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A proposito di Kavarna

...la passione per la libertà è più forte d'ogni autorità...

Dopo l'incendio di giovedì scorso all'acciaieria Arvedi, la tragedia sfiora la farsa. ARPA e il sindaco Galimberti, come è funzionale al loro ruolo, si sono dimostrati i soliti leccapiedi dell'uomo più potente in città. E intanto noi tutti viviamo in mezzo al rischio di morte perpetuo prodotto dal virus dell'autorità.

Questo racconto è rivolto a tutti, anche ai buffoni di corte che non vogliono vedere che per farla finita con tumori ed inquinamento abbattere l'industrialismo è di vitale importanza per cercare di vivere una vita degna di essere vissuta. E chissà che anche chi difende l'indifendibile non nuoci più sulla salute di tutti nel mentre si mette la parola fine a tutta l'industria che è sinonimo di potere e nocività.

Apologo del Mecanoclasta

C'era una volta, nel verdeggiante regno d'Inghilterra, un giovane apprendista tessitore chiamato Ned Ludd. Mastro John, il suo padrone, continuava a rimproverarlo per la sua pigrizia, perché Ned era recalcitrante al lavoro, che lo sottraeva alle passeggiate e lo privava del tempo da passare con gli altri ragazzi del villaggio a gironzolare nei dintorni, a bere nelle taverne e a pomiciare con le ragazze nel fieno.
Un giorno Ned, sfinito da qualche bagordo notturno, si addormentò col naso sul telaio proprio quando il suo padrone gli aveva chiesto di aumentare il ritmo per onorare una ordinazione urgente. Messo in allerta dal russare del suo apprendista, mastro John lo svegliò bruscamente e si mise a picchiarlo senza riguardo con un bastone. Afflitto e ferito da una così rude batosta, Ned se ne tornò a casa col cuore traboccante di odio. Quella notte non riuscì a prendere sonno e si alzò prima dell'alba.
Munito di un pesante martello di Enoch, si recò silenziosamente al laboratorio del suo padrone, forzò la porta col manico del suo attrezzo e penetrò nella stanza che ospitava una mezza dozzina di telai. Ned sfogò la sua rabbia sulle macchine, accanendosi a colpi di mazza. Il fracasso non tardò a svegliare mastro John che, credendo si fosse introdotto un ladruncolo, caricò il fucile da caccia e senza perder tempo a vestirsi si precipitò giù dalla scala che conduceva al laboratorio. La sua burbera ed imponente sposa lo seguiva brandendo una lanterna, facendo scricchiolare i gradini sotto il suo quintale di grasso.
Nel laboratorio, con un'occhiata mastro John si rese conto della situazione. Una delle macchine era completamente distrutta, ma le altre avevano subito solo pochi danni; la stanza era vuota, la porta aperta. Mentre la moglie urlava sconce imprecazioni, il padrone, con la sola camicia da notte addosso, si precipitò fuori e, scorgendo in lontananza una figura che scappava a gambe levate, scaricò il suo fucile in direzione del vandalo, svegliando con lo sparo tutto il villaggio. Ma, a quella distanza e nella penombra, mancò fortunatamente il bersaglio, che presto si dileguò nella bruma dell'alba nascente.
Quel giorno Ned, che a furia di correre dietro le ragazze aveva buone gambe, sfrecciò nell'aria senza concedersi la minima sosta fino ad una lontana locanda di campagna. Qui si fece servire una montagna di costolette innaffiate con due o tre pinte di birra. Per l'impellente bisogno di pisciare uscì fuori nella stradina contigua al locale, mentre il locandiere, assorbito dallo studio dei suoi conti in fondo alla sala, non gli prestava attenzione. Vuotata la vescica e non avendo neanche un penny in tasca, Ned approfittò del colpo di fortuna per rimettersi a correre.
Fra scroccate e furtarelli, attraversò le terre di Albione da nord a sud senza essere mai colpito da una schioppettata, né acciuffato dai mastini lanciati sulle sue tracce. Giunto nella capitale del regno, si mescolò alla folla di straccioni, più o meno tutti buoni diavoli, che vi pullulavano come piattole sul pube della regina di Francia. Questa teppa aveva orecchie dappertutto. Ned non tardò a venire a sapere che un magistrato della sua contea lo perseguitava per vendetta con singolare tenacia. L'uomo aveva spinto il suo zelo fino a seguirne le tracce lungo tutto il suo viaggio costellato di bricconate.
Quel magistrato così perseverante si trovava al momento nella capitale, e interrogava cameriere ed informatori offrendo ricompense a chiunque lo avesse aiutato ad acciuffare Ned Ludd. L'uomo di legge aveva le sue ragioni per inseguire con tanto accanimento, e a proprie spese, l'autore di una tale bazzecola. Benevolo giudice di pace, era per mestiere costruttore di telai, che si ingegnava a perfezionare applicandovi le più recenti invenzioni della meccanica. Gli sembrava di importanza capitale che Ned, il profanatore una delle sue preziose e sante macchine, ricevesse una punizione esemplare. Ora, essendosi introdotto con un'effrazione nella casa del suo padrone, l'apprendista in fuga rischiava la corda.
Sapendosi dunque braccato, decise di lasciare il verde regno che la natura aveva circondato d'acque tumultuose. Trovò un imbarco come uomo di fatica su un mercantile e sbarcò furtivamente al primo scalo, in Olanda.
L'intero continente europeo era allora scosso dalla più frenetica agitazione. Si rovesciavano troni come birilli. In Francia, la plebe in sommossa aveva appena liquidato una dinastia vecchia di ottocento anni, facendo rotolare le reali teste di vitello nella segatura, massacrando a più non posso pretaglia e nobilaglia — e proclamando la Repubblica universale. Un'orda di ribelli cenciosi, con la sua sola apparizione sotto il sublime stendardo della Libertà aveva spaventato e messo in fuga ovunque le migliori truppe dei re coalizzati contro la canaglia in tripudio.
Ned si lasciò trascinare gioiosamente da questo tornado popolare che stava per cambiare per sempre il volto del mondo. Imparò a parlare la lingua infiorettata dei parigini dell'epoca, ed anche a leggere e scrivere, poiché non era stupido. Si impregnò così di idee nuove, senza tuttavia recitare il catechismo repubblicano che aveva sostituito quello dell'oscurantismo in disfatta, giacché non aveva affatto l'anima di un devoto. Ma guerreggiò con coraggio e lungimiranza e, se fosse stato più ambizioso, avrebbe forse potuto essere uno di quei generali ventenni sorti dal nulla per sbarazzarsi dei nuovi nemici della Repubblica.
Passati molti anni, ad uno di questi eroi la testa girò al punto da fargli rivestire la toga consolare e poi la porpora imperiale, sulla punta dei fucili e sotto le sole acclamazioni della sua guardia pretoriana. Ned vide la Libertà calpestata sotto i piedi in Europa, ed ebbe voglia di tornare nella sua isola natale. Era l'epoca in cui quest'ultima era completamente tagliata dal continente. Nessun vascello poteva cercare di accostarla senza rischiare di essere abbondantemente preso di mira dai cannoni della flotta del tiranno e conquistatore dell'Europa. Ma Ned, la cui borsa si era gonfiata con le razzie di guerra, non temette di attraversare la Manica, in una sera senza luna a fine primavera, su una bagnarola che aveva comprato nel massimo segreto da qualche pescatore della Costa d'Opale.
Rientrato nella sua contea natale, Ned vide con costernazione i mutamenti avvenuti durante la sua assenza di quattro lustri: divorando le campagne, le città si erano estese e popolate, e notevolmente imbruttite; i tessitori gemevano sotto il giogo del commercio, ridotti alla fame dalla rudezza dei tempi di guerra come dalla durezza dei fabbricanti. Nuove macchine, anche più malefiche dell'antico telaio distrutto una volta da Ned presso mastro John, invadevano i laboratori, togliendo il pane dalla bocca degli sventurati operai quando non li riducevano allo stato di semplici appendici di un automa. La contea sembrava in preda ad una maledizione.
Quanto a mastro John, non aveva potuto decidersi ad acquistare una di quelle macchine sataniche che aumentano il profitto e diminuiscono la qualità dell'opera. Rovinato da una concorrenza meno scrupolosa, dovette chiudere bottega. L'abuso di acquavite non aveva tardato a portarselo via e talvolta incrociava la sua vedova, ora smagrita, che girovagava per la landa proferendo frasi incoerenti. In mancanza di lavoro, i compagni apprendisti di Ned erano andati a vendere le loro braccia in una immensa fabbrica del nord del regno; e nessuno li aveva più visti tornare.
Di fronte a tale desolazione, Ned fu inizialmente tentato ad esiliarsi una seconda volta e pensò di andare a cercare fortuna nelle Indie occidentali; ma si ricordò di cosa avevano fatto i morti di fame francesi. Concepì allora il nobile progetto di formare una truppa di arditi raddrizzatori di torti e di installare il suo quartiere generale nella foresta di Sherwood, un tempo impenetrabile e sempre propizia ai fuorilegge.
Nel giro di qualche mese, si sistemò un rifugio e si mise d'accordo con alcuni giovani tessitori ridotti all'inattività, tanto robusti quanto decisi a venire alle mani. Ned insegnò loro la scienza delle armi e della lotta, quella che aveva imparato sui campi di battaglia dell'Europa.
In una notte di luna piena, fece loro giurare di servire il bene del popolo e di vendicare i suoi mali. Poi partì per la capitale, da cui tornò qualche giorno dopo con un piccolo carico di fucili e pistole, e un mucchio di martelli di tutte le misure — oltre a risme di carta e ad inchiostro. La sera del suo ritorno riunì i suoi compagni in una radura e fece loro, in sostanza, questo discorso:
«Cari fratelli congiurati, finalmente è arrivato il momento per la nostra piccola armata di lanciare il suo primo assalto. In altri tempi un gentiluomo di Spagna aveva combattuto i mulini a vento... Ebbene, ora sono i mulini di Satana che voi andrete a sconfiggere. Con l'ascia e con la mazza! Le armi da fuoco servono solo per tenere a distanza gli importuni. La carta e l'inchiostro non sono meno utili: serviranno ad ingrossare le vostre fila facendo conoscere la vostra lotta in tutte le taverne della contea e anche nel regno, attraverso epistole e manifesti.
Fratelli, abbiate sempre a cuore le nostre massime di libertà ma conservate nella lotta la più stretta disciplina. Risparmiate per quanto possibile il sangue degli uomini, ma siate implacabili con i traditori. Finché i cannoni dei nostri nemici non sono nelle nostre mani, il mistero ed il segreto sono le nostre armi migliori. Quei signori, i banchieri e i fabbricanti, hanno dalla loro la milizia e l'esercito, ed anche i perfidi magistrati e tutti i loro miserabili scagnozzi; ma noi avremo dalla nostra la sorda moltitudine. Loro sono padroni e possessori del giorno, noi lo saremo della notte».
Ciò detto, raccomandò ai congiurati di rispettare fedelmente, nel corso del combattimento che ne sarebbe scaturito, le regole tattiche adottate di comune accordo. Li esortò quindi ad agire con tanta saggezza quanto ardore. Poi voltò le spalle alla piccola truppa e si allontanò nella notte.
Così i compagni di Ludd andarono con passo fermo a devastare le macchine, e in effetti ne devastarono una infinità. E i potenti ne ebbero grande malapaura e sconvolgimento di budella.

