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Per secoli gli ebrei hanno conosciuto la diaspora, la loro disseminazione per tutto il mondo. Privi di un territorio dove radicarsi e dove le proprie istituzioni potessero solidificarsi, gli ebrei non avevano uno Stato, ma costituivano una comunità in continuo movimento. L'attaccamento alle proprie tradizioni culturali e religiose era tale da renderne difficile, se non impossibile, l'integrazione nelle società dove si stabilivano. In un certo senso, si può dire che gli ebrei fossero stranieri ovunque si trovassero, cosa che contribuì non poco a creare diffidenza nei loro confronti (pensiamo a quel che accade ancora oggi ad una altra popolazione nomade vittima di persecuzioni, gli zingari).  

Alla fine dell'Ottocento nacque il sionismo, movimento iniziato da Theodor Herzl, che voleva dare una sede nazionale agli ebrei in grado di costituire un rifugio dall'antisemitismo e dalle ingiustizie. Il sionismo mirava quindi ad offrire agli Ebrei dispersi nel mondo una patria comune in Palestina, sotto la protezione delle grandi potenze coloniali europee. C'erano però alcuni problemi. A quell'epoca, il territorio palestinese era sotto il dominio dell'impero Ottomano ed era già abitato prevalentemente da arabi. Il motivo principale per cui il sionismo venne sostenuto dagli Stati europei, Inghilterra in primo luogo, fu perché serviva da punto di appoggio per contrastare l'egemonia turca in quell'area. Va anche detto che i fondatori del sionismo, dietro la facciata dei nobili propositi, perseguivano scopi non propriamente filantropici. Loro intenzione era soprattutto di preservare la stabilità acquisita dagli ebrei europei occidentali, di cui facevano parte, che all'epoca era minacciata dalle migrazioni degli ebrei provenienti dall'est. Il sionismo era in altre parole un movimento nazionalista nato da preoccupazioni di classe; era il tentativo della ricca borghesia ebrea, concentrata nell'Europa occidentale, di difendersi dall'irruzione del proletariato ebreo, concentrato in oriente, il quale stava varcando le frontiere alla ricerca di fortuna e per salvaguardarsi dai pogrom. Ben presto questi ebrei poveri cominciarono a costituire un problema per gli ebrei ricchi giacché il loro progressivo aumento – nonché le loro idee fortemente socialiste – cominciava ad irritare l'opinione pubblica ed i governi occidentali, fomentando in certo qual modo l'antisemitismo. C'era quindi bisogno di mettere un freno a queste migrazioni, trovare per tutti costoro un altro posto dove andare. La scelta della Palestina si imponeva naturalmente, data la sopravvivenza presso gli ebrei orientali di una tradizione culturale basata sulla speranza messianica di un ritorno nella terra di Israele.  

Per questo motivo il sionismo è stato vissuto dagli ebrei oppressi come un movimento di emancipazione, non di conquista. Si può dire che ciò che ha distinto l'impresa sionista da tutte le altre, è la straordinaria buona coscienza con cui è stata portata avanti, dato che il mito del ritorno alla Terra promessa ha aggiunto le sue esaltanti rappresentazioni a quelle, più classiche, del colonialismo civilizzatore. Molti dei coloni ebrei che misero piede in Palestina erano indubbiamente animati da nobili propositi trattandosi per lo più, o di sopravvissuti alle persecuzioni che volevano solo essere liberi, o di convinti socialisti intenzionati a costruire il "mondo nuovo" senza dover più attendere una rivoluzione sociale che tardava a mantenere le proprie promesse di liberazione. Una specie di accecamento confusionario, che ha colpito generazioni di coloni, era il prezzo da pagare per l'entusiasmante nascita di Israele con i suoi kibbutz e la sua mentalità pionieristica. Da un secolo i sionisti ricorrono a ogni genere di smentita, di mistificazione e di menzogna per nascondere ciò che fin dall'inizio saltava agli occhi: là dove si sono installati, c'era già qualcuno.  

I coloni ebrei arrivati all'inizio del secolo hanno cominciato a costruire Israele su un primo mito: il deserto. Il loro slogan era «Un popolo senza terra per una terra senza popolo». Questo non significa che i sionisti fossero arrivati in Palestina credendo di non trovarvi nessuno, ma piuttosto che erano il prodotto di una cultura che dove c'erano non-europei vedeva il vuoto, dove c'erano beduini vedeva un deserto da fare fiorire, dove c'erano villaggi recalcitranti vedeva una terra da liberare.La scoperta degli abitanti arabi della Palestina, delle loro strutture agricole e commerciali, delle loro città, dei loro villaggi, della loro cultura, e soprattutto delle loro aspirazioni nazionali, fu per gli ebrei una brutta sorpresa. Inizialmente, quando la loro presenza in Palestina non era ancora così massiccia, i rapporti che ebbero con gli abitanti arabi erano per lo più di mero sfruttamento. Gli ebrei avevano acquistato, con i denari delle casse sioniste, le terre agli sceicchi possidenti e facevano lavorare alle proprie dipendenze i contadini palestinesi. Ma questa manodopera, per altro conveniente, divenne superflua allorquando migliaia e migliaia di ebrei cominciarono a confluire in quella patria infine ritrovata, anche sotto la spinta delle persecuzioni antisemite. Nel 1904 all'interno del sionismo diventò maggioritaria l'influenza della tendenza socialista, la quale era contraria allo sfruttamento del lavoro arabo. I coloni non dovevano più fare lavorare gli arabi, sottopagandoli, ma dovevano lavorare essi stessi, con un salario pari a quello degli operai qualificati europei, nei propri kibbutz. Paradossalmente, la politica socialista del lavoro svolto direttamente dagli ebrei pose sì fine all'iniziale sfruttamento degli arabi, ma causò anche l'esclusione dei palestinesi dall'economia ebrea, preludio all'espulsione dalle loro terre. Gli ebrei avevano comprato quelle terre, gli ebrei le lavoravano: gli arabi erano diventati di troppo. I rapporti fra ebrei e arabi, fino a quel momento tesi, precipitarono definitivamente con la prima guerra mondiale, quando gli interessi dell'impero britannico si rivelarono in piena luce.  

