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E' uscito l'opuscolo "Fuorirotta. Raccolta di testi sulla rivolta di Genova e su chi cercò di governarla".

Per info e copie scrivere a chrysaora@autistici.org

Qui sotto puoi vedere la copertina e la quarta di copertina:

https://csakavarna.org/wp-content/uploads/2021/07/copertina.pdf

Dall'introduzione:

Da dove ripartire?
La memoria può quindi restare viva, senza diventare simbolo o liturgia, finché resta collegata con un desiderio vitale di conflittualità permanente, autogestione della lotta e attacco. Se l’agire diventa fare, semplice ripetizione di schemi slegati da un progetto più complesso, allora è meglio che lasciamo perdere. Già tanta parte della nostra vita perde di senso che aumentare il vuoto che ci circonda significa soltanto farsi del male da soli.
Lo stesso accade per quel che riguarda la solidarietà nei confronti di chi subisce la repressione. Quanto ci interroghiamo su cosa significa proseguire l’impegno e le lotte interrotte dal potere e quanto invece ci dedichiamo a scrivere e distribuire dei volantini standardizzati dove scriviamo banalmente sempre le solite cose in un triste ripetersi sempre uguale a sé stesso?
Similmente, quando ci confrontiamo con contesti eterogenei, quanta fantasia mettiamo nel far trasparire la progettualità anarchica del nostro agire o nel rendere evidente la nostra insofferenza alle gerarchie, formali quanto informali? L’ostilità per il recupero e per l’autorità si riflette nel modo in cui ci rapportiamo con le persone che stanno conducendo delle lotte altre o pensiamo davvero che stare in situazioni gestite e determinate da altri possa in qualche modo arricchirci?
Tutto questo è ciò di cui ci parla la rivolta avvenuta durante il G8, come anche molti dei tentativi passati di insubordinazione.
Tutto questo è ciò che potrebbe suggerirci nuove pratiche di libertà da sperimentare. Alcune di queste sperimentazioni di libertà avvengono ancora, come ci rammenta il recente attacco al Polo tecnologico degli Erzelli a
Genova. Altre speriamo di continuare a scorgerle, con l'augurio che anche infami e recuperatori del ventennale genovese possano incontrare ostacoli sulla loro strada. A Genova come altrove.
La scelta sta ad ognuno di noi, per sé stessi e per la propria sensibilità.
Il pensiero fa male, a volte, ma solo la nostra coscienza ci può giudicare.
Nessun altro.

G8 Genova - 20 Luglio 2001 | Carlo Giuliani a Genova - 20 Lu… | Flickr

Genova, G8, luglio 2001:

Tanti i ruoli rappresentati, l'autenticità è condannata

SABBIA. Ecco ciò che ci offusca la vista, facendoci vivere in una fantasmagoria in cui tutto sembra vivo e nulla è reale. Ci perdiamo in un rapido alternarsi di immagini stranamente vivide e attraenti, facendoci trasportare dal loro potere ipnotico. Quella che raccontiamo non è forse una storia di fantasmi, di ombre scambiate per prede, di specchi deformanti considerati occhiali della verità? E lo è stata fin dall’inizio.

Pensiamo al neoliberismo contro cui lanciano i propri strali le anime belle della sinistra. Invece di criticare l’organizzazione sociale che riduce l’essere umano a merce e pone l’universo e la vita agli ordini dell’economia, ci si lamenta per un dettaglio della sua politica, finendo col battersi per un capitalismo locale, possibilmente dal volto umano. Come se ciò che si desidera fosse solo consumare merci prodotte sotto casa.

E che dire dei vertici dei potenti della Terra? Appuntamenti mediatici, in cui nulla di concreto viene stabilito giacché chi vi partecipa si limita a formalizzare e a rendere pubbliche decisioni già prese altrove. Con questi incontri, i “nostri” rappresentanti intendono dimostrare che non esiste nessuna politica prestabilita, nessun centro direttivo, che tutto è sempre aperto: basta mettersi in fila, farsi avanti e discutere civilmente. Laddove è noto da tempo che non è più questione di se, ma solo di quando come.

