pesato. Ma prima fra tutte, ad essere determinante, è stato il fatto che non eravamo, e non siamo, preparati e quindi incapaci di cogliere delle occasioni. Riuscire a portare fuori dai confini greci una conflittualità permanente e degli attacchi mirati, essere capaci di comprendere le contraddizioni che il capitale sta sviluppando un po' ovunque, essere in grado di contrattaccare avendo a disposizione informazioni e strumenti sviluppati in precedenza, avrebbe potuto fare la differenza. È anche riflettendo su questa occasione mancata, ma se ne potrebbero citare molte altre, che si può comprendere quanto sia necessario avere la capacità di volgere lo sguardo al di là delle cose che stanno nel breve raggio attorno ad ognuno di noi ed essere pronti, essere preparati. Nell'urgenza di voler «esserci», nella smania di partecipare alla possibilità del dilagare dell'indignazione si rischia di smarrirsi fra le provocazioni del capitale e le traiettorie di strade che non ci appartengono. Non abbiamo un mondo da salvare, né coscienze da conquistare, né verbi da diffondere. Seppur sia fondamentale una creatività che determini anche l'imprevedibilità, le prospettive e gli obiettivi non devono essere tirate fuori da un qualche magico cilindro, non ci si può svilire in una ossessiva ricerca di ruoli, numeri e presenze. È tuttavia importante l'esplorazione di nuovi sentieri di attacco, l'esplorazione di nuovi mezzi, strumenti e tecniche in relazione non solo agli obiettivi, ma ai contesti e alle forze disponibili. Esistono infinite possibilità di intervento in senso critico e distruttivo rispetto alla realtà che ci circonda, e in tal senso riteniamo importante estendere e diversificare le pratiche di conflitto tentando di renderle, di volta in volta, riproducibili.  

Palermo, 31 ottobre  

[un contributo dell'Incontro anarchico internazionale a Zurigo, 10/13 novembre 2012, su Avis de tempêtes n.19-20 del 15/8/19]

Lasciarsi trasportare dalla corrente, senza opporre resistenza. È la via più semplice. Si procede in modo spedito, senza grandi sforzi. Nei tratti più agevoli poi, ci si rilassa quasi. Si risparmiano le forze in vista dei punti più cruciali, quelli in cui è necessaria la massima attenzione per non annegare. Lasciarsi trasportare dalla corrente è fluire col fiume. Come può essere difficile? Per fluire con il fiume non c’è nemmeno bisogno di saper nuotare, basta galleggiare. Se poi si è in preda a qualche urgenza, se si vuole fare in fretta, è semplice: basta liberarsi di un po' di peso. Più si è leggeri, più si fila via. Non serve altro. Sarà la corrente stessa a portare a destinazione, perché il fiume sta già andando verso l’oceano. Andare contro-corrente, invece, è una perdita di tempo. È uno sforzo immane destinato al fallimento. È un'impresa impossibile. È un tentativo puerile, che denota al tempo stesso in chi lo compie ingenuità e arroganza. È il modo migliore per rimanere soli e deboli, sempre più soli e sempre più deboli, in attesa di venir travolti. Scelta suicida, il più delle volte, anche perché non si potrà fare affidamento su nessuno. Chi può voler essere sommerso?  No, no, meglio lasciarsi trasportare dalla corrente. Leggeri, sempre più leggeri. Sbarazzandosi di ogni zavorra, etica o teorica che sia. Privi di valori e di idee troppo gravosi, si acquista velocità. Non si sta sempre immobili in se stessi, in continua tensione, vacillando un po' in avanti e un po' indietro, in attesa di spiccare un balzo come fanno i salmoni. Si sta in perenne movimento con altri. Ieri si stava con Lenin o con Mao o con Castro, oggi si sta con le Pussy Riots o con Greta o con Carola.

