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A proposito di Kavarna

...la passione per la libertà è più forte d'ogni autorità...

Roger Bernard (1921-1944) impara il mestiere nella tipografia del padre, ma la poesia lo travolge fin dalla prima gioventù. Trascorre l'adolescenza chino sui libri, a perfezionarsi, a scoprire i segreti dell'alchimia del verbo. I Chantiers de Jeunesse – organizzazione paramilitare che doveva sostituire il servizio militare, all'epoca abolito – lo annoiano, per cui al suo ritorno cercherà la rude compagnia di chi lotta contro l'invasore croceuncinato. Si unisce alla Resistenza, assieme alla sua compagna incinta, nella valle di Calavon, e qui fa la conoscenza del capitano Alexandre, il poeta René Char. È a lui che, fra un sabotaggio ed un altro, leggerà le sue poesie. Il 22 giugno 1944 Roger Bernard cade nelle mani dei nazisti. Farà appena in tempo ad inghiottire il messaggio che sta portando, prima di venir fucilato in mezzo alla strada dopo aver rifiutato di rispondere a qualsiasi domanda. Straziato e sconvolto, René Char lo ricorderà più volte nei suoi Fogli d'Ipnos.  

***  

Non passare sotto l'albero:

Piove una dolcezza troppo pesante da sopportare!  

Notte della terra, proteggimi! che il mio scheletro non sia più triste e battuto come la terra schiacciata da un portico di chiesa. Non sono brutto. Faccio solo paura. Ma lo spavento è gioia isterica. Sono colui che si vuole resuscitare. La carogna puzza sul tetto;

E tutto muore di respirare. Un solo buon odore mi piace: quello della radice. No. Non voglio rinascere grano identico a quello che si è seminato – pesante, uniforme ma sottilmente distinto come i dodici grani di mezzanotte! Sono colui che non resusciterà!  

Addio biancore tagliente d'estate. Addio cotone del pioppo, bava di tamarisco, fiamma di santoreggia.  

La cicala ha trebbiato il grano! Dolore vieni sul mio cuore; che si sottometta.  

Adesso penetro ciò che il tuo dito mi indica. Io vivrò. Io vivo! Vivo Sull'eterna gioia vivente di morire!  

Pronuncia la parola gioia; il mio respiro ora s'accorcia. Comincio ad ottenere tutto.  

Dobbiamo separarci. Hai sofferto in me e penetri la gioia di te stesso. Sono tuo amico e ti abbraccio. Ma allontanati da me, per la nostra pace!  

Allontanati da me e avrai la gioia.  

L'anno muore, un pigmento rosso sul bordo di ogni ciglio. Qui termina il libro del tuo stupore.  

Quelli che hanno sofferto non parlano più. (e quelli che hanno la gioia; silenzio).  

La gioia viva di morire! La gioia viva di morire.  

Un bacio e che la pace sia nei tuoi occhi!    

Moulin du Calavon, 1943  

Tratto da Ma faim noire déjà, 1945

Fonte: Finimondo

Lo scorso 17 settembre, a Roma, la Corte di Cassazione ha rigettato i ricorsi degli avvocati di quattro anarchici cui è stata inflitta la Sorveglianza Speciale dalla Corte d’Appello di Genova a seguito di un processo svoltosi nel 2019.


Qui trovate un testo di Amma, nostro compagno e uno dei quattro a cui è stata confermata la SS:

SOCIALMENTE PERICOLOSO? Seh magari!

"La farfalla per l'esistenza del bruco nella sua forma attuale rappresenta un pericolo dato che l'inizio di una è la fine dell'altro"

Io Ammanuel F. Rezzonico mi dichiaro Anarchico.

La mia Anarchia è l'utopia di un mondo privo gerarchie, autoritarismi e rapporti di potere. Il mio essere Anarchico è lottare per creare relazioni di complicità orizzontali, autorganizzate basate sul dono e non sul commercio.

Il mio essere Anarchico è non accettare le ingiustizie protratte dai più forti contro i più deboli in primo luogo smascherandole ogni qual volta lo reputerò.

