«Con riferimento disposizioni vigenti che vietano pubblicazione atti istruttori richiamo attenzione SS.LL. su grave sconcio che si verifica quotidianamente ad opera dei giornali mediante riproduzione fotografie di delinquenti arrestati sotto imputazioni gravi reati [...] che sono così elevati agli onori della più biasimevole pubblicità». Luigi Federzoni, Ministro degli Interni, telegramma n. 17916 ai prefetti del 31 luglio 1925
È tristemente noto l'uso della censura durante il fascismo. Una volta eliminate le voci d'opposizione, il regime aveva assegnato allo strumento della propaganda un compito pressoché esclusivo, favorendo la progressiva fascistizzazione del paese. All’interno del Paese non bisognava più schiacciare il nemico ostile presente, ma crearvi, anzi, produrvi l’amico fedele. Si trattava di imporre ovunque una percezione sociale della realtà corrispondente agli interessi e alla ragione di Stato, in modo da riscuotere un consenso praticamente automatico ed unanime. Progetto impossibile da realizzare senza un’incessante manipolazione e la deformazione di buona parte degli accadimenti. La realtà molteplice, quella con tutte le sue sfaccettature conflittuali e caotiche, doveva essere selezionata, amputata, calibrata, aggiustata, confezionata, per farla apparire univoca e comodamente presentabile. Uno degli obiettivi principali di questa edulcorazione della realtà era far scomparire ogni traccia di disordine, non solo dalle strade ma perfino nel pensiero. La prima misura presa in tal senso fu il decreto legge sottoposto al Re da Mussolini nel 1923, che prevedeva la diffida del gerente di un giornale reo di aver diffuso notizie relative al turbamento dell'ordine pubblico, all'odio di classe o alla disobbedienza delle leggi. Poi fu la volta della creazione di un Ufficio Stampa ministeriale, del monopolio dell'informazione concesso ad un'unica agenzia, dell'istituzione di un albo dei giornalisti (tuttora vigente)… Il linguaggio doveva essere codificato, le notizie opportunamente filtrate: ad esempio, si doveva prestare particolare attenzione ai dati sulla situazione finanziaria (i quali non potevano che essere esaltanti), tacere gli arresti di oppositori, minimizzare i fatti di cronaca nera (in qualche caso, giornali come La Stampa o L'Unione sarda vennero sequestrati per aver dato troppo spazio a certi delitti di cronaca). Insomma, la censura mussoliniana mirava a fornire agli italiani l'impressione che sotto il fascismo la vita sociale fosse stabile e ordinata. Si tratta di fatti conosciuti del passato, quasi banali oggi da ricordare. Ma… qual è l'uso della censura sotto il totalitarismo democratico? Si crede davvero che la realtà che traspare oggi dai mass-media sia quella che viviamo? Che le nuove tecnologie non abbiano messo a disposizione di chi detiene il potere micidiali mezzi per «formattare» le menti, predisponendole all’obbedienza, e che questi non ne approfitti? Insomma, fino a che punto ciò che consideriamo realtà corrisponde a un dato di fatto accaduto, tangibile, e non a un dato di (arte)fatto percepito, virtuale? Ci sia permesso qui fare un piccolo esempio concreto: gli atti individuali di rivolta, i sabotaggi. A dare retta ai grandi mezzi di informazione, qui in Italia avvengono assai di rado, sporadicamente. A venire alla pubblica luce sono soprattutto quelli che vengono successivamente rivendicati dagli autori, ancor più se in maniera roboante, oppure quelli che hanno conseguenze troppo visibili ed eclatanti per essere taciuti. Anzi, per meglio dire, quegli atti che per — talvolta ovvie e talvolta insondabili — motivazioni istituzionali non vengono neutralizzati nella maniera più