Nel 1914 l'impero Ottomano entra in guerra, alleandosi con la Germania. Nel 1915 l'Inghilterra garantisce agli arabi l'indipendenza e la sovranità, in cambio di una rivolta contro il dominio turco. Nel 1916, all'insaputa degli arabi, l'Inghilterra prende accordi con Francia e Russia per la spartizione dei territori ottomani in Medio oriente. Il 1917 è l'anno della celebre dichiarazione Balfour, con cui il segretario agli affari esteri inglese promette a Edmond de Rothschild il sostegno britannico alla costituzione di una sede nazionale ebraica in Palestina. Nel 1918 la Palestina viene occupata dalle truppe inglesi, lì giunte per consentire l'amministrazione britannica come stabilito dalla Lega delle Nazioni. Tre anni dopo, nel 1921, la dichiarazione Balfour viene incorporata nel Mandato britannico sulla Palestina. A quel punto la situazione non poteva che peggiorare. Gli arabi si sentirono traditi dagli inglesi che, non solo non gli avevano concesso l'indipendenza promessa, ma che per di più stavano appoggiando l'insediamento ebraico che si ingrossava ogni giorno di più; da parte loro, gli ebrei videro nell'ostilità araba null'altro che una forma di antisemitismo, avendo pagato quelle terre che erano riusciti a fare fruttare attraverso un duro lavoro. Per gli arabi, gli ebrei erano solo invasori protetti dagli inglesi. Per gli ebrei, gli arabi erano solo incivili e fanatici antisemiti. Il nazionalismo cominciò a dilagare in entrambe le parti. Le poche voci discordanti, come quella degli anarchici ebrei sostenitori di un movimento binazionale giudeo-arabo sulla base del socialismo dei kibbutz, o quella del partito comunista palestinese favorevole all'internazionalismo proletario, non vennero ascoltate e ben presto furono sommerse dall'isteria sciovinista. Le violenze diventarono sempre più quotidiane, sempre più feroci, dall'una e dall'altra parte. Le ragioni di entrambi lasciarono spazio solo ai torti. Più il tempo passava e più diventava chiaro che quella terra era troppo piccola perché ci potessero vivere due popoli: uno dei due doveva scomparire per permettere all'altro di sopravvivere.  

Con la fine della seconda guerra mondiale e la sconfitta del nazismo, i sionisti riescono a fare condividere la propria visione sul futuro della Palestina all'insieme delle democrazie, giocando sulla cattiva coscienza delle classi dirigenti e delle popolazioni che, specialmente in Germania, Francia e Italia, si erano compromesse col diffondersi dell'antisemitismo. La creazione dello Stato di Israele, a spese dei palestinesi, era il risarcimento dovuto agli ebrei per le sofferenze patite – la proclamazione dello Stato di Israele avviene il 15 maggio del 1948. La creazione dello Stato di Israele, a spese dei palestinesi, stava avvenendo con le medesime modalità messe in atto dagli altri Stati capitalisti al momento della loro costituzione. La creazione dello Stato di Israele, a spese dei palestinesi, era funzionale agli interessi occidentali che propendevano per una certa instabilità in Medio oriente, pur di prevenire una possibile unificazione del mondo arabo. La creazione dello Stato di Israele, a spese dei palestinesi, rendeva felice la nutrita e ricca comunità ebraica presente in Occidente, con tutto ciò che questo avrebbe comportato in termini economici. In questo modo lo Stato di Israele venne riconosciuto da tutte le democrazie occidentali come loro simile.  

Massimo rappresentante delle vittime del massimo orrore antidemocratico per eccellenza – il nazismo –, Israele può così gestire un capitale simbolico tanto più potente in quanto i paesi confinanti sono in mano a regimi dittatoriali che non esitano, all'occorrenza, a ricorrere alla violenza contro le popolazioni (in particolare quella palestinese). E poiché lo Stato d'Israele coltiva una forma di democrazia che vorrebbe assomigliare a quella dell'antica Grecia – dove la "libertà" dei cittadini si basava sulla schiavitù degli iloti – viene sacralizzato come rappresentante locale della democrazia e della ragione occidentale, baluardo contro le tenebre dell'islamismo. Lo Stato di Israele può quindi fare regnare ovunque attorno a sé il terrore, forte del suo super-diritto, gonfio della sua super-buonacoscienza. Ciò non toglie che sia condannato per sopravvivere a praticare una politica di separazione al proprio interno, e di aggressione all'esterno. Mentre il ricordo costante delle disgrazie patite nel passato dagli ebrei serve solo da giustificazione morale per coprire gli orrori compiuti nel presente.

