Vi proponiamo un articolo uscito su Frangenti, precisamente il n. 23 del 20 aprile 2018. Cambiate i massacratori, ribaltate gli attori del genocidio e trafugate la commistione fra tecnologia e guerra. Che fossimo in guerra, nessuna novità. Ciò che sta accadendo alla luce del conflitto Usa-Iran riguarda il quotidiano di ognuno di noi.
La contemporaneità ha prodotto un’altra idea di guerra: quella vissuta come minaccia, fatta a grappoli e usata, come inizio, per intimidire. Una guerra del tutto tecnologica. Senza l’elemento tecnico non si potrebbe pensarla e attuarla nei termini del mordi e fuggi, come abbiamo visto pochi giorni fa in Siria. Una guerra di precisione: dal giardino guerrafondaio di Washington, di Parigi e di Londra si possono sterminare migliaia di vite e devastare luoghi. La forza monolitica di informatizzare gli strumenti di guerra, attraverso la proliferazione dell’informatica e dell’elettronica, è un passo che ormai dalla guerra in Iraq e in Afghanistan non detta più i tempi degli eserciti, ma l’azionamento di un pulsante. A pulsante, si risponde morte.
Da Hiroshima e Nagasaki, da Baghdad a Kabul, per arrivare a Homs, quel pulsante fomenta massacri. La guerra fatta con tecnologie avanzatissime devasta la nozione di tempo e di spazio. Essere cacciati nell’astorico, in quello che viene definito presente eterno di morte, sopisce la sensibilità e il pensiero. E il pensiero dimezzato, il pensiero che si forma attraverso opinioni da social network, perde l’immensa capacità di immaginare: quel sogno necessario che ha sempre ispirato individui e gruppi di ribelli nel cercare di spezzare le proprie catene. Dalla guerra del Vietnam in poi, le guerre non vengono più dichiarate, si fanno. Punto. Questo imperativo pone una serie di problematiche. Possiamo dire di esistere in una guerra permanente? O è solo l’esagerazione di certe paranoie? E se la guerra non dichiarata e attuata facesse da base per una guerra civile, non solo in Oriente, ma anche in Occidente? In Siria, le rivolte contro il regime di Assad, ai loro inizi, erano incentrate in rivendicazioni come libertà e dignità. Nate come movimento di opposizione al regime, si sono poco a poco disarcionate in guerra fratricida tra gli assassini di Assad e un miscuglio di integralismo religioso e di rivendicazioni territoriali. Dalla parola libertà si è passati a sostenere interessi privati fra varie bande che vorrebbero conquistare le città e non distruggere il regime che soffoca la vita. E su questo, tutti gli individui che fanno della lotta a qualsiasi guerra una dimensione decisiva del proprio vissuto cosa potrebbero pensare? Come reagire allo sbandamento che ha provocato la delicatissima questione siriana in questi anni?
Oggi, con una guerra civile globale alle porte, è lo sguardo attento e desiderante che può ribaltare la miopia assassina della tecnologia. E se portare il caos nel robot tecnologico fosse un buon modo di affermare di essere contro qualsiasi guerra?
«Durante il grande massacro feci circa mille disegni politici per il giornale quotidiano La Feuille. Quando dico politici esagero, perché io volevo soprattutto che i miei disegni avessero una tendenza umana».
(Frans Masereel)
Nel 1920 l’editore berlinese Kasimir Edschmid pubblica il volume Politische Zeichnung (Disegni politici), contenente una cinquantina di xilografie su legno incise durante la Prima Guerra mondiale dall’illustratore belga Frans Masereel (1889-1972), oggi ricordato solo come precursore del romanzo grafico e del fumetto. Si tratta di disegni antimilitaristi destinati in un certo senso a disvelare le notizie belliche del giorno e quindi, come scriveva nell’introduzione del libro lo stesso Edschmid, «fanno vedere il vero volto delle battaglie, non come atti eroici, ma come atti barbari e distruttori». Anche qui, come in tutte le sue opere, Masereel denuncia senza concessioni gli orrori della guerra, del sopruso e dell’oppressione sociale. Questi disegni umani sono stati qui trasformati in una mostra, nel corso della quale scorreranno anche le immagini del cortrometraggio L’Idea, tratto dal capolavoro di Masereel. I disegni de L’Idea sono stati messi in movimento nel 1932 dal regista austro-ungherese Berthold Bartosch. Il primo film d’animazione poetico-filosofico della storia del cinema dà anche modo di ascoltare le sperimentazioni di Arthur Honegger, figura ascendente della musica d’avanguardia dell’epoca, compositore della colonna sonora.