Tratto da "La Colère de Ludd" di Julius Van Daal

Non esistono catastrofi naturali

Migliaia e migliaia di morti e dispersi, milioni di sfollati. Fino ad ora. Intere città spazzate via. Come se a colpire il Giappone non fosse stato un terremoto, ma bombe nucleari. Come se a devastare le case non fosse stato uno tsunami, ma una guerra.

In effetti, così è stato. Solo che i nemici che colpiscono così duramente non sono la terra o il mare. Questi non sono affatto strumenti della vendetta di una natura che siamo abituati a considerare ostile.

La guerra in corso ormai da secoli non è quella tra umanità e ambiente naturale, come molti vorrebbero farci credere per assicurarsi la nostra disciplina. Il nostro nemico siamo noi stessi.

Noi siamo la guerra. L’umanità è la guerra.

La natura è solo il suo principale campo di battaglia. Noi abbiamo causato le alluvioni, trasformando il clima atmosferico con la nostra attività industriale. Noi abbiamo rotto gli argini dei fiumi, cementificando il loro letto e disboscando le rive. Noi abbiamo fatto crollare i ponti, erigendoli con materiali di scarto scelti per vincere gli appalti. Noi abbiamo spazzato via interi borghi, edificando case in zone a rischio. Noi abbiamo contaminato il pianeta, costruendo centrali atomiche. Noi abbiamo allevato gli sciacalli, mirando al profitto in ogni circostanza. Noi abbiamo trascurato di prendere misure precauzionali contro simili eventi, preoccupati solo di aprire nuovi centri commerciali, nuove linee ferroviarie e metropolitane, nuovi stadi. Noi abbiamo permesso che tutto ciò avvenisse e si ripetesse, delegando ad altri le decisioni che invece riguardano la nostra vita.

Ed ora, dopo che abbiamo devastato il mondo per spostarci più velocemente, per mangiare più velocemente, per lavorare più velocemente, per guadagnare più velocemente, per guardare la Tv più velocemente, per vivere più velocemente, osiamo pure lamentarci quando scopriamo che moriamo anche più velocemente?

Non esistono catastrofi naturali, esistono solo catastrofi sociali.

Se non vogliamo continuare a rimanere vittime di terremoti imprevisti, di inondazioni eccezionali, di virus sconosciuti o quant’altro, non ci rimane che agire contro il nostro autentico nemico: il nostro modo di vita, i nostri valori, le nostre abitudini, la nostra cultura, la nostra indifferenza.

Non è alla natura che occorre urgentemente dichiarare guerra, ma a questa società e a tutte le sue istituzioni.

Se non siamo capaci di inventare un’altra esistenza e di batterci per realizzarla, prepariamoci a morire in quella che altri ci hanno destinato e imposto. E a morire in silenzio, così come abbiamo sempre vissuto.

manifesto affisso in Italia dal marzo 2011

Per aprirlo, scaricarlo e diffonderlo:

Nonesistonocatastrofi.pdf

Oggi è il 6 agosto ed è meglio ricordare la mostruosa normalità del nucleare con le parole di Anders. Buona lettura.