Fawda, Aprile 2002

Il 14 maggio verrà pronunciata la sentenza per 63 compagni accusati di devastazione e saccheggio per il corteo contro le frontiere al Brennero del 7 maggio 2016, per i quali l’accusa ha chiesto oltre 300 anni di carcere. Cinque anni dopo quella giornata, i motivi che ci hanno spinti a scendere in strada sono più validi che mai: alle frontiere della fortezza Europa si continua a morire (l’ultima strage, con 120 persone lasciate annegare nel Mediterraneo, è di poche settimane fa) e la condizione di clandestinizzazione che lo Stato riserva agli stranieri senza documenti è stata estesa all’intera società, con la militarizzazione e il controllo generalizzato dei nostri spostamenti giustificati con l’Emergenza Covid. Non solo: l’accusa di devastazione e saccheggio è l’arma con cui lo Stato sta rispondendo ai più forti momenti di lotta contro la gestione dell’emergenza: la rivolta nelle carceri a marzo e gli scontri contro l’imposizione del coprifuoco ad ottobre dello scorso anno.

Venerdì 14 maggio alle 18.00 presidio solidale a Bolzano, ai prati del Talvera altezza ponte Talvera

Fonte: www.ilrovescio.info

Riceviamo con piacere e diffondiamo questo opuscolo.

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Copertina

5G E ENERGIA

INTRODUZIONE
In questo mondo di dati

Il sentiero della critica è costellato di dubbi, spesso la via si biforca ponendo chi la percorre di fronte ad una scelta e non sempre le stelle sono ben visibili. La scelta di scrivere questo opuscolo, non è esente da possibili criticità. Ed è nel cercare di affrontare queste criticità che questo scritto ha preso forma così com'è. Ora, se si dovesse prendere in considerazione un interrogativo in grado di portarci il più possibile a sfiorare il nocciolo della questione, quello in grado di rappresentare al meglio tale perplessità potrebbe essere il seguente:
perché tanto tempo ed energie dedicate ad approfondire lo sviluppo e l'applicazione di una singola tecnica, rischiando in questo modo di instaurare una gerarchia fittizia tra le tecniche, quando le une come le altre contribuiscono, anche se in modi differenti, al buon funzionamento del sistema?

Molto si è sentito parlare negli ultimi tempi della rete 5G, tale considerazione non fa testo. L'interesse da cui è scaturito questo scritto però non ha nulla a che vedere con la "popolarità" di tale argomento. Nemmeno gli effetti nefasti di tale tecnica è ciò che si vorrebbe mettere a fuoco. Di certo l'intento non è quello di voler convincere tutti/e a buttarsi a capofitto in una lotta all'ultimo grido contro il nuovo peggior nemico di turno. Questo testo non ha lo scopo di dimostrare quanto lo sviluppo del 5G possa cambiare in peggio il mondo, né di come il suo utilizzo causerà un ulteriore perdita di libertà e un ulteriore depauperimento in ambito ecologico, sociale, intellettuale, emozionale, esistenziale. Fortunatamente già altri approfondimenti pubblicati su svariati giornali, riviste o siti affrontano la questione a mio parere esaurientemente. Ciò che si è cercato di fare qui è soffermarsi su alcuni aspetti che finora nessuno (o quantomeno che io sappia) aveva trattato. Lo scopo di questo scritto è quello di raccogliere e dare organicità ad una serie di informazioni e considerazioni che sono emerse nell'ispezionare le viscere di questa enorme idra tecnologica, di cui è diventato difficile scorgere l'addome date le innumerevoli teste.
Un contributo di questo scritto potrebbe essere quello di mettere in evidenza alcuni aspetti che potrebbero risultare di interesse per chi questa innovazione già la aborrisce e vorrebbe quindi conoscerla un po' meglio per capire con cosa si stia materialmente confrontando.

Ma resta ancora la perplessità: perché proprio il 5G?
L'entusiasmo nell'approfondire la questione dello sviluppo della rete 5G e di come questa tecnica andrà ad alimentare il progressivo processo di digitalizzazione, è per lo più scaturito da alcune riflessioni relative alle specificità di questa tecnica e in maniera più estesa al settore a cui essa appartiene, ovvero le telecomunicazioni.

Qualcuno già negli anni 80' scriveva:
"Non siamo più in una società dominata dall'imperativo di produzione, ma dall'emissione, dalla circolazione, dalla ricezione, dall'interpretazione di informazioni: esattamente ciò che permette la costituzione del sistema. Le parti non sono più solo coordinate, né semplicemente connesse le une alle altre. Non sono materialmente unite, ma ciascuna emette e riceve informazioni e il sistema regge grazie alla rete di informazioni incessantemente rinnovate."


Se l'informazione è il medium tramite cui è possibile il coordinamento delle svariate componenti del sistema tecnico, in un mondo sempre più digitalizzato, questo ruolo viene svolto principalmente da un caratteristico canale, ovvero quello informatico. I dati informatici sono al giorno d'oggi un materiale chiave attraverso cui si configurano nuove applicazioni del potere. Tramite la loro raccolta, in relazione a comportamenti, bisogni, parametri ambientali... l’esistenza nella società diviene sempre più prevedibile e controllabile. Raccolti e classificati in base a certe tipizzazioni, permettono al sistema di adattarsi verso una maggior efficienza e pervasività. Applicati alle procedure tecniche che regolano i meccanismi sociali permettono di adattare gli individui a tale paradigma.