semplice e sbrigativa: derubricati sotto la voce «guasti tecnici». Rimanendo pure alle notizie di dominio pubblico, non è forse fin troppo evidente a chi conviene sostenere che ad aver scatenato un incendio sia stato un banale cortocircuito anziché un singolare fiammifero, e per quali ragioni? Chi mai noterà la notizia di un guasto tecnico? A differenza di un sabotaggio, un malfunzionamento non corre il rischio di saltare agli occhi e soprattutto di dare il cattivo esempio. Sia chiaro, qui non si sta dicendo che in Italia divampa incontrollato il fuoco sovversivo — significherebbe cadere nell'errore di percezione opposto — ma solo che oggi ancor più che nel passato quella che chiamiamo realtà è il più delle volte una costruzione. Programmabile, correggibile, estendibile, riducibile, confezionabile. Per convincersene basterebbe dare una occhiata alle disavventure successe in quest’ultimo anno alle strutture che riforniscono di energia il mondo in cui sopravviviamo. Quelle riportate dai grandi mezzi di informazione. Quelle che, sfuggendo allo sguardo, sfuggono anche alla riflessione. Così, dopo una ricerca pur minima, con una certa sorpresa scopriamo che: il 26 febbraio si verifica un incendio alla cabina elettrica inverter di un parco fotovoltaico a Girifalco (Catanzaro); il 20 marzo una cabina Enel interrata va in fiamme a Loseto (Bari); il 14 aprile scoppia un incendio in una cabina di distribuzione di corrente elettrica a Cremona; il 23 aprile una cabina Enel va in fiamme a Villanova di Bernareggio (Monza); il 3 maggio, a Livorno, un incendio in una cabina Enel provoca un black-out sul lungomare e nei quartieri sud della città; il 5 maggio una cabina Enel va in fumo a Palermo; il 9 maggio si verifica un principio di incendio in una cabina Enel nei pressi di Feltre; il 10 maggio, a Riglione (Pisa), un ripetitore della Telecom va in fiamme (la causa ufficiale? corto circuito); il 15 maggio, anche a Firenze un ripetitore telefonico divampa di calore; il 12 giugno s’incendia una cabina Enel a Forlì; il 17 giugno, ancora un incendio nell’ennesima cabina elettrica ad Afragola (Napoli); il 18 giugno sono ben quattro le cabine Enel che vanno a fuoco a Corchiano (Viterbo); il 20 giugno si verifica un incendio in una cabina Enel a Vasto Marina (Chieti); il 22 giugno, una cabina Enel viene letteralmente fulminata ad Asolo (Treviso); il 26 giugno, a Sassuolo (Modena), un incendio in una cabina elettrica provoca l’ennesimo disagio; il 10 luglio, una cabina Enel va in fiamme a Cagliari; il giorno dopo, 11 luglio, la scena si ripete ad Orco Feligno (Savona); il 21 luglio brucia un ripetitore telefonico a Pieve di Compito (Lucca); il 7 agosto, l’Enel perde un’altra cabina a Germignaga (Varese); il 24 agosto va in fumo una cabina elettrica a ridosso di un parco fotovoltaico ad Arquà Polesine (Rovigo); il 25 agosto, un’altra cabina elettrica va in fiamme a Manocalzati (Avellino); il 27 agosto, il centro di Pescara è interessato da un black-out a causa dell’incendio scoppiato in una cabina Enel; il 9 settembre va in fiamme l’ennesima cabina elettrica Enel a Prato Perillo di Teggiano (Salerno); e abbiamo tutti letto che il 13 settembre, a Roma, un black-out ha bloccato la metropolitana. Ora, tutti questi fatti (precisiamo che si tratta di una lista non esaustiva, stilata in maniera alquanto frettolosa, per cui è giustificato domandarsi quanti altri simili “accidenti” si siano potuti verificare) sono stati presentati dai mass-media come frutto di «guasti tecnici» o «corto-circuiti». Eppure, almeno nel caso di quello avvenuto a Pisa il 10 maggio, è circolata in rete una rivendicazione anonima. Se di per sé questo non significa