Per proletariato s'intendeva, cent'anni fa, quella massa di persone che dovevano vendere il loro tempo di lavoro e la loro forza di lavoro, e che non erano proprietari dei loro mezzi di produzione e della maggioranza dei loro prodotti. Oggi noi (anche quando, come salariati o stipendiati, possediamo un'automobile, un frigorifero, ecc.) siamo non proprietari in un senso molto più pauroso. Poiché non siamo proprietari dello scopo del nostro lavoro e degli effetti del nostro lavoro. Con ciò non voglio dire soltanto che, nel nostro lavoro, non vediamo davanti a noi il prodotto finito, la sua finalità e il suo impiego; ma che essi non possono e non devono interessarci in alcun modo. Che si lavori in una fabbrica di dentifrici o in campo di sterminio o in un cantiere per l'installazione di missili atomici (in Turchia, a Okinawa, in Italia o a Cuba), è sempre proibito, o passa addirittura per ridicolo chiedersi se ciò che si è prodotto sia approvabile o riprovevole, e non ci viene più nemmeno in mente di chiedercelo. Poiché la grandezza delle industrie e la divisione del lavoro fanno sì che il prodotto finito e il suo impiego non balenino più nemmeno per un istante agli occhi dei lavoratori. Questa circostanza ci toglie perfino la libertà di chiedere. Lasciamo sempre la morale nel guardaroba della fabbrica, per indossarla di nuovo nel dopo lavoro. Che cosa significa questo?
Risposta: è lo scandalo più terribile della nostra vita odierna. Significa che c'è un settore, nella nostra vita odierna, che è universalmente considerato come “moralmente neutro”, come “terra di nessuna morale”, e, per dirla con le parole di Nietzsche, come “al di là del bene e del male”, e che anche noi abbiamo riconosciuto questo settore (chiamato lavoro) come “al di là del bene e del male”.
Ora è chiaro che noi lavorando, per esempio alla costruzione di missili, nello stesso tempo agiamo, operiamo, e che con questo nostro agire produciamo effetti e che questo vale per ogni lavoro. Eppure, eccezion fatta per alcuni medici e alcuni fisici, nessuno di noi si rende conto, nessuno è consapevole che il suo agire chiamato “lavoro” dovrebbe sottostare alla morale allo stesso modo in cui vi sottostanno i suoi rapporti coi vicini, anzi ancora di più, poiché il nostro lavoro può produrre conseguenze infinitamente più grandi e più terribili della nostra condotta quotidiana nell'ambito privato. Eppure (o, piuttosto, proprio per questo, perché siamo tentati di occuparcene) il lavoro è considerato come qualcosa che non olet, che non puzza in nessuna circostanza; che non puzza nemmeno quando rappresenta un contributo allo sterminio dell'umanità. C'è un motto forgiato in origine contro la nobiltà: “Il lavoro non disonora”. Il significato di questo motto è stato pervertito nel modo più pauroso poiché oggi serve a giustificare il lavoro in ciò che ha di più infame. E questo lavoro disonora di certo; e più che il furto di posate d'argento. Ma la vera infamia consiste nel fatto che la morale è relegata nella riserva della vita privata, nell'interesse di coloro che sono interessati alla produzione di prodotti moralmente inammissibili.
La nostra situazione è tanto più fatale in quanto oggi quasi ogni specie di attività umana può essere assimilata al genere di azione che si chiama “lavoro”. Anche l'assassinio ci può essere assegnato come lavoro, anche la liquidazione di bambini ci può essere imposta come un lavoro di sgombero delle immondizie. Anche voi sapete che gli impiegati nei campi di sterminio di Hitler si appellavano, con la miglior coscienza del mondo, al fatto che si erano limitati a lavorare, e a lavorare coscienziosamente; producevano cadaveri di massa, e perché questa produzione fosse necessaria e a che cosa servisse, chiedersi una cosa simile avrebbe significato (il lavoro moderno essendo fondato sulla divisione del lavoro) immischiarsi in un settore di competenza altrui, un'ingerenza che essi si guardavano bene dal compiere come “immorale”. Ma non dovete credere che questo caso sia un caso eccezionale e isolato. Ancora oggi la squadra che partecipò al bombardamento di Hiroshima definisce la sua azione come un job; e perfino Eatherly, l'uomo che ha capito che cosa gli hanno fatto fare, perché e a che scopo ci si è serviti di lui, ha adoperato ripetutamente quest'espressione, e io stesso l'ho udito parlare del suo job: tanto è divenuto normale, ormai, esprimere ogni e qualunque azione nella terminologia del lavoro. E nulla sarebbe più ingenuo che credere che Eichmann abbia rappresentato nel nostro tempo una mostruosa eccezione. Anzi, è vero il contrario: egli è stato il simbolo di tutti noi. E dal momento che siamo pronti a seguire in buona coscienza e coscienziosamente qualunque cosa, purché ci venga assegnata come “lavoro”, siamo tutti degli Eichmann; e siamo tenuti a essere degli Eichmann, poiché lo esige la morale attuale, che pretende da noi che riconosciamo il lavoro come qualcosa di “moralmente neutro”.
Cari amici, è cento anni che parliamo, e senza dubbio a ragione, del fatto che i mezzi di produzione non sono proprietà dei lavoratori. Ma il disinteresse che ci viene imposto per gli effetti del nostro lavoro è anch'esso una forma di espropriazione; poiché, essendo privati dell'interesse di sapere che cosa accade in seguito al nostro operare, siamo anche privati della nostra responsabilità e della nostra coscienza; queste non sono più nostre proprietà. E in questo senso siamo proletari.
Una critica del lavoro, oggi, non può limitarsi, come cento anni fa, a criticare come immorali i rapporti di proprietà e i profitti. Marx poteva ben farlo, perché all'epoca in cui viveva non aveva motivo e occasione di mettere in dubbio il valore dei mezzi di produzione come tali o il valore dei prodotti come tali. La situazione si è completamente trasformata. Ciò che oggi va soprattutto criticato (e che Marx criticherebbe di certo) è l'immoralità dei prodotti stessi. Poiché questi non hanno più nulla a che fare con la soddisfazione dei bisogni (e quindi con la libertà dalla miseria); ma anzi minacciano nel modo più terribile (indipendentemente dai rapporti di proprietà sotto cui vengono fabbricati) l'umanità intera. È inutile precisare da chi e a vantaggio di chi questi prodotti sono stati fabbricati e impiegati per la prima volta. Qui e per il momento ciò che importa è qualcosa d'altro: e cioè che noi, oggi, non dobbiamo limitarci a chiedere come e per chi e in quali condizioni di lavoro e di proprietà di debba fabbricare e produrre, ma se certi prodotti si debbano fabbricare, se sia lecito, a noi o ad altri, produrre certi prodotti. La critica marxiana, che si riferiva ai rapporti di proprietà dei mezzi di produzione, deve essere ampliata: ciò di cui abbiamo bisogno è una critica radicale di prodotti.
Ora, naturalmente, in un senso molto limitato, esiste già una critica dei prodotti. Ogni industriale che voglia reggere sul mercato, si chiede se il suo prodotto sia remunerativo. In molti Paesi esistono anche associazioni di compratori che esercitano questa critica per proteggere il consumatore dalla merce scadente. Ma questa critica non è mai radicale. A essere criticata è sempre e solo la qualità o la sorta del prodotto, ma non mai la sua esistenza. Questa critica radicale è il compito di coloro che hanno il coraggio di opporre resistenza: e questa, naturalmente, deve cominciare di fronte ai prodotti del terrore. Mentre i tecnici ingenuamente presi nella fede del progresso si chiedono: “Come dobbiamo fare per rendere ancora migliori, ancora più distruttivi i mezzi che garantiscono fin d'ora la distruzione totale?” (si parla già di over kill capacity), noi ci chiediamo nell'interesse del miglioramento dell'uomo: “Questi prodotti – buoni, migliori o cattivi – sono leciti, sono permessi?”.
E la risposta è no. E il suo no può realizzarsi solo come sciopero. Certo, è un tipo completamente nuovo di sciopero che si tratta di inventare. Poiché in questo sciopero – ripeto – non si tratta già di migliori salari o di migliori condizioni o della socializzazione dei mezzi di produzione, per quanto importanti possano essere queste tre esigenze. Ma si tratterebbe – e sarebbe la prima volta nella storia – di impedire la produzione di determinati prodotti. Ed è evidente che questo sciopero sarebbe insieme uno sciopero per il nostro risanamento morale; poiché con esso daremmo a noi stessi la prova che siamo tornati a capire che “lavorare” è “agire” e che ci rifiutiamo di avallare, sotto la copertura della parola “lavoro”, azioni immorali che, se non fossero travestite in questo modo, non ci sogneremmo mai di poter approvare o condividere.
Quei fisici che si sono rifiutati di partecipare alla preparazione scientifica delle armi atomiche, ci hanno preceduto col loro buon esempio. Sono entrati in sciopero, hanno capito che gli effetti del loro lavoro sono effetti di cui devono assumersi la responsabilità. In questo senso dobbiamo scioperare anche noi. Mostriamo che sappiamo fare lo stesso, e che noi che abbiamo già appreso la solidarietà possiamo scioperare con maggiore unità e concordia. Perché ci resti il futuro. Non solo il nostro futuro. E non solo il futuro dei nostri figli. Ma anche il futuro di coloro che oggi sono così ciechi da tentare di diffamarci come pericolosi perché ci opponiamo alla loro minaccia.
Cari amici! La Resistenza non avrebbe più compiti? I nostri compiti cominciano solo ora.