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Per tutto il mese di Gennaio 2020
c/o la Libreria Ponchielli di CREMONA in piazza Sant’Antonio Maria Zaccaria n. 10
MOSTRA ANTIMILITARISTA
Venerdì 3 gennaio alle ore 18 proiezione del cortometraggio L’IDEA
È la metafora con cui per alcuni secoli, a partire da una frase del poeta latino Giovenale, si è indicato un fatto ritenuto impossibile. Poiché l’esperienza comune insegnava che tutti i cigni sono bianchi, l’esistenza di un tale animale dal piumaggio scuro veniva percepita come un’assurdità che mai si sarebbe materializzata. Ma poi, all’inizio dello scorso secolo, alcuni esploratori in Australia si trovarono davanti un esemplare di Chenopis Atrata — un cigno nero.
Da allora con «cigno nero» si intende un fatto inaudito, imprevedibile, inaspettato, il cui verificarsi potrebbe avere un forte impatto giacché con la sua stra-ordinarietà metterebbe fine a quella che viene considerata una norma generale indiscutibile. Ad esempio, in campo finanziario «cigno nero» indica un evento improvviso e catastrofico, impossibile da prevedere in anticipo, temuto dagli speculatori perché avrebbe come effetto il crollo dell’economia.
Ora, se la storia non procede strisciando — come vorrebbe il determinismo — ma a balzi, è proprio perché di tanto in tanto compare un cigno nero. E se ciò fosse possibile anche per il cosiddetto immaginario? L’apparizione di un’idea considerata inverosimile, inconcepibile, non potrebbe minare le fondamenta del pensiero più comune (trogolo di slogan di partito e spot pubblicitari, opinioni giornalistiche e cinguettii telematici), quello che riduce la fantasia più smisurata alle dimensioni di uno schermo?
Forse un’illusione destinata a svanire, comunque una scommessa da azzardare con testardaggine.
Abbiamo quindi deciso di porre sotto l’ala del Cigno Nero alcune iniziative pubbliche (proiezioni di documentari, dibattiti, mostre, rassegne cinematografiche…) che tenteranno di far avvistare il più insolito ed inatteso degli universi mentali, quello che vuole la libertà incompatibile con qualsiasi forma di potere. Sulla necessità, sulla ineluttabilità, sulla eternità di un dominio — in perpetua mutazione nelle sue numerose e talvolta contraddittorie varianti — è stata costruita l’intera civiltà. E la disponibilità alla servitù volontaria, il riflesso condizionato che fa scattare sull’attenti davanti ad un’autorità, si basa proprio sull’intima convinzione che la vita umana non possa fare a meno di gerarchie. Come se un’esistenza priva di ordini a cui obbedire fosse, per l’appunto, un’assurdità.
È nostra ipotesi, e nostro auspicio, che in ogni ambito della vita in questa civiltà, nessuno escluso, possa (e debba) apparire un Cigno Nero capace di sfidare la tradizione, di violare la sacralità, di sbriciolare il luogo comune. Ridando così senso, bellezza ed incanto ai nostri giorni sulla terra ed al mondo stesso che ci ospita, da troppo tempo soffocati da ragioni politiche, leggi di mercato, applicazioni tecniche e dogmi religiosi.
Il Cigno Nero non ha un nido. I suoi avvistamenti dipenderanno, nel tempo come nello spazio, dagli sforzi dei suoi appassionati ricercatori. A stimolo di intraprendenti curiosi che volessero a loro volta «guardare l’impossibile tanto da trasformarlo in una possibilità», le sue tracce verranno raccolte in questo blog.