Solo un miope non è in grado di vedere ciò su cui si erge l'ordine sociale costituito: una montagna di cadaveri. Il capitalismo è una macchina che fagocita tutto ciò che incontra in nome della logica del profitto. Basta osservare il fatto che il ministero dell'economia e delle finanze Italiano possiede ca. il 30% delle azioni di Leonardo Finmeccanica (ditta esportatrice di armi nei principali conflitti del medio-oriente) e come se non bastasse lo Stato Italiano ha finanziato il regime Siriano per contenere i migranti prima che possano varcare i suoi confini. Appare in maniera grottesca la farsa dell'ipocrisia perbenistica, una delle poche virtù di questa borghesia pusillanime è sempre più palese che per la logica del profitto vengono destabilizzati i regimi "scomodi" al fine di rimpiazzare il tiranno di turno con uno che non imponga tasse eccessive all'eni, guarda caso altro colosso Statale Italiano, per spolpare un altro pezzo di questo pianeta. Lo Stato Italiano vende armi ed ha interessi nelle guerre che creano il fenomeno della cosiddetta immigrazione di massa, ma perché fermarsi qua!

Lo Stato Italiano rinchiude, pesta, tortura ed uccide chi scappa dalla miseria di cui è complice senza dimenticarsi di lucrarci.

Questa è parte del meccanismo su cui si erge la società borghese e perbenista occidentale.

Una società che quando non addita come cause della crisi le conseguenze del proprio stile di vita consumistico in un atto di viltà senza eguali si lava la coscienza con la sua indignazione democratica ed una preghiera.

Io tutto questo lo trovo profondamente ingiusto.

L’8 gennaio 2020 il Tribunale di Genova ha applicato la misura della sorveglianza speciale a 4 Anarchici me compreso. La richiesta è partita dalla questura de La Spezia in seguito ad una passeggiata rumorosa che denunciava l'ennesima ingiustizia perpetuata da chi detiene il potere nei confronti di chi non la vede come lui, in questo caso: il pestaggio di un compagno anarchico ai tempi detenuto a La Spezia.

Seppur non farò della repressione un metro di giudizio della mia lotta sento la necessità di fare una precisazione a seguito di quanto illustrato precedentemente.

L'ordine sociale costituito e la società che ci si erge sopra sopravvivono grazie ad un meccanismo che unge i suoi ingranaggi con il sangue. Se la società che ci circonda è questa la mia idea di Anarchia è inscindibile dal concetto di pericolosità sociale e anzi in tempi cosi infausti in cui la repressione colpisce cosi duramente momenti a "bassa intensità" come il fatto da cui è partita la Sorv.Spec URGE la voglia e la necessità di affermare la volontà di pericolosità verso questa putrida società.

GUERRA ALLA SOCIETÀ

LUNGA VITA ALL'ANARCHIA

«Il dovere dell'occhio destro è di immergersi nel telescopio mentre l'occhio sinistro interroga il microscopio». Come non essere colpiti dalla precisione di questa frase scritta dalla giovanissima Leonora Carrington nello straordinario racconto narrante il suo internamento fra il 1940 e il 1941 in un ospedale psichiatrico spagnolo, dopo che l'arresto del suo amante Max Ernst da parte della gendarmeria francese l'aveva gettata in un caos interiore che lei non era più in grado di distinguere da quello del mondo in guerra? Come non vederci un esempio di quell'«illuminismo della lucida follia» che Michelet attribuiva alla Strega, simbolo di quelle giovani donne che nei momenti più bui della storia hanno istintivamente protetto la vita minacciata, fino a morirne? Come non riconoscere inoltre in quello sguardo sdoppiato, la cui ampiezza rimanda alla sua pusillanimità se non alla sua falsità l'approccio degli esperti, ciò che oggi più ci manca? Che ci troviamo ad una svolta in cui tutto il paesaggio sta cambiando, è diventato incontestabile. Occorre anche lo sguardo più adatto, quando ne va della «sopravvivenza della specie» e quando, si sa, per ripensare l'economia, se le analisi più rigorose s'impongono giorno dopo giorno, non è meno indispensabile allontanarsi dall'economia, al fine di prendere sia altezza che profondità, senza le quali è impossibile pensare altrove e altrimenti. Non fosse che per «uscire dal quadro», dal momento che importa prima di tutto rifiutare ciò che è assai più che sapere dove si va. Non c'è altro modo per sfuggire al «realismo» che, oltre a venire utilizzato come argomento-manganello per far accettare l'inaccettabile, continua a indurre la nozione di efficacia come necessità chiamata a determinare interamente la lotta contro l'inaccettabile. Da cui la sinistra collusione fra reale e «realismo».