Günther Anders

Estratto da "Siamo tutti come Eichmann?", gennaio 1963

Abbiamo ricevuto questo secondo contributo in risposta all'orribile e inaccettabile scritto "Distinti saluti! Alcune riflessioni sul femminismo, sulle dinamiche di ammaestramento e sul tentativo di americanizzazione delle lotte”, apparso sul bollettino n.4 dello spazio Luna Nera di Cosenza. Lo divulghiamo volentieri e ringraziamo la compagna nel deserto che ce lo ha inviato.

Mio malgrado, rispondo a un articolo contro il femminismo uscito da un
giornale anarchico. Il titolo è "Distinti saluti!", un articolo pieno
di stupidità a cui avrei volentieri fatto a meno di rispondere, ma
visti gli ultimi articoli e comunicati che stanno venendo fuori da
parecchi/e anarchicx, come anarchica e come femminista mi sento di  fare
uscire le mie ragioni, perché di ste cazzate se ne sentano sempre  meno,
o che almeno ci siano risposte in questo vuoto deprimente che sta
risucchiando parecchi/ie di noi.
Ho usato il plurale e il singolare per parlare alla persona o alle
persone che hanno scritto l'articolo a cui vado a ribattere, perchè non
so se è un singolo/una singola o se sono più persone.
Avverto che in questo articolo parlo di stupro, e i toni che utilizzo
sono senza filtri.

L'articolo "distinti saluti!" è la solita accozzaglia di riflessioni
che leggo da svariati anni contro il femminismo. Dopo il best seller
"miseria del femminismo" e altri fantastici articoli come quello di
una compagna anarchica in carcere uscito su un altro giornale
anarchico, ecco che mi sono decisa a rispondere a questa serie  infinita
di cazzate.
Per prima cosa infatti mi balza all'occhio la miseria con cui si
screditano certe lotte: il femminismo (ma potrei anche citare
l'antispecismo) viene visto come una lotta di bassa lega, riformista e
parziale, anzi  addirittura controproducente in quanto rafforzerebbe il
sistema  capitalista.
Queste deduzioni vengono fatte senza aver nessuna idea di cosa sia il
femminismo, ma anzi citando solo quei movimenti più riformisti che
chiedono il diritto al voto, più posti di lavoro per le  donne e più
potere, pene più severe agli uomini che fanno violenza  fisica e
psicologica a una donna.
Anche l'antispecismo viene visto dai sacerdoti dell'anarchia come una
lotta per dare voce a chi non ha  voce e farli entrare nello stato di
diritto. Comunicati, azioni, campagne (da cui bisognerebbe prendere
esempio) fatte da antispecistx o femministe non contano, vengono sempre
relegati ai piani più bassi come mere scelte, esigenze e gusti personali
e che devono restare nel  campo del "personale".
Quelli come voi che scrivono articoli di 20 pagine per sproloquiare
contro tuttx, farebbero meglio a non girare la frittata per affermare le
proprie ragioni. Nell'articolo (ma purtroppo anche le mie orecchie ne
hanno sentite tante) prendete in considerazione un tipo di femminismo
che non mi appartiene, è inutile che stiate a fargli le pulci; o forse
se lo fate è perchè siete cascati anche voi nelle maglie della società
dello spettacolo e quindi conoscete solo un certo femminismo mainstream.
Conoscete solo Emma Goldmann? (che citate tanto, se l'avessi citata io
come femminista sareste pronti a scrivere un libro sulle sue malefatte);
conoscete solo "miseria del femminismo" come la maggior parte della
galassia anarchica che, sentitasi in dovere di approfondire il
femminismo, ha pensato bene di leggersi solo quel librucolo pieno di
superficialità? Beh, comodo andarsi a leggere quella miseria, d'altronde
se uno parte già prevenuto su una lotta, perché capirla, meglio leggersi
una critica già bella pronta, editata da una casa editrice anarchica a
cui dare credito (perché gli anarchici hanno sempre ragione).
Dunque dove eravamo, ah già, criticate dunque un femminismo che io come anarchica rifiuto, e così tanti altri femimnismi o teorie femministe che
mi fanno cagare (Haraway e xenofemminismo - conoscete solo quelli perché sono in tutte le librerie). Potrei citarvene altri di femminismi che non
approvo, ma con questo non è che allora decido che non sono femminista;
così come mi fanno cagare tanti anarchici e non mi ci trovo, non è che
non sono più anarchica. Coltivo con grande amore e passione la mia anarchia e il mio femminismo, così come coltivo
tante altre istanze che, insieme, interconnesse mi danno una visione
molto chiara delle egemonie di potere.