affatto che tutti questi incendi siano stati generati da sabotaggi, si può però sostenere anche l’esatto opposto: non è vero che siano stati tutti dei corto-circuiti. E dove comincia e finisce la menzogna di Stato è impossibile da definire. Se poi a ciò aggiungiamo anche i numerosi tentativi di incendi finiti male (perché non scaturiti, immediatamente spenti o sventati in anticipo), i quali di certo non trovano risalto sui grandi mezzi di informazione, ecco che i fatti avvenuti ma mai riportati aumentano in quantità che sfugge ad ogni calcolo. No, non vogliamo far intravedere o sognare una realtà già quasi travolta da chissà quali imprese focose. Vogliamo semplicemente (cercare di) mostrare come ciò che appare, sui grandi mezzi di informazione oltre che sui piccoli mezzi di controinformazione, sia un pessimo punto di riferimento, un criterio assai poco valido per cogliere ciò che davvero si muove e le sue potenzialità. Dolersi o rammaricarsi perché «non accade mai nulla» ha poco senso. Ne ha molto più domandarsi come (e dove e perché) far accadere qualcosa e, qualora lo si ritenga necessario, come fare per comunicarlo, bucando la censura tecno-democratica e riuscendo a dare a tutti il cattivo esempio. E, una volta trovata la possibile risposta, mettervi mano.
Da poche ore, nella giornata di oggi (giovedì 26 settembre), dopo cinque mesi e mezzo fra carcere e domiciliari, il nostro compagno Tommy è finalmente libero. Libero di non essere rinchiuso in una merda di galera o chiuso in una casa senza poter uscire. Poterlo avere fra noi è una sensazione indescrivibile.
È certo che non possiamo dimenticare tutti i compagni anarchici ancora rinchiusi nelle galere, perché chi dimentica le prigioniere non riesce a vedere la guerra sociale in corso contro l'oppressione e chi rinchiude i sogni di rivolta in questo esistente di morte.
Niente è finito e tutto ricomincia. Anche da quello avvenuto oggi, nella gioia di camminare verso la libertà ancora al fianco di chi si è opposto agli sbirri senza abbassare la testa.
Fate il vostro gioco: 3, 5 o 10 metri? E se siete radicali: 50, 100, 150 metri? Il governo francese si appresta ad inserire una di queste cifre nella legge. Esse indicano la distanza da rispettare tra le abitazioni e i campi durante lo spargimento e l’irrorazione di pesticidi. La presidentessa del sindacato agricolo FNSEA, Christiane Lambert, si è affrettata a intervenire nel «dibattito pubblico» in cui alcune voci si erano levate per parlare invece della cifra maggiore di 150 metri. «La smettano di delirare!» Ha sbraitato davanti ai giornalisti, perché questo ridurrebbe la superficie agricola francese del 15%. Piuttosto che farsi coinvolgere in questo dibattito assurdo e francamente vergognoso, vediamo più da vicino cosa sono i pesticidi e cosa rappresentano nel mondo odierno. Un pesticida è una sostanza utilizzata per combattere organismi considerati nocivi, direbbe l'enciclopedia. Tranne che la lingua può rapidamente giocare dei brutti scherzi. Perché in quasi tutte le forme di agricoltura, le piante devono essere protette da altri organismi. Esistono già piante che hanno proprietà «pesticide», se lo si vuole, che proteggono i campi e le colture dalle devastazioni di parassiti, insetti e malattie. Per chiarire le cose: quando si parla di pesticidi, si sta parlando di sostanze, spesso prodotte sinteticamente, che contengono tossicità comprovate. Tali tossicità agiranno quindi contro gli «elementi nocivi». E fin qui, potremmo citare il nostro ingegno, va bene. Ma non è tutto qui. Le tossicità «residue», difficili o semplicemente non degradabili, si accumuleranno nel suolo, nell'acqua, nell'aria, negli animali, nei