«Realismo» politico, «realismo» economico, «realismo» artistico, «realismo» erotico... «realismo» la cui realtà è quella che gli si accorda ma che siamo sempre più inclini a confondere con quella dei detentori del «denaro reale», da tanto si è cercato di farcelo considerare denaro contante. E questo nella stessa misura in cui è, malgrado tutto, sempre possibile non prestargli alcun credito. Non sarebbe del resto una delle ragioni per cui se ne proclama da tutte le parti l'impossibilità? Checché se ne dica, la «società dello spettacolo» non è una fatalità, essendo lo stesso concetto diventato una griglia di lettura che impedisce di vedere.

Eppure è in nome di questa «realtà» che frode finanziaria e frode esistenziale sono arrivate a confortarsi e a sovrapporsi l'un l'altra. Cosa che, fin dal 1954, Leonora Carrington aveva intuito: «Tutto ciò che consideriamo “Realtà” è il piccolo incubo coagulato nella mente dell'uomo che domina la nostra specie: “l'uomo bene”, “l'uomo potente”». Non senza aver prima precisato: «I cani poliziotto non sono esattamente degli animali. I cani poliziotto sono bestie pervertite che non hanno una mentalità animale. Non essendo più i poliziotti essere umani, come potrebbero i cani poliziotto essere animali?».

Tale è effettivamente la «realtà», che spetta ad ognuno di accettare o di non sottomettervisi. Di modo che non sarà mai così urgente che l'occhio destro sprofondi nel telescopio mentre l'occhio sinistro si immerge nel microscopio. Tanto più che non si può vedere lontano se non si sa guardare vicino. Questione di ottica la cui incidenza politica è considerevole: è abbastanza perché né gli esseri né le cose siano più ridotti alla loro mera funzione sociale. Qui sta la nostra possibilità di far apparire un Altro tempo, non quello che i meno malintenzionati propongono come avvenire, ma il tempo che portiamo in noi e che occorre liberare dai suoi travestimenti, tempo convenzionale, tempo del misurabile, tempo della strategia, tempo caricaturale fino a farci credere che «il tempo è denaro».

Di conseguenza, se – come riporta Walter Benjamin – nel corso della rivoluzione di luglio «la sera del primo giorno di lotta si videro in diversi angoli di Parigi, nello stesso momento e senza concertazione, delle persone sparare sugli orologi», non sarebbe tempo di liberare il tempo? A cominciare dal pensare al di fuori di tutte le positività che le anime belle continuano ad affibbiargli, sempre per contrastare in anticipo l'imprevedibile che fondamentalmente è. Perché questo tempo non è il tempo libero ma il tempo della libertà. Il tempo libero non è che una pausa nel tempo del conto, mentre il tempo della libertà è quello che, sfuggendo alle griglie consensuali, è sempre in grado di aprire uno spazio dove più nulla sia al suo posto, si tratti di un secondo, un'ora, un giorno...

L'importante è che lo sguardo cambi. Di fatto, non c'è modo più lussuoso di spendere il tempo che far sorgere questo spazio nel cuore stesso di ciò che è. E se alcuni percepiscono qualche fremito in questo inizio di primavera, non sarà per ricordarci questo tempo che ci ossessiona, questo tempo che nega incessantemente nelle grandi larghezze ciò che costringe, ciò che sminuisce, ciò che limita? L'avessimo scordato, è in ciascuno, questo tempo dell'inizio che non smette di stupirci e talvolta pure di meravigliarci.

Annie Le Brun

Disegno di Ugo Pierri

Se l’ala della tecnologia procede nel suo andare avanti fino a derealizzare la totalità di tutto ciò che esiste, bisogna porsi delle domande riguardo il sottinteso dispiegarsi della nostra intenzione poi non tanto recondita, cioè l’attacco.