Certo, meglio non domandarsi quale sia la nostra vera aspirazione in relazione al fiume: scendere per arrivare alle affollate spiagge sugli estuari e immergersi nell’acqua inquinata o risalire fino alle sue solitarie sorgenti per esplorare i boschi circostanti? Non è la stessa cosa. L’acqua pura ed incontaminata, così indispensabile alla vita, sgorga a monte o a valle? Ecco perché, detto tra noi, abbiamo riso fino alle lacrime nello scoprire che certi fini teorici di sinistra solo ora cominciano ad avere qualche dubbio circa la flebile evanescenza dei fuscelli cui di volta in volta si aggrappano con alto senso della strategia. Ma poiché non li sfiora minimamente l'idea di mettere in discussione la necessità di seguire la corrente (lo strepitoso determinismo che accomuna santoni come Osho e santini come Marx), la loro conclusione è ovvia: così come in passato pensavano di combattere il potere borghese con il contro-potere proletario, oggi ritengono che il solo modo per contrastare la narrazione reazionaria sia quello di diffondere la narrazione sovversiva. Come se le frottole sulle foibe anti-italiani possano essere neutralizzate solo dalle frottole sui liberi soviet. Come se la premessa a qualsiasi narrazione non sia proprio l'eclissi del pensiero critico. Cos'è, dopo aver fatto prendere un po' d'aria e di ormoni ai propri militonti, portandoli ad alternare i seminari nelle sedi politiche e le risse sugli spalti delle curve, ora inorridiscono accorgendosi che costoro sanno intonare solo cori da stadio? Chissà quanto altro dovranno ancora rinnegare & tradire & ingurgitare prima di accorgersi che — se non si vuole finire dritti in un oceano di merda — è necessario opporsi a quella corrente, non accompagnarla. Perché non c'è alcun lieto fine che ci consolerà al termine di una esistenza quotidiana miserabile.  In fondo è questo l’errore centrale che ci ha condotti dai totalitarismi dittatoriali del passato a quelli democratici del presente: negare la necessità dell'individuo di sviluppare la propria coscienza, esortandolo ad abdicare e a consegnarla nelle mani dello Stato. Agli antipodi di ogni politica che pone qualsiasi soluzione al di fuori dell’essere umano, mai al suo interno, la rivoluzione contro lo Stato deve porre in primo piano il libero sviluppo dell’individuo. Anziché tendere sempre più a «formattare» gli individui per meglio adattarli alla loro funzione sociale, ruolo della propaganda, sarebbe meglio cercare di esortare ogni individuo a possedere uno spirito ed un corpo, un pensiero e delle mani, che siano del tutto autonomi. Trasformare le masse in individui, non tenere gli individui intrappolati all’interno delle masse.    

Finimondo, 8/8/19

Atene, Grecia: Ribellione ogni ora, manifestazione ogni giorno

Mercoledì 31 luglio 2019, durante la rivolta nel quartiere di Exarchia (ad Atene) contro la scarcerazione dello sbirro che uccise Alexis Grigoropoulos, di 15 anni, alcuni membri di un gruppo politico hanno interferito con la continuazione della rivolta e hanno tentato di fermarla in via Arachovis.

Lo stesso gruppo politico, che senza motivo attacca gli immigrati a Exarchia, sta chiaramente cercando di controllare la piazza di Exarchia.

Li abbiamo avvertiti di smettere di attaccare gli immigrati senza motivo, altrimenti si troveranno faccia a faccia con noi. Devono interrompere la loro attività contro le rivolte a Exarchia e devono smettere di nascondersi dietro la copertura politica per le attività [riguardanti] gang e teppisti.

Questi gruppi, che si nascondono dietro la copertura politica, non stanno facendo attività contro la mafia, ma stanno attaccando gli immigrati senza motivo.

Molto chiaramente, ciò che questi gruppi stanno facendo è simile al modo in cui gli sbirri si comportano contro gli immigrati.