corpi umani, nel cibo... ovunque. Il trattamento chimico delle colture vegetali esiste da millenni. Nell'antica Grecia, lo zolfo veniva usato come pesticida. Nell'impero romano, si diffuse l'uso dell'arsenico come insetticida. Ma è nel XIX secolo che la chimica minerale decollò. In Europa, l'uso di pesticidi a base di sali e solfato di rame è in aumento, il che porterà a un primo inquinamento duraturo del suolo (il rame non si degrada). Per tutto il XX secolo, fino ad oggi in molti paesi che non l’hanno vietato, i semi vengono trattati con sali di mercurio, un metallo altamente tossico. Poco prima dello scoppio della prima guerra mondiale, con una popolazione di quasi 2 miliardi, il chimico tedesco Fritz Haber, impiegato alla Bayer, scoprì un metodo economico per produrre grandi quantità di fertilizzante, realizzando la sintesi dell’ammoniaca dall’azoto atmosferico. Ciò avrebbe consentito l'estensione dei campi agricoli e l'aumento della produzione alimentare in un momento in cui molti scienziati erano allarmati dal raggiungimento del «tetto» della popolazione mondiale sostenibile. Ma Fritz Haber e la sua squadra non si fermarono là. La guerra avrebbe riorientato la loro ricerca grazie alla creazione del terribile gas mostarda [iprite] impiegato in un altro campo, quello della battaglia nelle trincee europee. La loro ricerca avrebbe portato anche alla creazione di un altro noto pesticida: lo Zyklon B, utilizzato negli anni 30 nell'agricoltura cerealicola e poi nelle camere a gas naziste. I pesticidi di sintesi provengono dalla ricerca in ambito militare. Dopo la seconda guerra mondiale, i vasti complessi chimici dedicati alla produzione militare rischiavano di essere fuori servizio... ed è così che furono trasformati in fabbriche per produrre in serie pesticidi di sintesi. Il più noto è senz’altro il DDT, scoperto già nel 1874, ma le cui proprietà insetticide furono stabilite solo alla fine degli anni 30. Negli anni del dopoguerra, il DDT prodotto dalle stesse fabbriche chimiche prima dedicate alla produzione di gas tossici e prodotti chimici per uso militare, sarebbe diventato rapidamente il pesticida più utilizzato al mondo. Un altro pesticida derivante dalla produzione di gas da combattimento è il malathion, ancora oggi utilizzato. A partire dal 1945, il consumo mondiale di pesticidi è raddoppiato ogni decennio (ovvero una moltiplicazione per 60 fino ad oggi, arrivando a 2,5 milioni di tonnellate all'anno sui terreni agricoli). Il numero di pesticidi è esploso: sono stati aggiunti sempre più additivi per aumentare questo o quell'effetto, per rispondere a nuove resistenze, per evitare tossicità residue… Malgrado ciò che si potrebbe pensare, più del 75% dei pesticidi utilizzati in tutto il mondo vengono sparsi sulle terre arabili dei cosiddetti paesi sviluppati... e la resistenza di piante e insetti cresce quasi allo stesso ritmo dello sviluppo dei pesticidi. Nel 1997, 600 specie di insetti sono diventate resistenti a uno o più insetticidi; per le erbe, si parla di 120 specie e per i funghi parassiti la cifra è di 115. Proseguendo nello sviluppo e la produzione di pesticidi, le aziende agroalimentari e chimiche hanno allora rovesciato il problema, investendo massivamente nella creazione di organismi geneticamente modificati (OGM) in grado di resistere ai loro pesticidi sempre più potenti deputati a sradicare tutti i «parassiti». Negli Stati Uniti, ad esempio, il 94% delle coltivazioni di cotone, il 92% di quelle di mais e il 94% di quelle di soia sono transgeniche. In Sudafrica, le percentuali per le stesse piante sono di 85, 95 e 100%. In Pakistan e India, il 97% di tutto il cotone coltivato è