La stessa evanescenza affligge anche i controvertici, in tutte le loro manifestazioni. A questo ameno attivismo militante si dedicano tutti i racket politici che seguono gli spostamenti dei capi di governo e dei loro ministri come il cane segue il proprio padrone, cercando in tutti i modi di attirarne l’attenzione. Come se il dominio non fosse espressione dei rapporti sociali ma dipendesse dalla volontà di un pugno di rappresentanti di Stato, su cui occorre per questo esercitare una certa pressione. Come se bastasse sedere a quel tavolo, o farci finire sopra la relazione giusta, per porre fine allo sfruttamento e all’insensatezza dell’esistenza umana.

La lanterna magica da cui ridondano tutte queste immagini, sgargianti nella loro inconsistenza, si trovava qui in Italia alcuni anni fa in occasione del G8 e dalle sue proiezioni non ci si aspettava granché, da tanto il canovaccio sembrava scontato. Se non fosse stato che... a furia di rappresentarla, simularla, demonizzarla, la rivolta si è scatenata davvero per le strade di Genova, quel venerdì 20 luglio del 2001. Una rivolta furiosa che ha saputo resistere per ore alle cariche della repressione, ma che ha ceduto in fretta sotto i colpi del chiacchiericcio mediatico, del commento sociologico, del distinguo militante, dell’inquisizione poliziesca e giudiziaria. Sepolta sotto una montagna di sabbia, la sabbia del presente. È ora di cominciare a pulirsi gli occhi.

Dopo gli altri paesi... spettava all’Italia ospitare il raduno dei politici più potenti del mondo e dei loro pseudo oppositori. Tutto doveva filare alla perfezione, nulla poteva essere trascurato. I bellicosi proclami dei contestatori da avanspettacolo erano enfatizzati dalla stampa assieme alla probabile minaccia del «terrorismo internazionale». Anche se nessuno credeva davvero alle parole dell’autonominatosi tribuno del popolo Casarini, la cui retorica pseudoguerrigliera faceva scorrere più lacrime di risate che brividi di paura; anche se nessuno credeva sul serio a possibili incursioni di kamikaze arabi; il clima si era fatto rovente. Il governo affrontò la questione prendendo misure marziali. Nell’Italia di Berlusconi, Fini e Bossi, una città come Genova è stata messa in ginocchio attraverso una militarizzazione del territorio senza precedenti. Tutti i corpi armati dello Stato erano confluiti nel capoluogo ligure per pattugliarlo. Erano stati istituiti posti di blocco, ordinati sacchi dove rinchiudere eventuali morti, piazzati tiratori scelti sui tetti e sommozzatori in mare. Era stato predisposto un autentico centro di torture per prigionieri, a Bolzaneto, la cui gestione fu assegnata ai gentiluomini della squadra speciale antisommossa carceraria (il GOM, ideato dal nostalgico Diliberto). Mentre il compito di garantire l’ordine pubblico fu affidato principalmente all’Arma dei carabinieri, i quali formarono per l’occasione i CCIR (contingenti compagnie ad intervento risolutivo), costituiti da militari diretti da ufficiali del corpo d’elite “Tuscania”, già attivi in missioni belliche all’estero — benché anche la Polizia non abbia mancato di distinguersi nella sua opera repressiva. Da parte dello Stato non ci si preparava a contenere una contestazione, quanto ad affrontare una guerra. Non si trattava di controllare manifestanti, ma di fare piazza pulita di nemici. A Genova lo Stato ha sperimentato per la prima volta in maniera sistematica, esplicita, diffusa, e contro la propria popolazione, la logica militare che presiede le missioni internazionali. A dimostrazione di come, in un mondo unificato dalla religione del denaro, la linea di demarcazione fra nemici esterni e nemici interni vada scomparendo. Dopo tutto, se la guerra viene considerata una operazione di polizia, un’operazione di polizia può ben considerarsi una guerra.