Brevemente smonterò la tua convinzione che le femministe sono vittime e
assistenzialiste, insomma delle crocerossine, soffermandomi sui centri
antiviolenza e sportelli per la salute della donna che critichi. Non è
sempre un approccio assistenzialista, e non tutti questi centri aperti
sono stati istituzionalizzati; visto che non lo sai puoi prendere come
esempio l'ambulatorio popolare di Milano aperto da tantissimi anni che
ancora oggi rifiuta qualsiasi patteggiamento e resiste allo sgombero.
Per come li conosco io non vogliono sostituire lo Stato con servizi
migliori e dedicati, ma combattono il sistema sanitario
istituzionalizzato!!
Ah, e già che ci sono, evita di parlare di aborto e maternità, ci sono
già i preti e la scienza che mi entrano nelle mutande e straparlano a
caso dei nostri corpi provando evidentemente un piacere morboso.
Sai, caro/a scrittore anarchicx, se cominci un articolo facendo lo
storico senza conoscere la storia, rischi di fare revisionismo: usi
strumentalmente un certo femminismo (quello più conosciuto, mainstream)
per rafforzare le tue astruse tesi, sei un impostore. Il capitalismo ti
ha imbrogliato, perchè scrivi di ciò che ha più potere: un femminismo
riformista che viene ascoltato, digerito e riformulato dal capitalismo.
Insomma, la tua ignoranza dilagante ti fa solo vedere ciò che c'è in
superficie, e ti fa anche comodo per sputare merda su tutto ciò che
esce dai confini della tua idea di anarchia.
Non è che come anarchici abbiamo la fortuna di aver trovato il portale
della verità, e che non abbiamo bisogno di metterci in discussione. Non
è che a un tratto sappiamo tutto, comprendiamo e rifiutiamo qualsiasi
subalternità che crea razza, sesso, genere specie e classe. Secondo
alcunx compagnx, i rapporti tra anarchici sono i migliori, non temono
rapporti di potere, soprattutto non esistono differenze sessuali...però,
come mai accadano tante violenze agite da uomini su
compagne non si sa... ah no anzi si sa: "Lo stupro è ovunque per le
femministe, è un modello di interpretazione cui rapportare ogni azione
umana" (Miseria del femminismo).
Secondo voi,una compagna potrebbe sbarazzarsi di uno che la “ostacola”
infamandolo con un’accusa di stupro? Queste accuse sono gravissime.
Come se fosse facile sbandierare una violenza, parlare all'infinito di
quello che le è successo, farsi carico di pressanti interrogatori da
parte di mille compagni! Davvero il livello del vostro pensiero si ferma
qui? mi sto pentendo di scrivervi...
Le violenze all'interno dei nostri circoletti con l'A cerchiata ci sono
eccome! e sapete qual'è la differenza tra ieri e oggi? che ieri una ha
avuto il coraggio di smerdare le malefatte di un compagno stupratore, e
molte altre hanno preso il coraggio di fare altrettanto e di darsi man
forte a vicenda. Non siamo mai state zitte, i nostri cuori erano (e
sono) bombe a orologeria.
Quindi l'autore dell'articolo invece che chiedersi "perchè tante donne
"denunciano" violenze tra gli ambienti anarchici?" passa subito
all'attacco con l'aggressività passiva. Ovvero, fa la vittima criticando
il vittimismo delle sopravvissute e di tutte le persone che la
sostengono.
Cari anarchici ottocenteschi, leggete qualcosa di meglio delle quattro
minchiate che avete letto: vi consiglio Nicoletta Poidimani, che da anni
ragiona, come femminista, sul post-vittimismo; detto in altre parole
accusa le istituzioni e lo Stato di vittimizzare le donne che subiscono
violenza fisia e psicologica e sprona all'autodeterminazione.
Che bassezza quindi fare di tutta l'erba un fascio! Eppure sono convinta
che sai che esiste un altro tipo di femminismo, quello che decide di
regolare i conti a modo suo, ma non lo citi. Forse per te il
patriarcato non esiste, era qualcosa che esisteva ai tempi dei
primitivi, quando esisteva anche il matriarcato. Insomma, roba vecchia,
ciarpame inutile, anzi inesistente.
Poi, ecco che ricadi di nuovo nello stato in cui meglio ti trovi: il
vittimismo. Piagnucoli che le donne sono ossessionate dal sesso, che a
furia di parlare di stupri temono il sesso, la penetrazione! e quindi
vittimizzi il tuo potere desiderante che viene censurato (povera
vittima...), viene zittito; anzi il tuo desiderio è costretto a leggersi
"il grande manuale degli approcci" prima di affiorare. Povero
il tuo desiderio, oh povero compagno che stasera avevi proprio voglia di
dare sfogo ai tuoi istinti alla festa del tuo posto anarchico preferito
e invece ecco le cagacazzi femministe che imbrigliano la tua animalità.
(l'animalità la tiro fuori perché è lì che di solito si finisce quando
si parla di approcci; istinto sessuale, animalità divengono grandi pregi
da sfoggiare quando fa comodo).
Vittimizzarsi è uno strumento becero, sembra che lo sappia anche tu, ma
non vedi quando sei tu ad usarlo. E lo utilizzi come un'arma per
sentirti protetto e senza l'obbligo di riflettere sulle tue azioni.
Le parti migliori comunque cominciano quando sfoderi la spada in difesa
della cultura dello stupro.
Parli solo del tuo desiderio, un desiderio a senso unico, egoista (ben
diverso è l'approccio egoista di Stirner) e prevaricatore. Il tuo
desiderio non tiene minimamente in considerazione il desiderio
dell'altrx. Il consenso non vuol dire aderire al "grande manuale degli
approcci" ma vuol dire ascoltare veramente quello che desidera anche
l'altra persona!! Volere che un desiderio si avveri, costi quel che
costi, è indicatore della consapevolezza del tuo potere: vuoi che il tuo
desiderio venga soddisfatto ancora prima che un corpo desiderabile possa apparirti;
quando compare, si trasforma in un "mezzo" per trarne soddisfazione. Ti
senti completo e forte quando sei soddisfatto, senza contare quello che
prova il "mezzo" (soggetto) di cui hai approfittato.
Smettetela di cadere nei vostri stessi tranelli in cui vedete manuali di
comportamento, se esistono è solo perché in tutti questi anni in cui vi
abbiamo parlato, urlato o picchiato non avete ancora capito che il
desiderio deve essere reciproco!!!! Perché devo arrivare a tirarvi un
pugno in faccia per farvi capire cosa desidero? perché devo essere
obbligata a vivere (tra persone che ritengo fidate) difendendomi? perché
devo sentire lo sguardo che spoglia, la battuta sessista, la palpata di
culo anche tra compagnx?
Perché mi dici che il sessismo non esiste se tanto tu non te le vivrai
mai queste cose che vivo ogni giorno? Non venitemi a dire che le sentite
come fossero successe a voi, perché da quello che scrivete si denota che
non avete nessuna empatia, nessun senso di solidarietà.
Consigliare che modo usare per approcciare non vuol dire normare gli
approcci, ogni evento è differente e va affrontato con responsabilità.
Oltretutto screditare esempi di approcci non invadenti dicendo che "in
questo modo gli approcci vengono normati" mi pare ridicolo... perchè gli
approcci etero non sono normati? hai una visione miope del mondo, fai
caso solo a quelli che ti scomodano.
Sono usciti vari opuscoli che parlano di cultura dello stupro e di
patriarcato; il linguaggio che viene usato (sopravvissuta, agire una
violenza ecc) non fa scomparire il problema, ma fa capire che certe
parole sono problematiche: tanto per dirtene una, chi ha subito una
violenza non la chiamo vittima, proprio perchè rifiuto questo ruolo che
il patriarcato vuole sempre appiopparci. Negli anni però ho visto tanto
tanto vittimismo da parte degli stupratori, o autori di violenze e
molestie. Un vittimismo che ricade malamente sulle teste di tanti altri
compagni e compagne che magari vorrebbero dare risposte migliori e fare
riflessioni più acute del tuo piagnisteo.
Citando l'opuscolo "violenza sessuale negli spazi anarchici" lamenti che
sottolinea di "credere alle parole della sopravvissuta" e che quindi
questo suggerimento diventi un dogma per le femministe. No, mio caro,
non è un dogma, è un sottolineare con Forza quello che non viene e non è
mai stato fatto: ascoltare la persona sopravvissuta e non metterla
continuamente davanti a dubbi, critiche e interrogatori.
Questo al momento è quello che hanno fatto praticamente tutti gli
anarchici che hanno ascoltato la voce del molestatore e hanno deciso di
fare il contro interrogatorio alla donna (l'altra opzione tra le
più gettonate è che neanche la si ascolta). Allora, chiedo a Lei, Grande
Risolutore di Conflitti, cosa cazzo vuoi fare in realtà? Pensi davvero
che "credere alle parole della donna farà cadere in una realtà
accusatoria pazzesca"???? Cosa credi che accada ogni volta alla donna
che alza la voce e racconta la sua storia di merda? ok, te lo spiego:
arrivano le solite accuse (molte sono simili a quelle con cui ci hanno
bruciato sui roghi durante l'inquisizione), e in effetti sembra di
vivere l'inquisizione, perchè ultimamente oltre alle accuse di pazzia e
isteria ci si sta "evolvendo" e gli stupratori tirano fuori faldoni di
prove contro di lei, e scrivono letterine di minacce a chi è dalla
parte della donna. Poi capita che costoro li vedi e li vuoi pure
affrontare, ma scappano perchè sono dei codardi e non hanno
argomentazioni. Negli anni ho capito che a voi anti femministi piace
tanto criticare qualsiasi atto di rivolta al patriarcato perchè tanto a
voi manco vi sfiora! (e anche qui sbagliate, perchè il patriarcato
riguarda anche voi uomini, ma le scranne del potere sono così comode!)
Infine, prendendo ad esempio l'opuscolo "violenze sessuali negli
ambienti anarchici", io vedo un tentativo di dare una bussola nel caos
che si crea dopo un caso di violenza sessuale. Alcuni esempi possono
aiutarci in momenti in cui non sappiamo cosa fare per aiutare,
semplicemente questo. Sminuire la frase "credi alla sopravvissuta"
facendola passare come un imperativo è l'ennesimo giochetto fuorviante
per accreditare le tue tesi di difesa dello stupro.
Sempre a dirci cosa fare, cosa dire, come comportarci; se creiamo bande,
se formiamo gruppi di amiche per un supporto post-trauma, se facciamo
autodifesa ecco che avete pronta una critica da portare.
Forse sentite le vostre scranne traballare? Sei sicuro che siamo noi
donne a volere sostituirvi nella presa di potere, o forse siete voi a
lottare contro il femminismo per mantenere i vostri privilegi?
Al rogo non ti ci mando, non ti preoccupare. Se i roghi sono accesi è
perché stiamo tornando dall'inferno. E non staremo mai zitte.

Prima che mi dimentico, grazie per i distinti saluti, contraccambio con
uno sputo in faccia.

un'anarchica nel deserto,
una femminista che danza con gli spettri

In risposta all’articolo “Distinti saluti! Alcune riflessioni sul femminismo…”

Nota: questo testo parla di violenze sessuali.