transgenico. Nelle Filippine, il 65% del mais è transgenico. In Argentina, quasi tutte le colture di soia sono transgeniche. Per la salute umana, i pesticidi (considerando che esistono differenze di tossicità tra l'uno e l'altro e che alcuni vengono ritirati dal mercato quando la narrazione non è più sostenibile, come il famoso DDT, vietato dal 1973, o il prodotto made in Francia, l’Atrazine, il cui utilizzo è vietato in patria ma è ancora legale... per l’esportazione) aumentano i rischi, sono all'origine stessa o, combinati con altri fattori di inquinamento, causano: tumori di ogni tipo (tumori cerebrali, leucemie, tumori a reni, prostata, testicoli, sistema linfatico); infertilità, morte fetale, prematurità, ipotrofia, malformazioni congenite, alterazioni endocrine; disturbi dermatologici come arrossamenti, prurito, ulcerazioni; compromissioni neurologiche come ridotta sensibilità tattile, affaticamento muscolare, cefalea, ansia, irritabilità, depressione, insonnia, paralisi; disturbi del sistema ematopoietico con una diminuzione dei globuli rossi e bianchi e il rischio di leucemia; danni al sistema cardiovascolare con disturbi del ritmo cardiaco e arresto cardiaco; disturbi del sistema respiratorio come superinfezioni, bronchiti, riniti e faringiti; squilibri delle funzioni sessuali come l'infertilità maschile con la crescente soppressione della spermatogenesi e femminile con disturbi endocrini; malattie neurodegenerative come il Parkinson. «La smettano di delirare!», come dicono alla FNSEA... Tra il 1981 e il 1982, l'organofosfati Nemacur 10 della Bayer, utilizzato nella lavorazione del pomodoro, ha causato la morte di oltre un migliaio di persone e la malattia o la disabilità di altre decine di migliaia in Spagna. L’azienda, lo Stato e gli esperti l'hanno coperta sotto il nome di «olio tossico». Dieci anni dopo, Jacques Philipponneau ha pubblicato Relazione su l’avvelenamento perpetuato in Spagna e camuffato sotto il nome di sindrome dell’olio tossico dove si può leggere ciò che segue: «Per molto tempo la malattia è stata una fatalità individuale o un male sociale il cui eventuale alleviamento dipendeva dalla conoscenza medica e da una carità privata sostituita progressivamente dall’autorità pubblica. Attualmente la salute pubblica è un affare economico, e doppiamente del resto. Da una parte perché l'economia mercantile, avendo trionfato sulle antiche condizioni naturali ovunque scomparse, producendo stricto sensu la vita e la morte dell'uomo moderno, si rivela essere in qualche modo un problema di salute, e anche un problema per la salute. Dal momento che alle nostre latitudini nessuno ignora che ciò che mangia, beve, respira, in poche parole le condizioni generali della sua vita quotidiana sulle quali di consueto non può niente, costituiscono una minaccia per il suo “capitale-salute”, secondo la poetica espressione del tempo; e in ogni momento ci viene raccomandato di migliorarne la gestione rinunciando a questa o a quella antica abitudine diventata nefasta e di cui possiamo valutare la nocività nei conti pubblici della nazione». Queste parole ricordano le frasi pubblicate sull’Encyclopédie des Nuisances n. 5, nel 1985: «L’estremo deterioramento del cibo è un’evidenza che, al pari di altre, è in genere sopportata con rassegnazione: come fosse una fatalità, il prezzo da pagare per un progresso inarrestabile, come sanno tutti coloro che ne sono schiacciati ogni giorno. Tutti tacciono in proposito. In alto perché non se ne vuole parlare, in basso perché non si può farlo. La stragrande maggioranza della popolazione, che sopporta tale degrado, pur avendo forti sospetti, non riesce a far fronte a una realtà così