Se non ci si era capiti bisogna farlo subito. La nostra intenzione, da cui queste analisi, è sempre quella antica quanto la nostra consapevolezza del mondo che ci circonda, di trasformarlo radicalmente, e la migliore e più efficace forma per trasformarlo è la sua distruzione. Però, c’è qualcosa di cambiato in quello che ci fronteggia, se prima si ergeva massicciamente di fronte ai nostri occhi, e potevamo non vederlo come nemico solo accettandolo e sostenendolo, oggi la realtà nel suo insieme ha la delicatezza fantasmatica di un battito d’ali, pure continuando nei massacri e nelle disumanizzazioni. Lo scatenarsi brutale delle tecniche guidate dai singoli capitali è coperto da un velo di insolita e dolorosa disperazione. Loro sono armati uno contro l’altro e il venire meno delle classiche garanzie istituzionali del passato, democrazia politica, sindacalizzazione del lavoro, protezione sanitaria, scolarizzazione adeguata, livello culturale accettabile, porta all’isolamento dell’uomo. Non c’è un vero e proprio progetto di depauperizzazione collettiva, diretto dai capitali, loro non possono e non saprebbero farlo, potrebbe provocarlo la tecnologia, ma con altri procedimenti e ad altri livelli.

Di fatto questo isolamento esiste ed è visibile dappertutto nel mondo economicamente più avanzato, dove appunto si svolge la pantomima del dilaniamento reciproco dei singoli capitali. L’intera produzione è secondarizzata e al primo posto è messa, o è in corso di collocazione, la tecnica dello spostamento veloce col doppio risultato di spezzare ogni residua solidarizzazione (di classe non è più possibile parlare), e sfruttare al massimo popolazioni lontane tramite intermediarizzazioni corsare, anche queste prima sconosciute.

Le derealizzazioni tecnologiche che man mano renderanno profondamente diversi questi assetti attuali non è possibile conoscerle prima del tempo perché esse saranno il frutto non di singole decisioni, prevedibili e preconoscibili, ma dall’assemblaggio spontaneo di processi in grado settorialmente di causare effetti talmente sconvolgenti da azzerare ogni possibile assetto produttivo in atto. Per questo motivo il selvaggio accanimento basato sulla rincorsa al guadagno dei singoli capitali è un po’ frenato dall’eventuale inanità di decisioni fatte fuori luogo e principalmente fuori tempo che, se all’occhio miope del singolo capitale possono sembrare un vantaggioso investimento potrebbero rivelarsi una catastrofe senza limiti a breve termine.

Ecco una possibile indicazione. Ogni passo falso della singola tecnica può essere indicazione di una debolezza e qualsiasi teoria dell’attacco insegna a colpire prima i punti più deboli del nemico. La tecnologia infatti non può fare nulla di fronte a questi passi falsi se non accelerare il processo progressivo di derealizzazione, ma questa medesima accelerazione è, essa stessa, un segno a vantaggio dell’attacco.

Potremmo essere noi quelli non in grado di vedere, noi stessi talmente derelizzati da correre dietro a fanfaluche come è giusto che sia per degli zombi, ma se non siamo ancora morti e putrefatti, forse potremo trovare la forza e l’indicazione per agire.

Come?

Nel solito modo. Organizziamoci in base all’affinità. Piccoli attacchi determinati su obiettivi sia pure modesti ma chiaramente ancora visibili, il che nel caso nostro significa non ancora fatti scomparire. La lettura dell’insieme di quanto scritto in queste pagine dovrebbe essere una piccola indicazione, una sorta di manuale di controderealizzazione. Non possiamo salire sui nostri grandi cavalli per attaccare giusto ora che tutto il mondo sta per ammantarsi di una eterea leggerezza per ingannarci. Non possiamo nemmeno giustificarci con le antiche contraddizioni e i complessi tormenti di chi le ha viste tutte e non fa altro che aspettare la prossima demenza della carne per dichiararsi definitivamente sconfitto. Attaccare significa colpire, distruggere, bruciare, esplodere, uccidere, sradicare, cancellare dalla faccia della terra sia pure quella piccola realtà, dico realtà, che riusciamo a cogliere davanti ai nostri occhi. Questa esiste e non ha bisogno, per farsi vedere, che di un piccolo acuirsi del nostro sguardo. Ecco. Se è finito il tempo della facilità dell’attacco non è finito il tempo dell’attacco, anzi questo tempo qui, questo tempo dell’intelligenza, dell’acutizzarsi della vista, del mettere il cuore nelle cose che facciamo, dell’illimitatezza dei nostri sogni e delle nostre passioni, questo tempo qui è proprio alle porte.