Sul bollettino n.4 dello spazio anarchico “Luna Nera” di Cosenza è stato pubblicato un lungo articolo dal titolo “Distinti saluti! Alcune riflessioni sul femminismo, sulle dinamiche di ammaestramento e sul tentativo di americanizzazione delle lotte”, che ritengo meriti una risposta per la gravità di alcuni dei contenuti espressi.

In generale l’articolo è un attacco su più fronti al femminismo, ai suoi presunti obiettivi e metodi di lotta, e a quella che secondo l’autore dell’articolo è la critica femminista alla cultura dello stupro. Non mi soffermerò a lungo sulla critica espressa nei confronti del movimento femminista, in quanto riproduce le solite argomentazioni trite e ritrite di altre critiche già uscite (sparare sul femminismo pare essere la moda anarchica del momento): un ridurre la complessità dei femminismi alle sue correnti liberali e riformiste, scambiando una parte per il tutto, come se le compagne anarchiche femministe che incrociamo nei nostri percorsi seguissero quel tipo di filoni e non fossero a loro volta critiche verso il femminismo di stampo liberale. E’ il caso di stare a criticare, oggi, le lotte delle suffragiste dei primi del novecento per il diritto al voto? O l’entrata delle donne nel mondo della politica e del lavoro? O andare a citare le correnti xenofemministe e cyborg? Se questo tipo di stoccate voleva servire a screditare il femminismo anarchico, mi pare che la freccia sia atterrata ben lontana dall’obiettivo. Per fare dei paragoni, sarebbe come pretendere di attaccare l’anarchismo presentandone come esemplificative correnti come l’anarcopacifismo, le clown army o le comuni hippie, screditare l’ecologismo parlando di legambiente o dei Verdi, o liquidare l’antimilitarismo prendendo come esempio Amnesty International. Quando parliamo di femminismo anarchico parliamo di un anarchismo che lotta contro il patriarcato, lo Stato e il capitalismo, ma questo tipo di femminismo, nel testo, non viene nemmeno considerato.

Se non si riesce a distinguere in questi movimenti delle correnti anche estremamente diversificate negli obiettivi e nei metodi che si danno, si dovrebbe in ogni caso condividere l’idea di fondo da cui questi movimenti nascono, no? Personalmente ritengo che il “movimento” anarchico italiano non mi rispecchi, eppure non rinuncio certo alla mia idea di anarchia. Allo stesso modo, si potrebbe pure non condividere alcune azioni dei movimenti femministi, ma condividere l’idea della lotta al patriarcato come sistema di potere. La lotta anarchica non dovrebbe essere contro ogni forma di potere? O vogliamo combattere solo quelle forme di potere che ci pesano personalmente (da qui nasce il vittimismo) e mantenere intatte tutte le altre (assumendo il ruolo di complici e oppressori)? Questa è una questione cruciale, che emerge nei discorsi insofferenti, difensivi e auto-assolutori di molti anarchici nel momento in cui saltano fuori questioni come il femminismo, il razzismo, lo specismo… Su quest’onda, l’articolo che sto prendendo in esame è un esempio folgorante di difesa del patriarcato e di attacco alle individualità che combattono questa forma di potere.

Gli anarchici (e le anarchiche) che criticano il femminismo si lamentano spesso di quanto questo si focalizzi su un lavoro di introspezione e decostruzione di sé e delle dinamiche relazionali. E’ qui che molte persone inciampano in quanto in realtà chi critica lo fa spesso per nascondere la propria mancanza di volontà nel mettersi in discussione e nel prendersi la responsabilità dei propri comportamenti di merda. Negare che le ideologie di potere agiscono non soltanto a livello di sfruttamento fisico ma anche a livello psichico, imponendo delle norme di comportamento e dei divieti morali, dei pregiudizi, delle forme di sopruso emotivo, dei rapporti di potere tra individui significa avere una visione ben parziale del potere, ancorata a visioni ottocentesche, qualcosa di ben grave per un anarchico, il cui obiettivo è proprio abbattere il potere. Sistemi di potere come lo Stato, il capitalismo, il patriarcato, il razzismo, lo specismo e altri ancora non si incarnano soltanto in un individuo ben preciso (il sovrano) o in una schiera di figure dirigenziali chiuse nei loro palazzi (la struttura organizzativa di Stato, imprese, ecc.), ma sono anche un tipo di relazione sociale che necessita di essere riprodotta quotidianamente, in cui ognuno/a di noi ha un ruolo che può decidere di riprodurre o sabotare. Il nostro agire in un modo piuttosto che in un altro nelle nostre relazioni con le/gli altre/i contribuisce a legittimare o meno l’ideologia dominante e la aiuta ad accrescere il riconoscimento sociale che le è necessario per esprimersi poi nelle sue forme più violente, in quelle dirette dall’alto verso il basso, o nelle forme paternalistiche di “protezione” offerte dallo Stato per strumentalizzare quelle stesse oppressioni. Ovviamente la critica alle ideologie di potere, che avviene anche attraverso l’analisi delle norme sociali e relazionali attraverso cui queste si esprimono, e attraverso la costruzione di relazioni altre, non è che un aspetto della lotta contro il potere, che va di pari passo con pratiche di tipo conflittuale.

Quello che ci insegna la tanto criticata intersezionalità è che i vari sistemi di dominio sono intrecciati. Ignorare sistemi di potere come il patriarcato, l’omo/transfobia, il razzismo, lo specismo ecc. in quanto considerati secondari rispetto alla vera e unica oppressione che sarebbe quella di classe, o agli unici veri nemici che sarebbero di volta in volta identificati nello Stato, nel capitale, nella tecnica ecc. ci toglie pezzi fondamentali di analisi rispetto a questo mondo. Non vedere come lo sfruttamento capitalista abbia connotati di genere o razziali, ad esempio, ha come conseguenza che quando in alcuni ambienti si parla di sfruttamento lavorativo si faccia riferimento quasi esclusivamente all’operaio di fabbrica italiano; in altri ambiti si è finalmente aperta l’analisi includendo anche il bracciante agricolo africano; ma soltanto dalla bocca di femministe anarchiche ho sentito citare il fatto che mentre gli uomini africani vengono sfruttati nei campi di pomodori, a pochi metri di distanza negli stessi campi le donne africane sono costrette a vendere servizi sessuali in condizioni di altrettanto sfruttamento. Gli anarchici non parlano mai (lo fanno soltanto le femministe, guarda un po’) di come le oppressioni di classe e di genere convergano nella vita delle badanti straniere, delle lavoratrici del sesso, delle gestanti di bambini, in lavori con una fortissima connotazione di genere come quelli improntati sui servizi sessuali, sulla cura o sulla riproduzione. O di come il sistema capitalista statunitense sia stato edificato sulla schiavitù razzista e tutt’oggi la questione di classe non sia scindibile da quella razziale (ma l’autore dell’articolo, ben lungi dal riconoscere o anche soltanto vedere la connessione tra i sistemi di potere, si permette dalla sua comoda posizione di dare lezioni ai ribelli, sostenendo ad esempio che “le lotte afro” non abbiano saputo portare l’attacco al cuore della società nordamericana!).

Anziché screditare e attaccare il femminismo come movimento nemico in quanto lotta parziale che, al pari di altre lotte come l’antirazzismo, l’ecologismo, l’antispecismo ecc., risulterebbe “funzionale al sistema”, la mia proposta è invece di integrare i contributi più interessanti di queste lotte nel nostro anarchismo al fine di rafforzare la nostra analisi del potere, e di salutare tutte quelle situazioni in cui il sistema viene attaccato anche se soltanto da una prospettiva parziale, come è il caso, d’altronde, di praticamente tutte le rivolte, che solitamente non nascono da una prospettiva “anarchica”… Ben vengano quindi le rivolte contro la polizia portate avanti dai membri della comunità afroamericana stufi di venire ammazzati per le strade, i vandalismi queer contro la gentrificazione gay dei quartieri poveri, gli attacchi antispecisti contro i macelli o le azioni femministe contro le chiese e gli stupratori… azioni di questo tipo ci tolgono qualcosa? O piuttosto ci danno qualcosa?