In questi tempi in cui il pretesto della "lotta al virus" sembra aver paralizzato l'economia, oltre che ogni forma di socialità, il capitalismo, ma anche lo stato e il sistema tecnico, non stanno attraversando una fase di "debolezza" bensì di cambiamento. Ciò comporta un mutamento dell'organizzazione della società e degli equilibri del dominio.
Chiusi in casa l'esser-ci nella società è divenuto l'esser-ci di una piattaforma web. Così da un momento all'altro ciò che ancora aveva la parvenza di un' utile possibilità è divenuta l'unica dimensione concessa. Scuola, lavoro, consumo, svago, sesso... tutto mediato dai pixel di uno schermo e tra uno schermo e l'altro da quell'ammasso di cavi in fibra ottica in continua posa e da quei piloni metallici che in primavera sembrano spuntare tra i campi come gli asparagi.
Tracciare i movimenti, le abitudini, le attitudini comportamentali, per costruire un profilo della persona, diviene sempre più semplice grazie alla comparazione di una miriade di dati, accumulati da un’enorme quantità di dispositivi connessi, e non solo dai propri computer e smartphone utilizzati intenzionalmente, ma anche da tutti gli apparecchi dotati di sensori che fanno parte dell’arredo domestico e urbano. E quei dati che non sono immediatamente utili per il funzionamento del dispositivo, costituiscono quello che viene definito «surplus» di informazioni che poi potrà essere usato da polizia, aziende, centri di ricerca...

La tecnica che consente la raccolta di tutti questi dati viene chiamata IoT (Internet of Things). Essa in realtà più che una tecnica è una concezione della tecnica, ovvero l'insieme dei dispositivi connessi ad una rete, in comunicazione e interazione tra loro considerati come un tutt'uno. Mike Kuniavsky, pioniere e primo sostenitore di questa concezione, lo descrive come un modo di esistenza in cui "la calcolabilità e la comunicazione dei dati [sono] incorporati e distribuiti all'interno del nostro ambiente nella sua interezza". Ovvero una colonizzazione totale dell'esistenza dal punto di vista ambientale e comportamentale da parte della tecnica digitale. L'IoT più che una struttura in fase di costruzione può essere considerato come un progetto in continuo ampliamento, ma tale progetto necessita di una rete fisica su cui potersi configurare.
Arrivati a questo punto è possibile forse proporre delle buone argomentazioni in risposta al duddio che aleggia dall'inizio di questa introduzione.

Il fiume del progresso corre in un bacino artificiale: necessita di essere alimentato affinché non si prosciughi. Lo scioglimento dei ghiacciai incombe sul destino di questo corso d'acqua innaturale, sempre più depredato dai bisogni idrici delle città con i loro campi intensivi e le loro industrie. E una civiltà senza progresso è una civiltà destinata a decadere. Allora, affinché non si prosciughi, decine, centinaia, migliaia di affluenti devono essere incanalati al suo interno, così che il flusso continui ad aumentare. Ma solo un impegnativo lavoro di ristrutturazione è in grado di supportare questo piano. Migliaia di canali devono essere costruiti dove prima non vi era alcuna costruzione e l'intero letto del fiume dev'essere allargato per permettere al bacino idrico di continuare ad ampliarsi.
Ora, se al posto dell'acqua immaginiamo dei pacchetti di dati, al posto dei canali pensiamo a dei cavi in fibra ottica e il letto come alla rete di antenne/ripetitori 5G, la metafora forse un po' elaborata potrebbe render l'idea della ristrutturazione informatica in atto. La rete 5G è solo una parte di questo progetto, ma ha la peculiarità di essere forse la parte più vincolante. Per questo si è scelto di concentrarsi sulla rete 5G in modo prevalente rispetto al resto, nonostante questo elaborato consideri anche alcuni aspetti che vanno oltre questo singolo ambito. Perché essa è forse oggi una delle tecniche più funzionale a permettere questa evoluzione.

Tale evoluzione si inserisce in un processo chiamato "rivoluzione 4.0" che prevede una trasformazione complessiva del sistema tecno-industriale. Come in passato l'utilizzo del carbone e la macchina a vapore, l'estrazione del petrolio e la fissione nucleare, hanno permesso un accrescimento e accentramento esponenziale del sistema produttivo, oggi l'applicazione delle tecniche digitali annuncia l'avvento di una nuova accelerazione. Tale trasformazione è ben evidente da quando la gestione della pandemia del Covid19 ha permesso un espansione generalizzata dei processi di automazione, permettendo una gestione digitalizzata della maggior parte dei processi produttivi.

"Si tratta dell'integrazione e della convergenza delle tecnologie digitali, fisiche e biologiche in una nuova visione del pianeta e dell'umanità...Se buona parte dei processi produttivi nelle fabbriche sono già ampiamente automatizzati, anche altri settori stanno per subire analoghi cambiamenti. Secondo alcune stime, verso il 2035 potrebbero essere automatizzati l'86% di tutti gli impieghi nel settore della ristorazione, il 75% in quello del commercio e il 59% in quello dell'intrattenimento. Nel Regno Unito, nel periodo che va dal 2011 al 2017, con l’introduzione del pagamento tramite macchine è stato perso il 25% dei posti di lavoro alle casse dei supermercati. Il settore degli acquisti a distanza e delle consegne a domicilio è un altro settore in piena automazione, il cui grande modello è l'organizzazione del lavoro come avviene nei magazzini di Amazon o di Alibaba. Notevoli sperimentazioni sono in corso in diverse città in tutto il mondo per sostituire con robot e droni gli addetti umani alle consegne. Ulteriori stime più generali paventano una perdita del 54% dei posti di lavoro nei prossimi due decenni all’interno dell'Unione Europea, qualora l'espansione e lo sviluppo dell'automazione mantengano l’attuale ritmo. Pensiamo anche alla prevedibile generalizzazione delle stampanti 3D, che consentirebbero di sostituire gli operai che fabbricano oggetti con macchine che li stampano. Oppure alle possibilità aperte dagli algoritmi e dai Big Data per rimpiazzare gli impiegati agli sportelli e negli uffici, nella stipula di un contratto d’assicurazione o addirittura in una diagnosi medica effettuate in base a decisioni automatiche. È chiaro che la natura del lavoro cambierà negli anni a venire."