Quando?

In qualsiasi momento. Occorre inventarsi i mezzi, non stare a cercare la grande disponibilità di rumorosi strumenti che se mai c’è stata adesso proprio non c’è più. Mi ricordo dei piccoli oggetti tascabili autoincendiari che misero al tappeto la Standa di Berlusconi portandola al fallimento. Poi tutto tacque. Perché fermarsi? Forse aspettiamo qualche nuova invenzione pirotecnica? Forse ci sembra troppo inadeguato questo strumento per le grandi aspettative dell’attacco dei pericolosissimi anarchici distruttori del mondo? È la volontà che indica lo slancio aperto alle seduzioni dell’esistenza, a tutto ciò che siamo capaci di progettare noi, senza indugiare troppo sull’insolita miseria che in questo momento ci colpisce, afferriamo il senso del pittoresco che c’è nell’azione, quello che la qualità può improvvisamente darci, quello che mille riflessioni quantitative antinomiche non possono mai portare nel nostro cuore. Oltrepassiamo la realtà, il momento è sempre quello buono, quello presente, prima che questi processi ci costringano ad accettare catene che nessuna forza umana potrà poi rompere.

Perché?

Guardiamoci attorno. Vogliamo finire i nostri giorni raggomitolati davanti alla televisione? Vogliamo accettare un impiego al catasto di qualche piccolo comune? Vogliamo insegnare l’abc a bambini rincoglioniti prima del tempo? Vogliamo adeguarci ai mille mestieri della sopravvivenza? Vogliamo continuare a leggere Bakunin e Kropotkin? Vogliamo dissertare con altri compagni come noi disintegrati dall’inebetudine del non sapere che fare, tra una canna e l’altra? Vogliamo continuare a confrontarci con il ritratto dei nostri nonni?

Andiamo, spazziamo via tutta questa merda. E, se è il caso, anche noi con essa.