Il campo di battaglia previsto è quello che si snoda attorno alla “zona rossa”. È qui, sotto i cancelli e le staccionate eretti a protezione della sede del vertice, che si attendono gli assalti dei manifestanti. È qui che i capetti della contestazione mediata e mediatica hanno chiamato a raccolta le loro truppe cammellate. È qui che sono concentrati anche i cani da guardia del dominio per respingere la pressione dei sudditi scontenti venuti ad elemosinare i propri inesistenti diritti. Tutto sembra pronto. Una moltitudine di rispettosi cittadini che grida le proprie ragioni, le forze dell’ordine assoldate per respingerle, la scaramuccia concordata a tavolino per evocare ed esorcizzare lo spettro dello scontro, i giornalisti accorsi da tutto il mondo, gli applausi finali perché alla fine tutto deve svolgersi tranquillamente, vertice e controvertice. Nulla di tutto ciò accadrà.

Da parte delle istituzioni non c’è una reale intenzione di evitare lo scontro, quanto la precisa volontà di dare una lezione indimenticabile agli ingrati consumatori del benessere occidentale; da parte del movimento, di una parte di esso, c’è chi preferisce essere protagonista di una ribellione esplicita contro i cosiddetti Signori della Terra piuttosto che fare da spettatore o comparsa di un’agitata sceneggiata a beneficio dei mass media. Così, attorno alla “zona rossa” i rivoltosi non si faranno vedere, preferendo disertare lo scontro virtuale concordato con le istituzioni per andare a cercare lo scontro reale, quello senza mediazioni. Parecchie centinaia di nemici di questo mondo, assai diversi fra loro, senza capi né gregari, senza testa né coda, decidono di rifiutare l’appuntamento prestabilito con la politica per recarsi a quello al buio coi propri desideri. Pur presentandosi nella città e nella data stabilite dall’agenda istituzionale, andranno dove non sono attesi. Anziché lanciarsi a testa bassa verso un supposto cuore del dominio preferiranno muoversi altrove, ben sapendo che il dominio non possiede alcun cuore perché si trova dappertutto. Gli spazi fisici dove si pratica il culto del denaro, dove aleggia il fetore della merce, dove si ode la menzogna del commercio — e non i meri “simboli” del capitalismo come preteso dalla sinistra vulgata degli adoratori dell’esistente — subiranno la critica pratica dell’azione: le banche saranno prese d’assalto, i supermercati saccheggiati, le agenzie finanziarie attaccate.

Nel loro procedere, con il passare delle ore e il montare della rivolta, i flussi dei rivoltosi si trasformano quanto a composizione (con passanti e curiosi che si uniscono ad essi) modificando l’ambiente circostante. Dopo il loro passaggio, nulla è più come prima. Le auto, da scatole mobili che trasportano i lavoratori alla loro condanna quotidiana, diventano giocattoli con cui divertirsi e barricate con cui fermare la polizia. Le sirene pubblicitarie sono messe a tacere. Gli occhi elettronici accecati. I giornalisti allontanati. I saccheggi trasformano le merci da pagare appannaggio di pochi in beni gratuiti a disposizione di tutti. Attraverso scritte colorate le mura si liberano del loro sconfortante grigiore. Le strade, i cantieri, i palazzi vengono usati come arsenali. L’urbanistica, modellata sulle esigenze dell’economia e perfezionata dagli imperativi del controllo, si scioglie sotto il fuoco della sommossa. In tutti questi atti i rivoltosi ritrovano l’autentica abbondanza, quella che non viene né contemplata in astratto, né scambiata contro l’umiliazione del lavoro. Molte volte si scontreranno con le forze dell’ordine, non di rado sapranno evitarle. Come sempre accade nei momenti di rottura con l’esistente, l’euforia comincia a dilagare ed il buon senso smette d’essere moneta corrente. Ben presto l’impossibile diventa possibile: il carcere di Marassi, in buona parte svuotato per lasciare spazio ad eventuali arrestati, viene attaccato. Stessa sorte tocca ad una caserma dei carabinieri. Da parte loro, gli uomini in divisa dispiegano tutta la violenza di cui sono capaci.