spiacevole». Oggi l'ignoranza non può più essere invocata. Il diluvio di studi e libri che denunciano gli effetti dannosi sulla salute e sull'ambiente dei pesticidi utilizzati così pesantemente nell'agro-industria (che converrebbe chiamare sempre così, perché è ciò che l'agricoltura è diventata nella quasi totalità) ha forse generato una presa di coscienza, lotte e opposizioni anche radicali come durante la resistenza agli OGM in Francia, esperimenti per «fare diversamente» (ora recuperati e inseriti nel mercato come qualsiasi altra merce, debitamente etichettati «bio», «organico», «100% naturale», «prodotto dall’agricoltura sostenibile» ecc.), ma alla fine è la rassegnazione a prevalere. Essa si manifesta principalmente sotto forma di totale negatività, mancanza di interesse o persino incapacità di cogliere l'entità del problema, unite a un’impotenza ad agire direttamente per sopprimere, diciamo, almeno la nocivité che si trova direttamente accanto a casa, nel campo del vicino. Può anche assumere la forma dell’integrazione all’interno del grande greenwashing del capitalismo industriale a colpi di nuove tecnologie, vaste menzogne ed energie rinnovabili, oppure dell'inserimento sotto forma di «aziende bio» nel mercato convenzionale. Allo stesso tempo, vediamo anche che «la minoranza delle minoranze» tende ad affinare le sue lotte, sapendosi ormai in fin dei conti poco numerosa nella lotta contro il mostro che si basa essenzialmente sul consenso che riesce a produrre o ad ottenere. Alcune lotte «locali» generano a volte attacchi importanti contro ciò che devasta il mondo ed i suoi abitanti, proprio come un pugno di individui attacca direttamente, qua e là, i laboratori, i fabbricanti di OGM o gli amministratori della devastazione del pianeta. Con l’avanzata sempre più veloce dell'artificializzazione dell'agricoltura e l'innegabile degradazione dell’habitat, queste lotte rischiano di diventare sempre più radicali in termini di prospettive e di metodi, cosa che non ci dispiace affatto. In Francia, lo Stato intende imporre all'agro-industria una netta riduzione dell'uso di pesticidi, secondo i suoi piani Ecophyto (un primo lanciato nel 2007 voleva ridurre del 50% lo spargimento di pesticidi intorno al 2018, seguito da un secondo piano nel 2015 che ha rimandato questa scadenza al 2025). Se da un lato proibisce certi pesticidi (come il famoso glifosato, vietato alla vendita ai privati e all’utilizzo negli spazi pubblici come i parchi dal gennaio 2019, il che non impedisce che un terzo degli erbicidi utilizzati in Francia siano costituiti ancora proprio dello stesso glifosato), d'altro concede permessi a nuovi veleni, come l'autorizzazione nel 2019 di undici fungicidi supplementari contenenti sostanze attive SDHI (Succinate DeHydrogenase Inhibitor). Eppure nel 2018 sono stati diffusi dei rapporti allarmistici: «anomalie nel funzionamento dell'SDH possono portare alla morte delle cellule causando gravi encefalopatie o, al contrario, ad una proliferazione incontrollata di cellule, che sono all’origine di tumori. Anomalie della SDH si osservano anche in altre malattie umane». I fungicidi SDHI sono già sparsi ovunque nelle campagne francesi: su quasi l'80% delle superfici di grano, quasi altrettanto su quelle di orzo, sugli alberi da frutta, su pomodori e patate. Ed oggi lo Stato vorrebbe decidere in merito a questi 3, 5 o 10 metri di distanza dalle case da rispettare quando si applicano i pesticidi! Ciò che conta è che tutto possa continuare come prima. Che la produzione aumenti, che i profitti si realizzino. D’altronde, a costo del naufragio di questa società, non è semplicemente possibile fare a meno dei pesticidi per