Per noi è chiaro, se tu, come immigrato, lavori per loro e loro guadagnano da te, non c’è problema nei tuoi confronti, ma se tu (come immigrato) non collaborerai con loro, verrai attaccato con la scusa di essere un criminale.

Steki degli anarchici migranti (via Tsamadou 19, quartiere Exarchia, Atene)

[Tratto e tradotto a partire da actforfree.nostate.net].


Atene, Grecia: Le proteste contro la scarcerazione del poliziotto che uccise Alexis Grigoropoulos si trasformano in rivolta

La scarcerazione di Epaminondas Korkoneas è arrivata dopo che un tribunale, lunedì 29 luglio 2019, ha ridotto la sua sentenza dall’ergastolo per omicidio premeditato a soli 10 anni di carcerazione, sulla sola base di un buon comportamento prima dell’omicidio, il che significa che qualsiasi poliziotto greco può sparare e uccidere bambini perché in precedenza non hanno mai ucciso nessuno. Un altro aspetto oltraggioso del caso è che l’ergastolo è stato ridotto a 10 anni nonostante il fatto che pochi anni fa, durante un processo, ha dichiarato pubblicamente in tribunale che “non chiederà perdono a un ragazzo di 15 anni per avergli sparato”. Allo stesso tempo Vasilis Saraliotis, che era di pattuglia con Korkoneas nella notte dell’omicidio, è stato reputato innocente di qualsiasi crimine, nonostante il fatto che non avesse fatto nulla per impedire al suo collega, accanto a lui, di sparare.

L’omicidio di Alexis Grigoropoulos che ha scatenato la rivolta del dicembre 2008.

6 dicembre 2008, pochi minuti dopo le 21:00 – Punto d’inizio della rivolta di dicembre. Due poliziotti estraggono le loro armi e uno di loro spara contro un gruppo di giovani che vanno in giro il sabato sera, nel cuore del distretto di Exarchia, nel centro di Atene, un’area con una lunga storia di rivolta contro l’autorità e di rivolte per ragioni socio-economiche e politiche, abitata principalmente da anarchici, anti-autoritari e liberali. Il proiettile della polizia arriva nel cuore e uccide il 15enne Alexandros Grigoropoulos.

Non appena la notizia dell’uccisione di Alexis si diffonde, principalmente attraverso internet, centinaia di persone del resto di Atene si radunano a Exarchia, circondata da centinaia di poliziotti antisommossa, che a loro volta infuriano ulteriormente le persone e il quartiere va rapidamente “in fiamme”, con barricate fiammeggianti e attacchi con pietre contro la polizia, durate per tutta la notte.

Quasi dalla stessa notte, la rivolta di Exarchia si diffonde in tutta la Grecia, con attacchi contro le caserme di polizia, anche nei villaggi greci. Proteste e manifestazioni, che si intensificano nella diffusa rivolta in Grecia, tutti i giorni e le notti per le settimane a venire, mentre gli edifici pubblici vengono occupati dai manifestanti in decine di città e paesi.

Al di fuori della Grecia, manifestazioni di solidarietà, rivolte e scontri con la polizia hanno luogo anche in oltre 70 città del mondo, tra cui Londra, Parigi, Bruxelles, Roma, Dublino, Berlino, Francoforte, Madrid, Barcellona, Amsterdam, L’Aia, Copenaghen, Bordeaux, Colonia, Siviglia, Sao Paulo, comprese Nicosia e Paphos a Cipro, dimostrano per la prima volta, prima della “Primavera araba” che le persone possono diffondere le notizie e reagire attraverso proteste, in tutto il mondo, per la stessa questione, da San Francisco a Wellington, da Buenos Aires alla Siberia.