Affinché queste previsioni si concretizzino sarà quindi necessario lo sviluppo di una rete ultra-potente in grado di rendere fruibile il fluire di miliardi di dati, prodotti e utilizzati da milioni di dispositivi digitali. Congegni assemblati, a partire da materiali incredibilmente tossici, nei peggiori lager dell'apparato industriale. Ma d'altronde l'ampliamento della rete non è opinabile e nemmeno rimandabile, lo si può constatare anche solo dalla fretta e dallo zelo con cui lo stato e le compagnie se ne stanno occupando.

"L’emergenza che stiamo vivendo ha acuito l’importanza per il Paese di disporre di una infrastruttura di telecomunicazioni moderna e ha accelerato l’adozione di modelli digitali da parte di imprese e amministrazioni" afferma Aldo Bisio, amministratore delegato di Vodafone Italia "Proseguiamo quindi con la nostra strategia di investimenti per accompagnare la trasformazione digitale del Paese. Il 5G non è solo una opportunità, ma una necessità per sostenere il trend di crescita esponenziale della domanda di dati, accelerata dalla pandemia”.

Ora come già si affermava precedentemente il rischio in questo tipo di percorsi è quello di focalizzarsi su una chiave di lettura del mondo che potrebbe diventare monolitica. Allo stesso tempo, però, resta indubbio che, soffermarsi su questo argomento nello specifico, dia la possibilità di conoscere in modo più dettagliato un elemento del sistema a cui viene attribuita una notevole importanza e si auspica che tali informazioni possano essere un buon armamentario per chiunque avversi questo tipo di mondo e scelga in un modo o nell'altro di combatterlo.

Dato che il comitato centrale del probabile Cremona Pride del 2022 non la racconta giusta, ci pensa questo opuscolo a far capire, a tutte quelle persone che vogliono conoscere nel profondo, da dove deriva una storia particolare di ribellione. Con buona pace di chi crede che fascismo, transomofobia e discriminazioni di genere possano essere distrutte con le istituzioni, quando sono queste ultime che ogni giorno direttamente e indirettamente sostengono qualunque tipo di oppressione e chiusura di ogni spazio di libertà. Sarebbe come chiedere ad un militare di smettere di fare la guerra, ad un industriale di non inquinare, ad un boia di non torturare o ad un politico di non mentire.

Nessuna legge fermerà le aggressioni di genere e il sessismo di ieri e di oggi, ma solo il sapersi difendere da sole o insieme, per attaccare il patriarcato, parte fondamentale dell'attuale società dello sfruttamento.

Buona lettura.

ResistenzaQueerRadicale-1

ResistenzaQueerRadicale

In questo breve saggio, ripreso dal libro di Alex B “La Società Degenerata – Teoria e pratica anarcoqueer
(ed. Nautilus), si narra la storia dimenticata della resistenza queer radicale, a partire dalla rivolta di Stonewall e dai primi movimenti di liberazione sessuale degli anni 70, passando per la lotta armata, fino all’attivismo queer anarchico contemporaneo.

La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande.

Archiloco

Il fascismo è una parola di otto lettere che comincia per f. L’uomo, da sempre, si è appassionato fino a morirne per i giochi di parole che, nascondendo la realtà più o meno bene, lo assolvono dalla riflessione personale e dalla decisione. Così il simbolo agisce al nostro posto e ci fornisce un alibi e una bandiera.

Quando al simbolo che non intendiamo sposare, che anzi ci fa schifo profondamente, applichiamo la paroletta “anti”, ci consideriamo da quest’altra parte, al sicuro, e pensiamo di avere assolto con questo a una buona parte dei nostri compiti. Così, poiché alla mente di molti di noi, e chi scrive si annovera fra questi, il fascismo fa schifo, è sufficiente il ricorso a quell’ “anti” per sentirsi a posto con la coscienza, racchiusi in un campo ben guardato e ben frequentato.

Nel frattempo la realtà si muove, gli anni passano e i rapporti di forza si modificano. Nuovi padroni si avvicendano a quelli vecchi e la tragica barra del potere passa di mano in mano. I fascisti di ieri hanno messo da parte le bandiere e le svastiche, consegnate a pochi dissennati dalla larga tonsura, e si sono adeguati al gioco democratico. Perché non avrebbero dovuto farlo? Gli uomini di potere sono soltanto uomini di potere, le chiacchiere nascono e muoiono, il realismo politico no. Ma noi, che di politica capiamo poco o nulla, ci chiediamo imbarazzati cos’è successo, visto che ci hanno tolto da sotto il naso l’antico alibi del fascista nerovestito e mazzafornito, contro cui eravamo adusi a lottare a muso duro. Per cui andiamo cercando, come galline senza testa, un nuovo barlume espiatorio contro cui scaricare il nostro fin troppo facile odio, mentre tutto attorno a noi si fa più sottile e più sfumato, mentre il potere ci chiama a discutere:

– Ma prego, si faccia avanti, dica la sua, senza imbarazzo! Non dimentichi, siamo in democrazia, ognuno ha diritto a parlare quanto e come vuole. Gli altri ascoltano, acconsentono o dissentono, e poi il numero fa il gioco finale. La maggioranza vince e alla minoranza resta il diritto di tornare a dissentire. Purché tutto si mantenga nella libera dialettica delle parti.