Dopo mesi di trattative col potere, i sindacati all'inizio di dicembre hanno infine partorito il loro sciopero contro «la riforma delle pensioni». Benché ci si ostini a chiamarlo «generale» sia fra i dirigenti sindacali sia all’interno della «base» (senza tralasciare «i radicali», naturalmente!), ciò è palesemente fuori luogo. Nel momento in cui scriviamo, riguarda principalmente i trasporti e i funzionari statali, spalleggiati da qualche bastione più «combattivo» del sindacalismo, come è il caso delle raffinerie. Riaffiora come un mantra il solito ritornello: da un lato c'è il famoso «non molliamo» e dall’altro «non cambieremo il principio della riforma». È improbabile che questo scenario, già visto così tante volte, finisca diversamente del gioco delle tre carte: alla fine, dopo aspre trattative e pugni sbattuti sul tavolo, si fa la conta delle forze presenti. Il sipario si chiude: si molla comunque su qualcosa (creazione di un regime unico) da un lato e si modificherà in parte il principio dall'altro (mantenimento di specificità di deroga, come quelle già accettate per gli sbirri il 12 dicembre). Ma lungi da noi rimproverare ai sindacati di fare la loro parte del lavoro di cogestione di un esistente che noi vogliamo distruggere. Costoro difendono i propri interessi di mediatori e pacificatori, usano i propri strumenti per fare pressione, inducono i più agitati nei loro ranghi ad apparire positivi e vigorosi, arrivano persino ad affiancare alcuni radicali per aggiungerli al bilancio finale decisivo (ovviamente quantitativo), abbandonando strada facendo i sognatori che hanno dato tanto per «cambiare tutto», e cercando di rafforzare il proprio ruolo di intermediari tra Stato, Capitale e mondo del lavoro, come si suol dire. No, se qualcosa ci stupisce ancora ingenuamente, non è il rapporto di forza programmato dai sindacati tra due corsie ministeriali, ma i facili entusiasmi dei rivoluzionari che chiamano ad unirsi allo sciopero, al grrrande sciopero generale, appelli che mettono in pausa qualsiasi riflessione critica. In aggiunta all’«effetto mobilitante», il processo invariabilmente impiegato è quello dell'esagerazione e della mistificazione, lasciando parecchio indietro in qualche caso anche i professionisti della propaganda (politici e quadri sindacali). È stato persino scritto «Sciopero generale contro Macron e il suo mondo», ad esempio, mentre si tratta di uno sciopero parziale e riconducibile contro... la riforma delle pensioni (ossia, per questo mondo). D’altronde, già che ci siamo, forse varrebbe la pena riflettere un momento, al di là della confusione, sulle fanfare sindacali e sugli striscioni «Marx o morte» dei nostri cari radicali abbigliati di nero per l’occasione (non c’è da preoccuparsi, fa solo parte del circo, domani si cambieranno di nuovo indossando i patetici abiti rossi della «dialettica di classe» o del «plusvalore», se non della «ascesa del fascismo» per i più dilettanti), su ciò che è «la pensione». Organizzata dallo Stato, cogestita dai sindacati padronali e dei lavoratori o dalle assicurazioni private, la pensione consiste in favolose somme di denaro che vengono prelevate oggi ai salariati per essere loro restituite (beh, come stiamo vedendo, con qualche fluttuazione) a piccole dosi domani, quando saranno troppo vecchi per produrre ancora a pieno regime. Il dibattito tra pensioni assistenziali e pensioni capitalizzate ha come sfondo in particolar modo la questione dei «pension funds» (per usare un termine inglese), già attivi come integrazione (soprattutto tra i dipendenti pubblici) e introdotti in maniera più ampia a partire da ottobre nella legge attraverso i Piani di risparmio previdenziale (PER), e che la riduzione programmata degli importi versati rafforzerà. Perché le somme raccolte non sono meramente «virtuali», ma alimentano importanti operatori sui mercati finanziari. Proprio come le banche, i fondi di investimento, ecc., i «fondi pensione» speculano su tutto e investono in tutti i campi. Dalla speculazione sulla fame alla speculazione immobiliare, dagli investimenti nelle «energie verdi» al sovvenzionamento delle industrie belliche, dai prestiti allo