Chi ha accusato i rivoltosi nerovestiti di aver provocato la repressione farebbe meglio a prendere atto che fin dall’inizio le cariche sono state indiscriminate e hanno travolto chiunque, coinvolgendo spesso e volentieri pacifici manifestanti. Ciò significa che l’operato di polizia e carabinieri era già stato previsto ed organizzato, come forma preventiva di dissuasione nei confronti di tutti. Non è stato affatto il risultato di un eccesso di zelo, di troppo nervosismo o di inesperienza, ma il vero volto del terrorismo di Stato senza freni, che ha lanciato a folle velocità i suoi veicoli blindati contro i manifestanti inerti. Sotto un diluvio di lacrimogeni sparati perfino dagli elicotteri, le strade hanno cominciato a coprirsi del sangue di centinaia e centinaia di manifestanti. È stato proprio questo a determinare l’esplosione della rivolta. Fino a quel momento le devastazioni dei rivoltosi non erano andate molto più in là di quanto già accaduto nelle occasioni precedenti, la prevista azione diretta ad opera di qualche centinaio di compagni che approfittavano della situazione. Ma proprio ciò che avrebbe dovuto fermarla, l’intervento poliziesco, ha finito per alimentarla. La brutalità degli uomini in divisa ha portato infatti ad una sollevazione generale. Nel giro di poco tempo, migliaia di manifestanti fino a quel momento pacifici, armati solo della loro rabbia, si uniranno ai rivoltosi iniziando a battersi contro la sbirraglia.

Fra gli stessi militanti dei racket politici i cui capi invitano alla calma, alla moderazione e alla non-violenza, si verificano molte insubordinazioni. L’ideologia della disobbedienza conosce i suoi primi disobbedienti. Di fronte alla ferocia della repressione, non c’è ordine di partito che possa tenere. Sordi agli appelli dei loro capetti che li invitano a non reagire, molti Disobbedienti iniziano a battersi contro gli uomini in divisa, con l’aiuto di altri manifestanti accorsi per fronteggiare chi li sta attaccando. È proprio riconoscendo nel momento dell’attacco il nemico comune che i rivoltosi si riconoscono immediatamente fra di loro, rompendo l’isolamento della «folla solitaria», poiché la rottura con la noia e l’angoscia della sopravvivenza ha il merito di svelare gli individui a se stessi e agli altri. Poco importa quali motivi contingenti producano una simile situazione. Resta il fatto che quel 20 luglio per alcune ore non ci sono più violenti o non-violenti, uomini o donne, socialdemocratici o anarchici, militanti o gente comune, geometri o disoccupati, ma solo individui in rivolta contro i cani da guardia dell’esistente e la vita che viene imposta.

Gli scontri con le forze dell’ordine si moltiplicano, dappertutto giungono manifestanti pronti a scagliarsi contro le forze dell’ordine, ed è durante uno di questi scontri che viene abbattuto Carlo Giuliani. Non è un “black bloc”. Non è un anarchico. Non è un provocatore. Non è un infiltrato. È solo un giovane che ha deciso di reagire alla violenza dello Stato. Non uno dei pochi, ma uno dei tanti. Ed è bene chiarire questo aspetto. Nei giorni successivi, tutti i politici in carriera che infestano il movimento prenderanno inizialmente le distanze, accusando i rivoltosi di essere un pugno di «provocatori» e «infiltrati» che con le loro azioni hanno sabotato intenzionalmente un grande appuntamento pacifico, facendo perdere un’occasione storica di venire ascoltati.

Tutta la marmaglia socialdemocratica — la stessa che fino ad allora aveva sollevato tanta polvere e rumore e che per questo credeva d’essere il carro della storia — riverserà loro addosso un mare di calunnie, rinverdendo la vecchia tradizione stalinista della «caccia agli untorelli». È questo un modo di sfogare il proprio rancore contro chi ha deciso di sfuggire al loro controllo, rivelando a tutti la falsità della loro pretesa autorevolezza. È un modo di chiudere gli occhi di fronte alla fine del loro progetto politico, la cui vanagloriosa inconsistenza è apparsa alla fine di quelle giornate in tutta la sua miseria, cercando pateticamente di rilanciarlo. Il giorno successivo, sabato 21 luglio, scatterà da parte di una polizia scatenata nella sua assoluta certezza di impunità l’attacco alla scuola Diaz, dove tutti i presenti verranno massacrati dagli agenti inferociti.