Se portiamo la questione del fascismo sul piano delle chiacchiere, dobbiamo ammettere per forza che è stato tutto un gioco. Forse un’illusione:

– Il Mussolini, un brav’uomo, di certo un gran politico. Ha fatto i suoi errori. Ma chi non ne fa. Poi s’è fatto prendere la mano. Lo hanno tradito. Siamo stati tutti traditi. La mitologia fascista e anticoromana? Ma lasci perdere! Lei pensa ancora a queste anticaglie? Roba del passato.

«Hitler... — ironizzava Klaus Mann descrivendo benissimo la mentalità di Gerhart Hauptmann, il vecchio teorico del realismo politico — in fin dei conti,... Miei cari amici!... Niente malanimo!... Cerchiamo di essere... No, se non vi rincresce, consentitemi... obiettivi... Posso riempirmi di nuovo il bicchiere? Questo champagne... straordinario, davvero — l’uomo Hitler, voglio dire... Anche lo champagne, quanto a questo... Un’evoluzione assolutamente straordinaria... La gioventù tedesca... Circa sette milioni di voti... Come ho detto spesso ai miei amici ebrei... Quei tedeschi... nazione incalcolabile... misteriosissima davvero... impulsi cosmici... Goethe... La Saga dei Nibelunghi... Hitler, in un certo senso, esprime... Come ho cercato di spiegare ai miei amici ebrei... tendenze dinamiche... elementari, irresistibili...».
No, sul piano delle chiacchiere no. Davanti ad un buon bicchiere di vino le differenze sfumano, e tutto torna opinabile. Perché, è questo il bello: le differenze ci sono, ma non tra fascismo e antifascismo, ma tra chi vuole, e volendolo persegue e gestisce il potere, e chi lo combatte e lo rifiuta. Ma su quale piano potremmo trovare un fondamento concreto a queste differenze?

Forse sul piano di un’analisi più approfondita? Forse facendo ricorso ad un’analisi storica?
Non credo. Gli storici costituiscono la più utile categoria d’imbecilli al servizio del potere. Credono di sapere molte cose, ma più si accaniscono sul documento, più non fanno altro che sottolineare la necessità del suo essere tale, un documento che attesta in modo incontrovertibile l’accaduto, la prigionia della volontà del singolo nella razionalità del dato, l’equivalenza vichiana del vero e del fatto. Ogni considerazione su possibili eventualità “altre” resta semplice passatempo letterario. Ogni illazione, assurda piacevolezza. Quando lo storico ha un barlume d’intelligenza, travalica subito altrove, nelle considerazioni filosofiche, e qui cade nelle ambasce comuni a questo genere di riflessioni. Racconti di fate, gnomi, e castelli incantati. E ciò mentre tutt’intorno il mondo si assesta nelle mani dei potenti che hanno fatto propria la cultura dei “bignamini”, che non distinguerebbero un documento da una patata fritta. «Se la volontà di un uomo fosse libera, scrive Tolstoj in Guerra e Pace, tutta la storia sarebbe una serie di fatti fortuiti... Se invece esiste una sola legge che governi le azioni degli uomini, non può esistere la libertà dell’arbitrio, poiché la volontà degli uomini dev’essere soggetta a questa legge».

Il fatto è che gli storici sono utili soprattutto a fornirci elementi di conforto. Alibi e protesi psicologiche. Quanto sono stati bravi i federati della Comune del 1871! Come sono morti da coraggiosi al Père Lachaise! E il lettore s’infiamma e si prepara pure lui a morire, se necessario, sul prossimo muro dei federati. In tale attesa, cioè in attesa che oggettive forze sociali ci mettano in condizione di morire da eroi, barcameniamo la vita di tutti i giorni, per poi arrivare alla soglia della morte senza che quella tanto sospirata occasione ci sia stata porta. I trend storici non sono poi così esatti, decennio più, decennio meno, possiamo saltarne qualcuno e ritrovarci con niente nelle mani.

Volete misurare l’imbecillità d’uno storico, portatelo a ragionare sulla cose in fieri e non sul passato. Ne udirete delle belle.

No, le analisi storiche no. Forse quelle politiche, o politico-filosofiche, come siamo stati abituati a leggerne in questi ultimi anni. Il fascismo è questo, e poi quest’altro, e quest’altro ancora. La tecnica di facitura di queste analisi è presto detta. Si prende il meccanismo hegeliano di dire e contraddire nello stesso tempo, qualcosa di simile alla critica delle armi che diventa arma della critica, e si cava fuori da un’affermazione apparentemente chiara tutto quello che passa per la testa in quel momento. Avete presente il senso di disillusione che si ha quando, rincorso inutilmente un autobus, ci si accorge che l’autista pur avendoci visto ha accelerato invece di fermarsi? Bene, in questo caso si può dimostrare, e Adorno mi pare che l’abbia fatto, che è proprio la frustrazione inconscia e remota causata dalla vita che fugge e che non riusciamo ad afferrare che viene a galla, e che ci spinge a desiderare di uccidere l’autista. Misteri della logica hegeliana. Così, quietamente, il fascismo diventa qualcosa di meno spregevole. Siccome dentro di noi, acquattato nell’angolo oscuro dell’istinto bestiale che ci fa aumentare le pulsazioni, sta un fascista incognito a se stesso, siamo portati a giustificare tutti i fascisti in nome del potenziale fascista che è in noi. Certo, gli estremismi no! Questo mai. Quei poveri Ebrei, nei forni! Ma furono poi proprio tanti a morirci dentro? Seriamente, persone degne del massimo rispetto, in nome di un malcompreso senso di giustizia, hanno messo in circolazione le stupidaggini di Faurisson. No, su questa strada è bene non andare avanti.