Stato per finanziare le sue prigioni e i suoi poliziotti allo sfruttamento degli agglomerati industriali. In breve: la pensione non è solo il denaro che un pensionato può ricevere alla fine della sua «carriera», ma rappresenta un'importante leva finanziaria nel mondo capitalista. Allora, come mai il governo francese, al pari dei suoi omologhi europei, si ostina a voler riformare il sistema pensionistico? Per schiacciare ulteriormente «i precari, le donne e i più poveri» come riassume, ovviamente senza alcun dogmatismo propagandistico, un altro di questi appelli entusiasta della mobilitazione sindacale? Potrebbe certo trattarsi di un effetto della riforma, ma ciò che l'attuale governo francese cerca di fare è adeguare il territorio che amministra al mondo odierno. È la fine dello Stato-papà — che nel complesso dava denaro per comprare pace sociale, per promuovere il «progresso sociale» ed evitare rivoluzioni — un modello che ormai è obsoleto. Quindi, come è possibile non rendersi conto che quasi tutti i movimenti sociali contro questa o quella riforma sono movimenti essenzialmente difensivi e conservatori di uno status quo in via di sparizione? Non siamo più ai tempi in cui insorgevano per demolire pezzi di questo mondo andando all’assalto del cielo o per strappare brandelli della borsa del capitale, il che solleva l’antica domanda sulla possibilità di andare all'offensiva partendo da una posizione strutturalmente difensiva. Questi movimenti difendono il mondo che conoscono, in particolare quello che è riuscito a garantire a determinati strati del proletariato in Europa un livello di vita che consente l'accesso al consumo di massa, allo svago e al divertimento. Un mondo il cui prezzo è sempre stato pagato altrove, da altri proletari, che del consumo di massa hanno visto solo gli scarti e che muoiono in fondo alle miniere in Africa o nelle fabbriche tessili in Asia. Ed è questo che dovremmo difendere? È per questo che dovremmo scioperare? In fondo la pensione è un prestito che i salariati concedono allo Stato e al capitale, sperando che costoro mantengano la loro promessa quarant'anni dopo. Quindi, in tutta franchezza, tutto questo cosa può mai avere a che fare con... gli anarchici? Se i sindacati vogliono un regime pensionistico, ciò implica di fatto l'esistenza dello Stato, e perfino il mantenimento di un maggiore intervento dello Stato nella vita sociale. Certo, noi non vogliamo portare acqua al mulino degli ultra-liberali, ma l'anarchico è ancora un nemico dello Stato, giusto? E non vuole che lo Stato conservi o accresca il suo potere, giusto? Non vuole far sì che lo Stato si appropri di ulteriori leve per dominare, giusto? Ma allora... La cosa più insopportabile in tutto ciò è in definitiva l'iperbole del noi che infesta i discorsi radicali. «Noi salariati», «la nostra collera», «è in tutte le teste». Ma cos’è questo «noi» di cui parlano? Della condizione di sfruttati che si condivide (per forza, non volontariamente)? Dell'opposizione «comune» che c’è contro «la riforma», così ampia da radunare inevitabilmente una folla e gli interessi più eterogenei? È il ritornello di sempre, della convergenza come della composizione o di alleanze oggettive, quello che ha sempre condotto alla stessa via senza uscita: la famosa condizione che creerebbe la coscienza. Eppure, sembra piuttosto che la coscienza sia il rifiuto di tale condizione... e del suo mondo. Lo sfruttato che non vuole più essere tale non implora una pensione, chiede la fine del salariato. L’oppresso che non vuole più essere comandato non segue le parole d'ordine che arrivano dall'alto, ma canta la propria canzone. Il suddito che non vuole più essere governato non rivendica più uno Stato, ma lo respinge sempre più incalzandolo e disorganizzandolo per annientarlo. Non esiste una dialettica da funamboli che possa spezzare un ragionamento così chiaro: tutto ciò che rafforza lo Stato ci allontana dalla sua distruzione. Quindi cerchiamo, per parte nostra, di evitare i facili entusiasmi, aguzzando piuttosto il nostro sguardo critico. L'anno scorso, ondate di rabbia selvaggia hanno invaso la Francia malgrado l’iniziale scetticismo di tanti. Una