Ma veniamo a quello che l’autore di questo articolo ha compreso (o non compreso) dell’analisi femminista dello stupro. Cito soltanto alcune delle perle presenti nel testo:

“[secondo le femministe, lo stupro] si annida ovunque, poiché l’uomo sarebbe, per sua natura, stupratore mentre la donna eterna vittima innocente”

“addirittura molte femministe, di ieri e di oggi, considerano la penetrazione stessa un atto di dominio, una pratica umiliante cui sottrarsi e da neutralizzare definitivamente, salvo riprodursi tramite la tecnologia”

“la colpa, per le femministe, risiede sempre nel maschio stupratore per vocazione, per natura, per costruzione sociale ma sempre unica e vera causa dello stupro”

“le femministe, vedendo ovunque stupro, ne fanno in pratica un modello di interpretazione cui rapportare ogni azione umana”

(citando il testo “Miseria del femminismo”) “le femministe che vedono ovunque lo stupro in realtà non fanno altro che concretizzare la paura e il rifiuto del desiderio sessuale, ed è per questo motivo che molte femministe, ancora oggi, considerano stupro anche il “rimorchiare, la proposta sessuale o lo <<sguardo che spoglia>>, si denuncia una situazione in cui la donna è ridotta a oggetto di consumo. Ma in verità è il fatto stesso di desiderare che viene attaccato”.

“mortifichiamo la carne peccaminosa e l’intelletto prima di poterci dire rivoluzionari, cantiamo il mea culpa e facciamoci rieducare da chi detiene il potere del nuovo linguaggio purificato dal peccato del genere, avremmo creato la nuova chiesa laicotransfemminista e il capitale ci ringrazierà calorosamente come solo esso sa fare, con le tante lotte parziali, compreso il femminismo storicamente dato, che hanno rimandato a data da destinare la rivoluzione.”

“Forse non sarebbe il caso di lasciar perdere l’idea di voler attribuire per forza un genere alla violenza? (…) se si riuscisse a fare un discorso sugli individui al di là di quelle che sono le preferenze sessuali, non sarebbe forse un passo avanti per sbarazzarci, realmente, del mondo che non ci piace, piuttosto che lasciarsi prendere dall’isteria collettiva che vede nel maschio, nell’etero, il problema da abbattere?”

“Il linguaggio femminista odierno pare proprio ricostruire l’immagine della vittima, di colei che se ubriaca non può fare sesso, poiché “se lei è ubriaca vuol dire no” (…). Ebbene tutte queste e tante altre norme paiono non voler liberare la donna ma proteggere la sua purezza, spesso per la conservazione della coppia monogamica. Posizioni simili sono parte della svolta reazionaria in corso e in un tutt’uno con il successo delle forze politiche xenofobe, con il ritorno di fiamma dei clericali della peggior specie (le liste contro l’aborto, misogine, trans fobiche).”

“Le odierne femministe e loro sodali si preoccupano di fornire tutta una serie di indicazioni, autentici protocolli, alle sopravvissute per affrontare il trauma (…). A parere di chi scrive, ancora una volta questi opuscoletti ci forniscono una immagine di donna debole e continuamente bisognosa di luoghi tranquilli e delle amiche, insomma non per voler sminuire il dolore che si può provare a seguito di eventi traumatici, ma la donna è dipinta come una ragazzina da fotoromanzo latinoamericano anni ottanta”.

“Ebbene le nostre novelle vittoriane vogliono spiarci e dirci come fare l’amore, dirci come pensare (…). In epoca vittoriana si facevano rivestire i piedi dei tavoli perché evocavano un pericoloso simbolo fallico, oggi siamo già ritornati a tanto? Forse sì, nelle menti di alcuni, ma non ci sembra questa nessuna forma di liberazione bensì è questo un esperimento sociale teso a normare i comportamenti, in particolare negli ambienti anarchici. A noi pare ci sia una volontà di impadronirsi del movimento anarchico, di americanizzarlo”.

Quanti voli pindarici della teoria per giustificare in maniera “nobile” le mancate prese di responsabilità di alcuni rispetto a dei comportamenti di merda!

Ma vediamo come questo individuo argomenta la necessità del perpetuarsi del patriarcato e della cultura dello stupro nella società e negli ambienti anarchici. Le femministe vengono descritte come delle fanatiche, che al pari “dell’Inquisizione” (che ribaltamento di prospettiva storica! complimenti!), perseguitano i poveri uomini etero ritenendoli tutti, in quanto maschi, dei potenziali stupratori, e confondendo ogni manifestazione di desiderio per una forma di stupro. Di conseguenza le femministe sarebbe delle specie di novelle puritane determinate a imporre agli uomini una nuova morale sessuale repressiva, sarebbero in realtà delle frigide, terrorizzate dal sesso e in particolare dalla penetrazione del fallo.

La meschinità di questa narrazione distorta è lampante. I testi disponibili sul tema della cultura dello stupro spiegano chiaramente cosa si intende con questa espressione, se soltanto venissero letti con voglia di capire anziché con l’intento di cercarvi ogni difettuccio a cui aggrapparsi per contrattaccare. Il punto è che esistono tutta una serie di forme di violenza sessuale e stupro che non vengono riconosciute in questa società in quanto assolutamente normalizzate. Per stupro si intende in genere soltanto la penetrazione coercitiva realizzata da un uomo sconosciuto in un vicolo buio o in un parco di città. Ma la maggior parte degli stupri avviene per opera di un familiare, un amico o un partner, e le modalità possono essere diverse dalla pura coercizione fisica. In generale per stupro si intende l’imposizione di un rapporto sessuale non desiderato, e questa imposizione può avvenire attraverso l’uso di diverse tecniche. Ci sono individui talmente miseri da approfittare di una persona collassata dall’alcol, addormentata o drogata e quindi non in grado di reagire come avrebbe fatto in condizioni di lucidità. C’è chi insiste talmente tanto nonostante i “no” dell’altra persona da riuscire a ottenere quello che vuole per esasperazione, nonostante dall’altra parte evidentemente non ci sia alcun desiderio di un rapporto sessuale. C’è chi una volta ottenuto il consenso a un rapporto sessuale (spesso tramite l’insistenza) lo considera irreversibile, e si disinteressa del fatto che a un certo punto venga revocato, che l’altra persona esprima la volontà di interrompere il rapporto, e continua ad andare avanti fino al proprio orgasmo. Gli esempi potrebbero essere molti altri, ma è evidente cosa li accomuna, ovvero il mancato interesse rispetto al desiderio dell’altra persona e la volontà di soddisfazione del proprio a tutti i costi.

Visto che nel 99% dei casi di stupro si parla di uomini che violentano donne, mi permetto di dare una connotazione di genere ai casi di violenza sessuale. Troppo facile dire che si dovrebbe “lasciar perdere l’idea di attribuire per forza un genere alla violenza”, quando è evidente che le violenze sessuali hanno alla base delle concezioni di genere ben radicate. Le concezioni dell’uomo-predatore e della donna-preda, per esempio, o l’idea che una donna anche quando dice no in realtà intenda sì, e che il suo no sia soltanto una strategia per farsi desiderare maggiormente; l’idea patriarcale per cui gli uomini hanno diritto di accedere ai corpi delle donne quando ne hanno voglia, e che sia sempre una lusinga, per le donne, ricevere le avances degli uomini.

L’autore dell’articolo confonde violenza e desiderio, un errore molto grave. Le femministe non si oppongono al desiderio ma alla violenza. La sessualità diventa violenza quando non è desiderio reciproco ma imposizione del desiderio di una persona sul non desiderio dell’altra persona.