La volpe è intelligente e quindi ha molte ragioni dalla sua, e tante altre ancora può escogitarne, fino a dare l’impressione che il povero istrice sia senza argomenti, ma non è così.

La parola è un’arma micidiale. Scava dentro il cuore dell’uomo e vi insinua il dubbio. Quando la conoscenza è scarsa, e quelle poche nozioni che possediamo sembrano ballare in un mare in tempesta, cadiamo facilmente in preda agli equivoci generati da coloro che sono più bravi di noi con le parole. Per evitare casi del genere, i marxisti, da buoni programmatori delle coscienze altrui, in modo particolare del proletariato ingreggito, avevano suggerito l’equivalenza tra fascismo e manganello. Anche filosofi di tutto rispetto, come Gentile, dal lato opposto (ma opposto fino a che punto?), avevano suggerito che il manganello, agendo sulla volontà, è anch’esso un mezzo etico, in quanto costruisce la futura simbiosi tra Stato e individuo, in quell’Unità superiore che è lo scopo dell’atto singolo come di quello collettivo. Qui si vede, sia detto tra parentesi, come marxisti e fascisti provengano dal medesimo ceppo idealista, con tutte le conseguenze pratiche del caso: lager compresi. Ma, andiamo avanti. No. Il fascismo non è solo manganello, e non è nemmeno soltanto Pound, Céline, Mishima o Cioran. Non è nulla di tutti questi elementi e di altri ancora singolarmente presi, ma è l’insieme di tutto questo. Non è la ribellione di un individuo isolato, che sceglie la sua personale lotta contro gli altri, tutti gli altri, a volte Stato compreso, e che ci può anche attirare per quella simpatia umana che abbiamo verso tutti i ribelli, anche per quelli scomodi. No, non è lui il fascismo. Non è quindi che difendendo la sua personale rivolta possiamo revocare in dubbio la viscerale nostra avversione verso il fascismo. Anzi spesso, immedesimandoci in queste difese singole, attratti dalla vicenda del coraggio e dell’impegno individuale, confondiamo ancora di più le idee nostre e di coloro che ci ascoltano, determinando inutili tempeste in bicchieri d’acqua.

Le parole ci uccidono, se non facciamo attenzione.

Per il potere, il fascismo nudo e crudo, così come si è concretizzato storicamente in periodi storici e in regimi dittatoriali, non è più un concetto politico praticabile. Nuovi strumenti si affacciano sulla soglia della pratica gestionaria del potere. Lasciamolo quindi ai denti acuminati degli storici, che se lo rosicchino quanto parrà loro. Anche come ingiuria, o accusa politica, il fascismo è fuori moda. Quando una parola viene usata in tono dispregiativo da chi gestisce il potere, non possiamo farne un uso uguale anche noi. E siccome questa parola, e il relativo concetto, ci fanno schifo, sarebbe bene mettere l’una e l’altro nella soffitta degli orrori della storia e non pensarci più.

Non pensarci più alla parola e al concetto, non a quello che quella e questo significano mutando vestito lessicale e composizione logica. È su questo che bisogna continuare a riflettere per prepararsi ad agire. Guardarsi oggi attorno per cercare il fascista, può essere uno sport piacevole, ma potrebbe anche nascondere l’inconscia intenzione di non volere andare al fondo della realtà, dietro la fitta trama di un tessuto di potere che diventa sempre più complicato e difficile da interpretare.

Capisco l’antifascismo. Sono anch’io un antifascista, ma i miei motivi non sono gli stessi di tanti altri che ho sentito in passato e continuo a sentire anche oggi, definirsi antifascisti. Per molti, vent’anni fa, il fascismo lo si doveva combattere dov’era al potere. In Spagna, poniamo, in Portogallo, in Grecia, in Cile, ecc. Quando in quei Paesi al vecchio regime fascista subentrò il nuovo regime democratico, l’antifascismo di tanti ferocissimi oppositori si spense. In quel momento mi accorsi che quei miei vecchi compagni di percorso avevano un antifascismo diverso dal mio. Per me non era cambiato granché. Quello che facevamo in Grecia, in Spagna, nelle colonie portoghesi e in altri Paesi, lo si poteva fare anche dopo, anche quando lo Stato democratico aveva preso il sopravvento, ereditando i passati successi del vecchio fascismo. Ma non tutti erano d’accordo.

Capisco i vecchi antifascisti, la “resistenza”, i ricordi della montagna, e tutto il resto. Bisogna sapere ascoltare i vecchi compagni che ricordano le loro avventure, e le tragedie, e i tanti morti ammazzati dai fascisti e le violenze e tutto il resto. «Ma, diceva ancora Tolstoj, l’individuo che recita una parte negli avvenimenti storici mai comprende il loro significato. Se tenta di capirlo diventa un elemento sterile». Capisco meno coloro che senza avere vissuto quelle esperienze, e quindi senza trovarsi per forza di cose prigionieri di quelle emozioni anche a distanza di mezzo secolo, mutuano spiegazioni che non hanno ragione di esistere e che spesso costituiscono un semplice paravento per qualificarsi.