Mentre i disordini sono stati provocati dall’omicidio di Alexis Grigoropoulos da parte della polizia, le reazioni sono durate così a lungo semplicemente perché sono state radicate in cause più profonde, come la crisi finanziaria in arrivo un anno dopo (in Grecia), che era già stata avvertita dalle classi più povere e dalle generazioni più giovani attraverso l’accrescimento del tasso di disoccupazione e un sentimento di generale inefficienza e corruzione delle autorità, delle istituzioni e dei politici di destra dello Stato greco (principalmente i partiti politici “Nuova Democrazia” e “PASOK”).

[Tratto e tradotto a partire da actforfree.nostate.net].

fonte: insuscettibilediravvedimento.noblogs.org

No, anche se non sarà Auschwitz a distruggere il mondo bensì Hiroshima, da un punto di vista morale Auschwitz è stato incomparabilmente più orribile di Hiroshima. Lo sottolineo perché, sfogliando i miei appunti, sono sfiorato dal sospetto di essermi accostato ad Auschwitz con il pregiudizio che quella che consideriamo una forma di genocidio valga anche nell’altro caso. Non è vero. Al confronto dei responsabili di Auschwitz – e furono molte migliaia – i piloti che volarono sul Giappone furono degli angeli. Se sia stato un «passo in avanti» è un’altra faccenda.

Nel caso di Hiroshima – e ciò vale per gli odierni «missili nucleari» più ancora che per le bombe del 1945, pur sempre sganciate dall’alto sui luoghi di morte – ci fu per così dire solo il bottone premuto: uomini che rimasero dunque molto distanti dagli effetti del loro gesto (in questo caso, dal mero azionare la leva), distanti come oggigiorno è distante dai risultati finali del suo lavoro il 99 per cento dei lavoratori. Di fatto, con l’invenzione dei missiles il concetto di luogo del crimine ha perso di significato. In origine l’espressione definiva il luogo dell’azione e della sofferenza. Questa syntopia – il cui superamento ha avuto inizio con la scoperta delle armi da fuoco – si realizza ormai molto di rado. Un missile lanciato dall’Oceano Pacifico può produrre i suoi effetti in Siberia. Dov’è dunque il luogo del crimine? Qui o là? Dobbiamo introdurre il concetto di schizotopia come categoria fondamentale della moralità o dell’immoralità di oggi. In ogni caso, i due piloti della Air Force che sganciarono le bombe sulle due sventurate città non solo non umiliarono e non torturarono per anni centinaia di migliaia di vittime, com’era normale ad Auschwitz, ma neppure le videro, anzi neppure le immaginarono. E quando dico che le loro mani rimasero pulite, non intendo pulite come le mani di Eichmann e complici: giacché i piloti non elaborarono mai un programma di sterminio, né tantomeno trascorsero il loro tempo a predisporre in modo scrupoloso e dettagliato i piani per il buon esito quotidiano della produzione di cadaveri. E ancor meno i piloti che presero parte alle missioni possono essere messi sullo stesso piano delle migliaia e migliaia di SS e dei loro «aiutanti», le cui azioni si svolsero direttamente sul luogo del crimine e consistettero di continue brutalità dirette, come torturare, fare le «iniezioni letali» o spingere a forza dentro gli stanzoni delle «docce». E tantomeno si può sostenere che i piloti di Hiroshima avessero partecipato alle missioni perché sadici o perché avessero appreso il piacere di uccidere – non ne avrebbero avuto il tornaconto. Né tantomeno che si fossero trasformati in mostri con le loro azioni (la singola azione di sgancio) o con infamie quotidiane. Ciò che accadde a Hiroshima e a Nagasaki fu un omicidio di massa senza assassini e fu perpetrato senza alcuna malvagità.