Il concetto base del “consenso” viene distorto per giustificare la violenza sessuale: qualunque reazione al desiderio non desiderato che sia minore di un pugno in faccia, renderebbe “consensuale” il rapporto, arriverebbe a significare che “lei ci stava”. Via libera quindi a stalkerizzare l’altra persona per ottenere di portarsela a letto, o a iniziare un rapporto sessuale con lei mentre dorme o è in coma etilico. Se lei non ci sta, tocca a lei bloccare il rapporto (spesso già iniziato) in maniera decisa, e se non ci riesce con la forza sufficiente (per ragioni che possono essere tra le più varie: perché il suo no continua a non venire ascoltato, perché non è nelle condizioni psico-fisiche per metterci della forza fisica, perché traumi precedenti che ha vissuto possono immobilizzarla, ecc.), allora vuol dire che in realtà ci stava. Cos’è se non uno stupro mettere una persona nella condizione di dover rispondere con la violenza per sottrarsi a un rapporto sessuale non desiderato? Chi non è forte abbastanza è giusto che soccomba? Vogliamo ristabilire i dettami del peggior darwinismo sociale? Per fare un parallelismo, è come dire che quando un compagno si prende dei pugni in faccia da un fascista, se non è riuscito a tirargli un pugno lui per primo di fronte alle minacce, o non è riuscito a restituire i colpi mentre veniva picchiato, quei pugni in faccia, in fondo in fondo, li desiderava!

Che bella concezione del desiderio! E’ evidente che qui, benché l’argomento sia il rapporto tra due persone, di un solo desiderio in realtà si sta parlando, ovvero quello di lui. E’ il desiderio di lui che non si può reprimere, che va lasciato libero di esprimersi! Chi se ne frega se c’è desiderio dall’altra parte, nell’altra persona che in questo discorso è un referente completamente assente, che importa quindi se il desiderio è reciproco o meno. Più che di desiderio si dovrebbe quindi parlare di voglia, voglia di sesso o di svuotare i testicoli, una voglia che non necessita di un soggetto desiderante dall’altra parte, accessorio completamente superfluo. Arriviamo quindi alla concezione dell’altra persona come oggetto sessuale, guarda caso uno schema che richiama proprio le più banali analisi femministe sulla sessualizzazione delle donne, la loro riduzione a strumenti per la masturbazione maschile (sorta di “fighe ambulanti”), la loro mancata considerazione come soggetti desideranti.

Quando emerge una storia di violenza sessuale negli ambienti anarchici, non si tratta tanto, quindi, di scegliere se credere alla “versione di lei” o “alla versione di lui”, come spesso viene ridotta la faccenda, o di fare un atto di fede nel credere alla storia della compagna. In molti casi la stessa situazione viene letta, vissuta e narrata in modi molto diversi dai due soggetti in causa proprio per il modo estremamente differente in cui vengono concepiti il desiderio, la sessualità, il piacere tra due individui. La persona che ha agito una violenza sessuale spesso non ammetterà e in alcuni casi non si renderà mai nemmeno conto di aver agito violenza sull’altra persona, proprio perché quel modo di approcciare il sesso, le donne, di imporre il proprio desiderio, di oggettivare le persone di sesso femminile è diventato, per lui e per la società patriarcale, totalmente normalizzato. Più che mettere in discussione l’atto di fede delle femministe secondo cui bisogna credere alla parola della persona sopravvissuta alla violenza, mi interrogherei piuttosto su come mai nei nostri ambienti pare vigere la religione opposta, per cui ogni storiella, smentita o giustificazione raccontata dall’autore di violenza per negare le proprie responsabilità e gettare merda sulla persona sopravvissuta venga accolta (con un atto di fede) con grandi pacche sulle spalle e sorrisi di rassicurazione, e nel mentre la compagna venga gettata simbolicamente nella cloaca e lì dimenticata.

Si rassicuri il nostro scribacchino, le femministe sono soggetti desideranti e scopano pure parecchio, tra di loro e/o con gli uomini, con varie modalità, forse non quelle che a lui sembrano le uniche concepibili o congeniali. Non sarà forse che le femministe, e molte donne in generale, più che avere paura del sesso o essere soggetti non desideranti, sono stufe di questa sessualità di stampo etero-patriarcale, preimpostata, totalmente incentrata sul desiderio maschile e sul piacere del fallo? L’autore di questo testo ritiene che la voglia del maschio sia un’espressione sana, naturale e sacrosanta, e che rifiutarla sia moralista. Ribalto l’accusa di miseria dei rapporti che viene imputata alle femministe con la miseria dell’immagine che viene fornita dall’autore di questo testo, l’immagine di un desiderio a senso unico, che può sfogarsi soltanto con dei sotterfugi, approfittando dei momenti di debolezza dell’altra persona, o che insiste a imporre la sua presenza anche laddove non è desiderata. Ovviamente l’autore non riesce a immedesimarsi nel fastidio che può provare una donna nel venire continuamente esposta a manifestazioni di desiderio che non la interessano. Come si sentirebbe un uomo nel trovarsi a una serata, esposto di continuo allo “sguardo che spoglia”, alla manata sul culo, alle avances insistenti, alle proposte sessuali, ai complimenti lascivi, alle conversazioni di circostanza che celano un secondo fine, da parte di un’orda di altri uomini desideranti, quando in realtà quella sera vorrebbe soltanto farsi una serata tranquilla magari in compagnia di un po’ di amici/e? (faccio questo esempio facendo leva sull’omofobia costitutiva di buona parte dell’identità maschile, perché se facessi l’esempio di avances da parte di donne la risposta sarebbe la solita, ridicola e banale).

La concezione di un “desiderio” (maschile e a senso unico, sottintesi non esplicitati nel testo ma che ora abbiamo svelato) che ha il diritto di sfogarsi a tutti i costi, al di là della presenza del desiderio dell’altra persona (assente nel testo, segnale di come esso non sia considerato nemmeno nella realtà), è la base ideale per perpetuare una cultura dello stupro. Cosa passa infatti per la mente di uno stupratore se non esattamente il fatto che il suo desiderio è sacrosanto, che ha necessità di essere sfogato, che l’altra persona ci deve stare a tutti i costi, visto che magari ci si è già fatti un film nella testa di come deve andare a finire la serata, e che se non va così si ha il diritto di forzare in qualche modo la situazione perché vada come si era preventivato?

Quando le femministe parlano di stupro e violenze di genere la strategia di chi vuole tapparsi le orecchie è di tacciarle di vittimismo, forse perché si ha la coda di paglia, perché è difficile decidersi ad affrontare i propri privilegi e i propri modi di merda di relazionarsi. Che cuori da leoni! Allora anziché mettersi in ascolto meglio screditare con le più basse accuse, tipo il vittimismo, come se uno dei fulcri dell’organizzazione femminista non fossero proprio i gruppi di autodifesa, che hanno lo scopo di fomentare l’autodeterminazione ed elaborare strategie di resistenza e attacco in contrasto alla passività. Se parlare di quanto ci opprime è vittimista allora noi anarchici siamo i peggiori lamentosi, visto che non facciamo altro che lagnarci di quanto siano cattivi lo Stato e il capitale!

L’immagine virilista, sprezzante e competitiva che esce dal testo, per cui ad esempio viene ridicolizzato il trauma di una persona sopravvissuta a uno stupro e la sua necessità di recupero psicologico, o si sostiene che le assemblee anziché confronti rispettosi tra persone affini dovrebbero essere momenti di sfoggio della potenza del proprio ego per il trionfo del più forte (citare Stirner, a questo proposito, è totalmente fuori luogo, in quanto egli concepiva le relazioni come “liberi accordi” tra egoisti, e non come volontà di predominio di un individuo sull’altro), non ci appartiene e non rispecchia il nostro modo di concepire l’anarchia, che non significa soltanto attacco verso il nemico ma anche solidarietà tra compagnx. Se questa idea di come debbano essere i rapporti tra compagnx nelle assemblee viene applicata anche ai rapporti nella camera da letto, si capisce da quale hummus nascano poi le violenze. Le accuse di buonismo, sentimentalismo, politically correctness non ci toccano, espedienti troppo facili per ribadire una durezza, un suprematismo e una radicalità che non sono altro che il riflesso del pensiero patriarcale dominante, ben vivo purtroppo anche tra molti sedicenti “compagni”.

Phil

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Fonte: InfernoUrbano