– Io sono antifascista! Mi buttano in faccia l’affermazione come una dichiarazione di guerra, e tu?

In questi casi mi viene quasi sempre spontanea la risposta. – No, io non sono antifascista. Non sono antifascista come puoi esserlo tu. Non sono antifascista perché i fascisti sono andato a combatterli sul loro territorio quanto tu eri al calduccio della democratica nazione italiana che però mandava al governo i mafiosi di Scelba, di Andreotti e di Cossiga. Non sono antifascista perché ho continuato a combattere contro la democrazia che aveva sostituito quei fascismi ormai da operetta, impiegando mezzi di repressione più moderni e quindi, se vogliamo, più fascisti del fascismo che li aveva preceduti. Non sono antifascista perché anche oggi cerco di individuare l’attuale detentore del potere e non mi faccio abbagliare da etichette e da simboli, mentre tu continui a dirti antifascista per avere la giustificazione per scendere in piazza a nasconderti dietro lo striscione dove c’è scritto “Abbasso il fascismo!”. Certo, se avessi avuto più dei miei otto anni all’epoca della “resistenza”, forse anch’io mi farei adesso travolgere dai ricordi e dalle antiche passioni giovanili e non sarei tanto lucido. Ma penso di no. Perché, se ben si scrutano i fatti, anche fra la congerie confusa e anonima dell’antifascismo da schieramento politico, c’erano coloro che non si adeguavano, che andavano oltre, che continuavano, che insistevano ben al di là del “cessate il fuoco!”. Perché la lotta, a vita e a morte, non è solo contro il fascista di ieri o di oggi, quello che si mette addosso la camicia nera, ma anche e fondamentalmente contro il potere che ci opprime, con tutte le sue strutture di sostegno che lo rendono possibile, anche quando questo potere si veste degli abiti permissivi e tolleranti della democrazia.

– Ma allora, potevi dirlo subito! — qualcuno potrebbe rispondermi cogliendomi in fallo, — anche tu sei antifascista. E come poteva essere diversamente? Sei un anarchico, quindi sei antifascista! Non stancarci con le tue distinzioni.
E invece penso sia utile distinguere. A me il fascista non è mai piaciuto, e di conseguenza il fascismo come fatto progettuale, per altri motivi, che poi, una volta approfonditi, risultano gli stessi motivi per cui non è mai piaciuto il democratico, il liberale, il repubblicano, il gollista, il laburista, il marxista, il comunista, il socialista e tutti gli altri. Contro di loro io ho opposto non tanto il mio essere anarchico, ma il mio essere diverso, e quindi anarchico. Prima di tutto la mia diversità individuale, il mio modo personale, mio e di nessun altro, d’intendere la vita, di capirla e quindi di viverla, di provare emozioni, di cercare, scrutare, scoprire, sperimentare, amare. All’interno di questo mio mondo permetto l’ingresso soltanto a quelle idee e a quelle persone che mi aggradano, il resto lo tengo lontano, con le buone e con le cattive maniere. Non mi difendo, ma attacco. Non sono un pacifista, e non aspetto che venga superato il livello di guardia, cerco di prendere io l’iniziativa contro tutti quelli che, sia pure potenzialmente, potrebbero costituire un pericolo per il mio modo di vivere la vita. E di questo modo di vivere fa parte anche il bisogno degli altri, il desiderio degli altri. Non degli altri in quanto entità metafisica, ma degli altri ben identificati, di coloro che hanno affinità con quel mio modo di vivere e di essere. E questa affinità non è un fatto statico, sigillato una volta per tutte, ma un fatto dinamico, che si modifica e cresce, si allarga via via sempre di più, richiamando altre idee e altri uomini al suo interno, intessendo un tessuto di relazioni immenso e variegato, dove però la costante resta sempre quella del mio modo di essere e di vivere, con tutte le sue variazioni ed evoluzioni.

Ho attraversato in ogni senso il regno degli uomini, e non ho ancora capito dove potrei posare con soddisfazione la mia ansia di conoscenza, di diversità, di passione sconvolgente, di sogno, di amante innamorato dell’amore. Dappertutto ho visto potenzialità immense lasciarsi schiacciare dall’inettitudine e poche capacità sbocciare al sole della costanza e dell’impegno. Ma fin dove fiorisce l’apertura verso il diverso, verso la disponibilità ad essere penetrati e a penetrare, fin dove non c’è paura dell’altro, ma coscienza dei propri limiti e delle proprie capacità, quindi accettazione dei limiti e delle capacità dell’altro, c’è affinità possibile, possibile sogno d’una impresa comune, duratura, eterna, al di là delle umane approssimazioni contingenti.

Muovendomi verso l’esterno, verso territori sempre più distanti da quello che ho descritto, le affinità si affievoliscono e scompaiono. Ed ecco gli estranei, coloro che portano i propri sentimenti come decorazioni, coloro che mostrando i muscoli fanno di tutto per sembrare affascinanti. E, ancora più in là, i segni della potenza, i luoghi e gli uomini del potere, della vitalità coatta, dell’idolatria che assomiglia ma non è, dell’incendio che non scalda, del monologo, della chiacchiera, del chiasso, dell’utile che tutto misura e tutto pesa.

È da ciò che mi mantengo lontano, ed è questo il mio antifascismo.

Alfredo Maria Bonanno, tratto da "Anarchismo", n. 74, settembre 1994