Tutto questo non vale però – la linea di demarcazione tra i due metodi di sterminio non può essere tracciata in modo sufficientemente perspicuo – per gli assassini di Auschwitz. Non esiste solo l’innocenza del male (Eatherly¹) e la banalità del male (Eichmann), ma anche – anzi non «anche», ma «soprattutto» – la malvagità del vero male, o di chi è diventato o è stato reso ineluttabilmente malvagio dalla consuetudine con il male. Costoro – e ciò li differenzia radicalmente dagli assassini di massa nel senso di Eatherly – non furono capaci di vedere né il male esercitato giorno dopo giorno come full time job con le umiliazioni continue, con le torture, le «iniezioni letali» ecc., né la loro irrevocabile metamorfosi in esseri malvagi. Ormai non potevano più rendersi conto di come il vivente non fosse per loro null’altro che l’ancora torturabile (questa la segreta definizione di «vita» nel lager) e come questo fosse il loro modo di trattare concretamente gli esseri umani, e come non solo agissero così o potessero agire così, ma dovessero agire così (il che ebbe un unico esito, che Himmler celebrò come «fermezza» eroica di cui essere fieri). E non potevano più rendersene conto perché il male non era più distinguibile dal fondale di un universo quotidiano moralmente indifferente, essendo divenuto esso stesso il mondo («le monde concentrationnaire»), il mondo normale e quotidiano nel quale a essere fuori luogo erano i comportamenti e le parole non infami e non bassamente triviali (così come le intendiamo noi quotidianamente). La frase «buona notte» sulle labbra di una SS sarebbe apparsa una mostruosità nell’inferno di Auschwitz (tra l’altro «inferno» è una parola fin troppo misurata, dal momento che rimanda all’inferno classico come luogo di punizione per i malvagi – definizione che i nazisti avrebbero sottoscritto, in quanto coloro che avevano rinchiuso nei lager «erano stati puniti» per il male innato di essere ebrei, zingari o marxisti).

Che tutto ciò non riguardi gli esecutori coinvolti nel crimine atomico, e che gli Eatherly sovrastino di gran lunga, anzi non siano moralmente paragonabili alle SS, non significa naturalmente che le loro azioni siano state meno orribili. Hiroshima fu, infatti, incomparabilmente peggiore di Auschwitz: quando un uomo è in grado di sterminare nella frazione di un secondo duecentomila suoi simili (oggi milioni), le duemila SS, le quali potevano eliminare solo «peu à peu» milioni di persone, risultano al suo confronto (mi si perdoni il termine) inoffensivi. Il rischio atomico minaccia infatti l’esistenza dell’umanità nel suo insieme – cosa che non si può affermare dei campi di sterminio. Mentre le armi atomiche sono letteralmente «apocalittiche», i lager furono o sono «apocalittici» solo in senso metaforico. In confronto ai moderni metodi di annientamento, ciò che accadde nei lager nei tre anni che precedettero Hiroshima fu (ho delle remore a scrivere la parola) innocuo. La tecnologia e l’output del sistema concentrazionario, in confronto allo standard tecnico e alle prestazioni potenziali delle installazioni missilistiche di oggi, furono ancora grezze e basate sul paradigma del XIX secolo. Ciò che gli impianti concentrazionari «producevano» nel corso di una sequenza di lavoro non erano centinaia di migliaia o milioni di morti ma (esito di nuovo) «solo» centinaia.

Non c’è dubbio: il «futuro» appartiene allo sterminio più moderno (posto che la parola «futuro» si possa applicare ad apparati che generano mancanza di futuro). Peraltro tutto ciò non esclude che nei paesi ancora non completamente industrializzati Auschwitz continui a essere un modello per lungo tempo. I governi che non sono ancora giunti al punto di materializzare Hiroshima si accontenteranno di installare «Auschwitz». Anche il principio-Auscwitz ha dunque ancora un futuro, visto che «il futuro non è iniziato dappertutto». I due sistemi di genocidio, quello moderno e quello non ancora del tutto moderno, continueranno a «sovrapporsi» per lungo tempo, almeno fino a quando ci sarà concesso di sopravvivere.

Günther Anders

[19 marzo 1979]

¹: Claude Eatherly (1918-1978) prese parte alla missione che sganciò la bomba atomica su Hiroshima il 6 agosto 1945.