mantenere l’esistente; l’agricoltura industriale ha già talmente trasformato, inquinato e impoverito la terra che nulla cresce su grande scala senza fertilizzanti sintetici e senza chimica per proteggere le piante da mille malattie e parassiti... che sono a loro volta, in gran parte, creati dalla resistenza che gli organismi tendono naturalmente a sviluppare contro ciò che li uccide. È un circolo vizioso o, meglio, è il famoso treno che avanza a tutta velocità verso l'abisso. Discutere a proposito di 3, 5 o 10 metri è veramente il dettaglio ipocrita del mare di veleni industriali che fanno scorrere nelle nostre vene e nei bronchi. I legami tra capitalismo, produzione industriale e malattie si manifestano dappertutto, non solo in agricoltura e nel cibo che essa produce. Quanti minatori, quanti metalmeccanici, quanti operai tessili, quanti imbianchini, quanti muratori, quanti operai e operaie sono morti in modo spaventoso a causa delle tossicità a cui erano stati esposti sul lavoro? Quante altre persone sono morte nella stessa maniera atroce a causa dei prodotti che hanno contribuito a diffondere sul mondo? Quanti tumori crescono nei nostri corpi esposti in modo permanente e consapevole alle radiazioni elettromagnetiche della felice società connessa? Significherebbe ingannarsi se ci si concentrasse soltanto sulle nocività più palesi, come l'energia nucleare o le emissioni di CO2: ogni prodotto che esce da una fabbrica, ogni merce che viene assemblata, ogni cibo che viene fabbricato in questo mondo contiene, porta in sé o provoca una dose di morte. È tragico, ma l'aumento vertiginoso dei casi di cancro è solo la punta dell'iceberg avvelenato su cui sopravviviamo. Sì, bisogna dire che non facciamo altro che sopravvivere, tanto più che la nostra «sopravvivenza» sembra sempre più irreale ed artificiale. Senza le impressionanti dosi di farmaci e trattamenti (che, per intenderci, contengono molte tossine di cui non si conoscono affatto gli effetti a lungo termine o che generano a loro volta nuove malattie o, nel caso degli antibiotici, batteri più resistenti e nocivi), quanti di noi sopravvivrebbero oltre i cinquant'anni? Per tornare ai pesticidi, benché sembri ormai molto tardi, potendo la disperazione armare le nostre mani e le nostre menti, il minimo che si possa fare è nominare alcuni responsabili. Costoro non sono presi a caso da un «rapporto» o un «meccanismo», secondo gli eterni cavilli balbettati per giustificare la servitù volontaria: fanno scelte in piena consapevolezza e ne traggono enorme profitto a scapito di tutti. Migliaia di documenti e studi a disposizione di tutti testimoniano la natura cancerogena e tossica dei pesticidi da cui dipende quasi tutta la produzione alimentare, per non parlare delle migliaia di altri documenti conservati «for your eyes only» nei sotterranei dei laboratori farmaceutici, negli uffici degli agro-industriali, nelle torri di vetro amministrative. Diamo un nome quindi a questi avvelenatori di massa. I maggiori produttori che si occupano del 75% della produzione mondiale di pesticidi sono ovviamente multinazionali: Bayer-Monsanto, Syngenta, BASF, Dow Chemical. In Francia, ci sono due federazioni padronali specializzate nel settore: l'Unione dell'industria della Protezione delle Piante (UIPP) e la Federazione Commercio Agricolo. La maggior parte dei seguenti produttori di pesticidi ne sono membri: Action PIN, Adama, Ascenza (SAPEC Agro), Belchim Crop Protection, Certis, Corteva Agriscience, De Sangosse, FMC, GOWAN, Lifescientific, Nufarm, Philagro, Phytoeurop, SBM Company, SUMI Agro, UPL, STE XEDA, Anios, Phytorus, Group 5 S, Dipter, Sesol, Indal, Helarion