AMB
aprile 2017

Tratto da: “Negazine” n. 1

Cosa c’è di più irritante di un compleanno, di un rituale prestabilito che ogni anno ti ricorda che un bel giorno sei nato senza averlo chiesto, rimandandoti a scadenza fissa al tempo che passa fino alla tomba? Per non parlare di quelle cifre tonde che in base all'arbitrarietà del sistema decimale dovrebbero sfociare in una di quelle feste dove l'ipocrisia sociale raggiunge l'acme. Eppure, ciò che vale per l'individuo che può sempre districarsi dalle ricorrenze sparando sull’orologio, assume un’altra dimensione quando il dominio decide di autocelebrarsi. Allora non si tratta più del filo di Crono che si allunga, ma dello spettacolo del padrone che si manifesta per intimare agli schiavi l'enormità della loro servitù. Come un eterno presente il cui solo orizzonte è costituito da catene forgiate col medesimo acciaio: quello dell'autorità. Le pubbliche commemorazioni di avvenimenti del passato costituiscono un buon esempio del duplice uso degli anniversari da parte dei potenti in carica. Da un lato, imprimere la loro versione della storia nella mente delle persone e, dall'altro, riaffermare la loro legittimità attraverso una continuità regolarmente scossa dal basso dalle rivolte. In Italia, ad esempio, la Festa della Liberazione fissata il 25 aprile (1945) corrisponde alla data che segna la presa dei pieni poteri da parte del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), mentre lo sciopero generale insurrezionale a Torino e Milano era cominciato il 18 e il 23 aprile, e Napoli era già insorta nel settembre 1943 scacciando gli occupanti nazisti. Così come è  il 28 aprile, tre giorni dopo, la data in cui Mussolini fu giustiziato dai partigiani e il suo cadavere appeso in Piazzale Loreto a Milano. Ma la scelta di quella data avrebbe certo ricordato in modo troppo crudo la guerra civile tra i pro- e gli anti-fascisti, a scapito di una «riconciliazione nazionale» allora auspicata sia dai conservatori che dal partito comunista al fine di spartirsi in santa pace il potere. Quanto ai nazisti, le truppe tedesche si sono arrese agli angloamericani il 2 maggio, segnando la definitiva liberazione del territorio della penisola. Ma quest'ultima data avrebbe ovviamente lasciato troppo poco spazio alla resistenza nazionale. Una delle conseguenze dell'istituzione di una ufficialissima Festa della Liberazione fin dall'aprile 1946, mentre i fascisti sarebbero stati amnistiati in massa a partire da giugno per venire in parte riciclati nell'apparato di Stato repubblicano, è che quei rivoluzionari che hanno proseguito la lotta per la libertà nei mesi e negli anni successivi, dopo l'aprile 1945 sono ridiventati «banditi» e «criminali» come sotto il fascismo, e non più «partigiani». Qui la questione va ben oltre le controversie commemorative e i confini della legalità. È legata piuttosto al fatto di agire in prima persona senza attendere date esterne o masse fluttuanti, a partire dalle proprie temporalità, dalle proprie idee e da esperienze radicate in fondo alle proprie viscere. Allo stesso modo, non si tratta di rinunciare all'utopia dato che i tempi sono spesso senza speranza (e quando non lo sono?), ma per farvi fronte esser capaci nel contempo di coltivare un mondo interiore singolare e di sviluppare le nostre proiezioni su quello che ci circonda: per non lasciarci più semplicemente trascinare dalle burrasche della storia, dobbiamo pur iniziare a fare la nostra. Per dirla con le parole di un compagno come Belgrado Pedrini, che come altri non aveva atteso la rottura del patto tra Stalin e Hitler per combattere armi in pugno contro il fascismo, né si era fermato quel 25 aprile, «Si faccia o no la rivoluzione, io farò la mia».  

Ma non c'è bisogno di valicare le Alpi per produrre immaginari legati più all’eternità dell'oppressione statale che alla sua distruzione. Pensiamo ad esempio alla Rivoluzione del 1789, che i dirigenti di questo paese brandiscono ancora oggi come un totem d'immunità quasi culturale, mentre esportano le loro armi in ogni angolo del pianeta (se il massacro nello Yemen, ad esempio, vi dice qualcosa). Ma no, suvvia, niente di tutto questo, noi siamo la patria dei Diritti dell’Uomo! E la presa della Bastiglia, non è persino diventata la nostra Festa Nazionale? Una festa che tra l'altro è stata indicata nel 14 luglio quasi cento anni più tardi, nel 1880, dopo parecchi cambiamenti sotto forma di compromesso tra borghesi liberali e conservatori... certamente in relazione alla presa della Bastiglia, ma anche alla Festa della Federazione dell'anno successivo, che vide il Re prestare giuramento alla Costituzione dopo una messa celebrata da 300 sacerdoti e davanti a un Te deum intonato dalla folla. In quest'ultima scelta, nessuna visione di teste reali mozzate, tutt’altro, né di assalti ad arsenali militari da parte degli insorti per impadronirsi della polvere e dei cannoni. Con questa data è in sostanza un intero movimento, difeso dall'esperienza di un Varlet nel suo opuscolo del 1794, che la continuità repubblicana del potere avrebbe voluto cancellare dalla memoria ribelle: «Per qualsiasi essere senziente, governo e rivoluzione sono incompatibili…». Infine, al di là della sacralizzazione dello Stato o della proprietà tramite incisione della loro autorità nella pietra marmorea di una Dichiarazione Universale, ricordiamo che uno dei successi poco conosciuti di quel periodo è stato inoltre l'importazione in diverse lingue comuni di due concetti del dominio che avrebbero presto colonizzato le menti: «vandalismo» e «terrorismo». Il primo termine, coniato nel 1794 da un deputato a partire dal nome di una popolazione considerata la più barbara di tutte (i Vandali), mirava a porre fine alle pratiche di chi continuava ad attaccare le chiese e i castelli per distruggerne il contenuto, come nei bei tempi andati. Attraverso l'invenzione del vandalismo, la ragione di Stato ha inteso arrogarsi il monopolio delle buone distruzioni fattori di progresso — in chiave contemporanea sommergendo villaggi per costruire dighe, radendo al suolo quartieri poveri per farvi passare un treno o costruirvi torri di uffici, distruggendo una montagna per estrarre il litio — opponendosi a quelle malvagie, per forza di cose irrazionali. Ovvero a tutte le altre distruzioni diverse dalle proprie, quelle praticate in modo autonomo, a maggior ragione se attaccano beni fondamentali per lo Stato. Il secondo termine, risalente anch'esso all’anno 1794, designava il regime di terrore politico del Comitato di Salute Pubblica. Non si nominavano gli attacchi provenienti dal basso contro il potere, per spaventare e squalificarli, ma si indicava il terrore di Stato esercitato in modo indiscriminato. Mentre alcuni gruppi come i populisti russi tentarono di riappropriarsi della parola all'inizio del secolo scorso, nello stesso periodo il potere comprese l'uso interessato che avrebbe potuto farne rovesciandone il significato contro chi gli si opponeva mediante l’azione diretta. Una confusione che si è rapidamente diffusa con l'aiuto dei suoi portavoce di massa (prima la stampa popolare poi la radio), ed è così che ad esempio i sabotatori di reti elettriche, di linee ferroviarie o di fabbriche di armi diventavano partigiani o terroristi a seconda che fossero amici o nemici di uno dei regimi in carica, vale a dire sostenuti dalle potenze alleate o vilipesi dal regime nazista. Così come lo stesso atto di sabotaggio compiuto dagli stessi individui durante gli scioperi insurrezionali del 1947 e del 48 sarebbe diventato «terrorista» piuttosto che «di liberazione» a detta degli stessi dirigenti… ormai passati dagli scranni dell'opposizione a quelli del potere. Ancora una volta, era una data ormai anniversario destinata a fare la differenza, l'8 maggio 1945.  