rivolta che è sfuggita alle tradizionali mediazioni sindacali e politiche (non senza tuttavia produrne di nuove), che ha moltiplicato gli scontri, gli incendi, le interruzioni e le devastazioni, il sabotaggio... la distruzione. Per ragioni talvolta futili, con motivazioni spesso molto divergenti, al limite ripetendo sciocchezze lette o viste qui e là (come l'interpretazione talvolta complottista del mondo), ma una rivolta che ha comunque scatenato qualcosa, che ha aperto possibili spazi a tutte e tutti respingendo in un primo tempo partiti e sindacati. Viceversa, uno sciopero guidato dai sindacati e che non riesce a sbarazzarsene non scatena affatto, bensì incatena. Contrariamente alle speranze di sempre che «della rivolta rimanga pur qualcosa», temiamo che questo sciopero produca l’esatto contrario: portare ordine nella protesta sociale, a fronte del carattere spesso incontrollato che ha prevalso a lungo nel movimento dei gilet gialli in numerose città. D’altronde è questo il ruolo per eccellenza dei sindacati. E per lo Stato, questo risultato val bene alcune settimane di disordine nei trasporti. Rimane una domanda: ci sono analisi, segnali o intuizioni che sembrano indicare che questo sciopero potrebbe deragliare verso qualcosa di diverso da un rapporto di forza tra Stato e sindacati, sostenuti all’occorrenza da una manodopera radicale? Per il momento, nonostante i resoconti infuocati di questo o quell'evento, nonostante la sovrabbondanza di appelli a partecipare, nonostante i pallet che bruciano all’entrata delle raffinerie (che ovviamente continuano a rifornire a profusione gli sbirri di carburante prosciugando nel contempo le pompe dove si servono i dimostranti), siamo propensi a rispondere in modo negativo. Possiamo ancora provare a far deragliare questo sciopero in totale autonomia e contro i pastori che attualmente guidano il gregge protestatario? Certamente! Ogni interruzione del tran tran quotidiano apre possibilità a coloro che intendono afferrarle, soprattutto se ci si è sbarazzati dell'illusione del quantitativo e si sono chiarite le proprie prospettive. Comunque sia: «La gioia del risultato è già nella gioia dello sforzo. Chiunque muova i primi passi in una direzione che ha tutti i motivi di ritenere buona, arriva già all'obiettivo, vale a dire che ha la ricompensa immediata della sua fatica». Non abbiamo bisogno di miraggi per metterci in cammino.
George Orwell ha scritto un romanzo — 1984 — divenuto celebre in tutto il mondo per la sua critica del totalitarismo. Ma di quale totalitarismo? Essendo stato scritto nel 1948, quasi tutti i suoi lettori lo hanno considerato una denuncia dei regimi stalinista e nazi-fascista. Il successo riscosso da 1984 si fonda quindi sulla presunzione che esso descriva un mondo ben diverso da quello in cui viviamo, dando ai bravi e buoni cittadini del «mondo libero» un’idea e una percezione di un orrore già accaduto o visibile altrove, comunque lontano nel tempo o nello spazio. Non era così. Orwell non intendeva affatto dimostrare una banalità, ovvero che il totalitarismo è brutto e cattivo. La sua intenzione non era neppure quella di denunciare un particolare tipo di regime politico contemporaneo, ma piuttosto di disvelare i meccanismi intellettuali e psicologici che ne stanno alla base e mostrare come questi funzionino non solo nelle tirannie, ma anche nelle democrazie. Ieri, anche fuori della Russia di Stalin, della Germania di Hitler, dell’Italia di Mussolini. Oggi, dappertutto. L’essenza del totalitarismo infatti non si manifesta con l'onnipotenza di una polizia brutale, ma col totale controllo mentale. La sorveglianza costante, gli arresti di massa, gli interrogatori, le torture, i processi sommari e i campi di concentramento sono solo… accessori; sono mezzi per ottenere il dominio delle menti, o meglio per addestrare l'individuo a controllare da sé il proprio pensiero. Ma lo strumento imprescindibile di ogni totalitarismo non è affatto la stanza 101, che a seconda dei contesti e delle circostanze può tranquillamente essere sostituita dagli schermi televisivi (non a caso Orwell si ispirò al Mondo nuovo del suo maestro Huxley, dove il