Industries, Emdex, Al'tech, Hygia, Cedre, Eurotonic. Vengono poi le autorità statali di pianificazione, emittenti di norme e di ricerche come l'Istituto Nazionale della Ricerca Agronomica (INRA), le cui decine di strutture di ricerca, produzione, sperimentazione, studio e formazione sono della partita, o ancora il Centro Nazionale di Ricerca Scientifica (CNRS), l'Istituto Nazionale di Salute e Ricerca (INSERM) e l'Agenzia Nazionale per la Sicurezza sanitaria degli alimenti, dell'ambiente e del lavoro (ANSES). Rimane infine da porsi un'ultima domanda, non più quella relativa ai produttori di pesticidi, ma a coloro che li usano per coltivare i propri raccolti. Se non tutti gli agricoltori usano pesticidi e molti di loro vorrebbero farne a meno, alcuni continuano ad avvelenare non solo se stessi, ma anche chi consumerà i loro prodotti o chi vive nelle vicinanze... Piuttosto che farne un elenco, cosa che sarebbe assurda come redigere un elenco di chi lavora nel nucleare, pensiamo che in seno alla stessa conflittualità vadano considerate le responsabilità degli uni e degli altri, che le possibilità di scelta consapevole possono allargarsi... e che lo storico «faccio solo il mio lavoro» sarà sempre meno accettato.
Per leggere il nuovo numero clicca qui: Avis de tempêtes, n. 21, 15 settembre 2019 (Traduzione Finimondo)
Nel disordine dei sogni Frammenti sparsi sul linguaggio e le mutilazioni del realismo
di Jamala Désir S-edizioni
Tratto dalla quarta di copertina:
"È quasi atroce constatare come oltre un secolo di critica alla tirannia del linguaggio sembra non aver contribuito ad altro che a fomentare l’entusiastica rassegnazione generalizzata alla chiacchiera, allo slogan, alle istruzioni tecniche d’uso, ai rutti pro e contro le didascalie che accompagnano il flusso di immagini che hanno colonizzato la nostra immaginazione. Davanti a tale sconsolante situazione si capisce bene quanto possa diventare imperiosa la tentazione di prendere congedo da un mondo sempre più privo di senso ed incanto. Ma si capisce anche come chi non intende cedere a una simile mesta tentazione, si trovi sempre più stretto dalla necessità di sottrarre le proprie parole all’arruolamento forzato. Ad esempio ricorrendo ad un linguaggio frammentario per rendere palpabile l’impossibilità di esprimersi in maniera esaustiva, definitiva. Il frammento ci ricorda che il dispiegamento della logica non può nulla per salvare il discorso dal disordine di cui pretende rendere (e fare di) conto. Ma, anziché ammutolirsi davanti a questa consapevolezza, si rimette in causa la parola."
Una copia singola tre di vile denaro. Dalle cinque copie richieste e oltre due di vile denaro a copia.
All'alba di venerdì 20 settembre la Digos di Torino ha eseguito 14 misure cautelari di cui tre arresti in carcere e undici divieti di dimora dalla città piemontese. Altri compagni e compagne sono stati denunciati e hanno subito delle perquisizioni. I reati contestati a vario titolo sono violenza a pubblico ufficiale, lesioni aggravate e danneggiamento. I fatti sono quelli relativi agli incidenti fra rivoltosi e sbirri in occasione della manifestazione del 9 febbraio dopo lo sgombero dell'Asilo e gli arresti di due giorni prima nell'ambito dell'operazione poliziesca denominata Scintilla.
Venerdì sera si è svolto un corteo in quartiere Bovisa a Milano e ieri un saluto al carcere delle Vallette di Torino ha cercato di portare calore e solidarietà agli arrestati, senza dimenticare che in quel luogo di tortura che è il carcere, a Torino è ancora rinchiusa Silvia, arrestata a febbraio in seguito allo sgombero dell'Asilo e all'operazione Scintilla.
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