Lo scorso 4 settembre, al Pantheon, la crema progressista del paese si è stretta attorno a Macron per celebrare nientemeno che «un momento fondante del modello repubblicano», ovvero il 150° anniversario della Terza Repubblica (1870). Sì, sì, quella che si concluse quando 572 dei suoi deputati e senatori riunitisi al Gran Casino di Vichy votarono per i pieni poteri a Pétain. Quella che, prima di realizzare la sua grande opera a suon di massacri coloniali, feroce industrializzazione, leggi scellerate e macellerie della prima guerra mondiale, aveva caratterizzato l'inizio del suo regime con il repubblicano squartamento di 20000 insorti della Comune.  All'interno del pesante edificio in pietra bianca, proprio sotto i piedi dei potenti assisi in ranghi meno serrati del solito, c'è la tomba di un grand’uomo in putrefazione che probabilmente li ha lasciati perplessi. Si tratta del primo presidente della Repubblica la cui carriera è stata tagliata di netto prima del suo termine. Che bel giorno è stato quel 24 giugno 1894, quando il pugnale dell'anarchico Sante Caserio è penetrato a fondo nel fegato di Carnot, liberandolo definitivamente del peso del suo fardello. Contrapporre il nostro 24 giugno omicida alla loro ultima buffonata istituzionale del 4 settembre potrà apparire magari ridicolo a molti, ma è più che altro assurdo, tanto la nostra dimensione, quella della qualità, è radicalmente diversa dalla loro, quella della politica. La cosa più importante qui è infatti che un compagno di carne e ossa come noi, un nemico dell'autorità come noi, abbia deciso di forzare il destino armato di coraggio e di determinazione, realizzando la propria storia. «Se il governo usa contro di noi i fucili, le catene, il carcere, dovremmo forse noi anarchici, che difendiamo la nostra vita, restare chiusi in casa?» chiese non senza ironia Caserio alla giuria, dopo aver già risposto a modo suo. È nel corso della nostra stessa vita, di fronte alle sfide del presente, che ognuno dovrà trovare la propria risposta. Come solo calendario in tasca, la nostra irragionevole passione per la libertà.

Tratto da Avis de tempêtes, 33, 15 settembre 2020

Traduzione: Finimondo