controllo totale viene raggiunto attraverso la beatitudine, e non attraverso il terrore). Se l’intento è quello di sopprimere il pensiero, non esistono sostanziali differenze tra bruciare i libri e renderli di nessun interesse. Se è difficile riscontrare un’effettiva differenza tra un territorio controllato da invadenti pattuglie di poliziotti presenti ad ogni angolo di strada ed un territorio sorvegliato da discrete telecamere disseminate un po’ dovunque, allo stesso modo qual è la differenza tra una corrispondenza cartacea intercettata dai servizi segreti ed una corrispondenza telematica a totale disposizione di multinazionali come Google o Facebook? Nel mondo totalitario di 1984 è criminale qualsiasi pensiero, per quanto insignificante, che non sia del tutto allineato alla dottrina del Partito (cioè dello Stato). Allo scopo di scongiurare la minaccia sovversiva si distrugge la capacità critica degli individui, riducendo drasticamente il numero di parole a loro disposizione, semplificandone al massimo le possibili elaborazioni logiche. Meno parole esistono, meno riflessioni si possono fare. Una volta resi incapaci di esprimere un pensiero complesso proprio, agli individui non rimane altro che ripetere gli slogan e le frasi fatte diffuse dalla propaganda. È in questo modo che secondo Orwell il totalitarismo arriva al «controllo della realtà», al bispensiero («la capacità di accogliere simultaneamente nella propria mente due opinioni tra loro contrastanti, accettandole entrambe»). Il bispensiero viene utilizzato come arma di manipolazione psicologica, per rendere l'individuo incapace di pensare da sé; d’altronde, sostenere nel contempo qualcosa e il suo contrario non può che produrre una disintegrazione della coscienza. La negazione dell'opposizione tra due affermazioni impedisce qualsiasi rappresentazione. Non è più possibile percepire e interpretare la realtà, si può solo sperimentarla, subirla, diventarne soggetti — non analizzarla e trasformarla. Per imporsi con le sue continue contraddizioni, il bispensiero ha bisogno di rendere la psiche degli individui molto fluida, facendoli vivere solo nel e sul presente: la verità è ciò che il Partito (cioè lo Stato) dice. O meglio, è ciò che sta dicendo. E che, un attimo dopo, potrebbe capovolgersi nel suo esatto contrario. L'obiettivo finale del potere è quindi spezzare il rapporto dell'individuo con la verità del significato, con la sua profondità storica, al fine di renderlo un essere totalmente malleabile, cioè manipolabile. In fondo è un ideale condiviso da tutte le grandi ideologie a partire dall'inizio del XX secolo: plasmare l'essere umano, riuscire a fargli credere qualsiasi cosa, addestrarlo a negare il minimo senso e talvolta anche la testimonianza dei propri sensi. Si tratta di un progetto quasi del tutto realizzato, essendo diventato il bispensiero la cosa più condivisa. In quale altro modo spiegarsi la pretesa di difendere la natura dal progresso industriale che la devasta, mentre si sostiene la scienza e ci si rivolge ai governanti che finanziano e realizzano questo stesso progresso? Se nel caso della giovanissima Greta Thunberg si può forse parlare di ingenuità, negli adulti che la adulano di cosa si può parlare? Non è certo difficile notare la pari assurdità fra gli slogan del Big Brother («la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza») e quelli del Fridaysforfuture («lo sviluppo è sostenibile, l'economia è circolare, la scienza è verde»). Allo stesso modo non dovrebbe essere troppo arduo capire che invitare chi detiene il potere ad «unirsi dietro la scienza» equivale a credere che il problema sia al tempo stesso la soluzione. L’inarrestabile distruzione della natura non è uno sbadato errore dell'attuale organizzazione sociale suscettibile di venir corretto una volta presone atto, bensì una delle conseguenze ovvie del capitalismo, per il quale «tutte le risorse naturali hanno il colore dell’oro. Più rapidamente le sfrutta, più s’accelera il flusso d’oro». Chiedere gentilmente a funzionari e servitori del Dio Denaro di porre fine allo sfruttamento delle risorse («fare pressione sulle istituzioni locali, regionali, nazionali, affinché siano intraprese azioni di governo e di organizzazione internazionale più efficaci nel contenere gli effetti del collasso climatico») è come chiedere gentilmente ai lupi di porre fine allo sterminio delle pecore. Non si può stare contemporaneamente da entrambe le parti. Non saranno la scienza e lo Stato a «far tornare selvaggia la natura», ma solo la lotta contro la scienza e lo Stato. Per capire fino a che punto il bispensiero abbia annichilito ogni capacità critica basterebbe spostarsi a Taranto, città in subbuglio contro la decisione della multinazionale Arcelor Mittal di spegnere gli altiforni dell'Ilva. La preoccupazione di salvaguardare il «livello occupazionale» e di garantire «il diritto al lavoro» è tale da far convergere governo, sindacati e forze progressiste verso un unico obiettivo: impedire ad ogni costo la chiusura della più grande acciaieria d'Europa. Ma, considerato che governo, sindacati e forze progressiste non nascondono il loro sostegno alla causa ambientalista della salvaguardia del clima, eccoci di fronte a un dilemma. Essendo l’Ilva di Taranto la principale fonte di anidride carbonica presente in Italia, la prima responsabile quindi nel nostro paese del riscaldamento climatico planetario, come si può al tempo stesso sostenere la rapida riduzione di emissioni nocive nell'atmosfera ed il mantenimento di quanto diffonde veleni nell'atmosfera? Il ministro dello Sviluppo economico potrà anche delirare definendo l'Ilva «un esempio di impianto industriale siderurgico, con uso di tecnologie sostenibili, con forni elettrici e altri impianti ecosostenibili», ma è fin troppo ovvio che la difesa della natura esige l’immediata chiusura della fabbrica, altro che una produzione annuale di 8 milioni di tonnellate di acciaio! Ma un'Italia senza industria, e una Taranto senza posti di lavoro, come potrebbero vivere all'interno di questa civiltà fondata sull’industria e sul lavoro? Ecco una domanda a cui gli slogan che pensano al posto nostro non potranno fornire una risposta. Nemmeno di venerdì.
Bombe sangue capitale Così era titolato un volantino diffuso a Milano, a firma “LUDD – Consigli Proletari”, nel gennaio 1970, pochissimi giorni dopo la strage di Piazza Fontana, che apriva ufficialmente la stagione definita della strategia della tensione e un decennio attraversato da grandissimi conflitti sociali, una enorme tensione utopica e sogni di rivoluzione sociale. A dispetto della pista anarchica imboccata da inquirenti e magistratura, quel volantino chiariva fin da subito i più importanti elementi di quella (ed altre che l’hanno seguita) strage, ovvero che era stata voluta e commessa per mano dello Stato, con la complicità dei fascisti, per soffocare e reprimere il nascente movimento rivoluzionario, e che Pinelli, tre giorni dopo, era stato assassinato nella questura di Milano. Se la Storia, nel corso dei decenni successivi, si è incaricata di dimostrare la verità di quelle affermazioni a caldo, svelando le responsabilità di tutti gli apparati dello Stato – dai servizi segreti alla magistratura alla polizia – passando per quelle dei fascisti e dei giornalisti, è anche vero che in questo mezzo secolo politici, giornalisti, giudici, scrittori e registi hanno continuato incessantemente a vomitare menzogne. Per questo è ancora urgente ribadire che a Piazza Fontana la strage l’ha compiuta lo Stato, che Pinelli è stato assassinato e che il commissario Calabresi non era il sant’uomo che si è cercato di descrivere, ma un torturatore e assassino che due anni e mezzo dopo l’uccisione di Pinelli ha avuto quanto meritava. Per questo è ancora importante affermare che quando gli anarchici fanno ricorso alla violenza non lo fanno in maniera indiscriminata, ammazzando deliberatamente innocenti nelle banche, nelle piazze, sui treni e nelle stazioni, oppure bombardando con aerei e droni o sparando sulla popolazione civile in conflitti di Paesi più o meno lontani, bensì individuando bene il proprio bersaglio, praticando la violenza sugli uomini o le strutture responsabili dei massacri indiscriminati.
Tratto da un' iniziativa della Biblioteca Anarchica Disordine – Officine Culturali Ergot