In realtà i rivoltosi che a Genova si sono battuti contro le forze del vecchio mondo erano davvero numerosi. Anarchici, ma non solo. Nerovestiti, ma non solo. Stranieri, ma non solo. Il sapore della libertà non conosce limiti, etichette, uniformi o confini. E chi tanto si è indignato che centinaia di compagni si fossero recati a Genova con l’intenzione di scatenare una sommossa, dandosi un minimo di preparazione in tal senso e cercando di evitare la trappola dello scontro diretto con la polizia, dovrebbe riflettere maggiormente su chi ha eccitato gli animi per mesi promettendo assalti e invasioni senza avere l’intenzione di realizzarli, senza curarsi minimamente delle possibili conseguenze, su chi ha alzato al cielo le bianche mani della non-violenza, in segno di resa e non di dignità, contribuendo a mandare allo sbaraglio migliaia di manifestanti inermi.

Finita la rivolta, è iniziato il suo commentario da parte di giornalisti, specialisti, periti. E più aumentavano le testimonianze e le interpretazioni di quanto avvenuto, più diminuiva la sua cristallina chiarezza. La rivolta di Genova, nella sua viva totalità, è stata sezionata e smembrata in tante piccole particelle. La burocrazia del dettaglio ha spazzato via l’immediatezza del significato.

Un esempio per tutti, l’inchiesta sulla morte di Carlo Giuliani. Chi ha sparato? Con quale arma? Da quale distanza? Quanti colpi? Il defender era davvero isolato rispetto agli altri carabinieri? Rivediamo le immagini, rimisuriamo le distanze, rileggiamo i rapporti... una, due, tre, infinite volte, tante quanto basta per assordare le orecchie, chiudere gli occhi, sfinire il cervello, annegare il fatto originario nell’alta marea del più insulso opinionismo. Fare in modo che non si rifletta più sulla morte di un giovane abbattuto durante una manifestazione di protesta, ma che ci si concentri sulla effettiva provenienza dell’estintore che aveva in mano. Questo stesso procedimento di banalizzazione è stato utilizzato anche per il resto, dalle torture inflitte a Bolzaneto all’irruzione notturna alla Diaz; tutto è stato sbriciolato e ridotto in polvere affinché nulla si potesse più vedere. Naturalmente questa poderosa opera di mistificazione è stata condotta nel nome della Verità. La stessa verità che molti pretendevano si facesse largo in un’aula di tribunale. Sono piovute denunce contro i massacratori e torturatori in divisa. Gli avvocati si sono mobilitati. Sono stati raccolti centinaia di video che avrebbero dovuto infine mostrare cosa fosse veramente accaduto. Sì, perché la rivolta di Genova è stato l’avvenimento più fotografato della storia. Sbirri da una parte, mediattivisti dall’altra, giornalisti in mezzo, tutti si sono lanciati in una folle gara per immortalare le azioni degli altri. La rappresentazione, prima di tutto. Per i posteri. Perché si sappia. Perché qualcuno paghi. Perché la giustizia trionfi.

Eppure, tutti sanno cosa è veramente accaduto. È inciso in maniera indelebile nella memoria e nella carne di migliaia di manifestanti presenti. E proprio Genova ha dimostrato l’assoluta inutilità pratica, spesso la pericolosità, di macchine fotografiche e videocamere. A parte la polizia, che ne ha tratto profitto identificando e denunciando molti rivoltosi, compito che le è stato facilitato dall’onnipresenza di portatori di teleobiettivi, e a parte i giornalisti, che hanno incassato lo stipendio per il lavoro svolto, a cosa sono servite tutte quelle riprese? A che pro far vedere a tutto il mondo il vicecapo della Digos di Genova, Alessandro Perugini, mentre sferra un calcio in pieno volto ad un ragazzo steso a terra immobilizzato dai suoi colleghi? Forse che costui, colto sul fatto, è stato poi messo in condizione di non ripetere più la sua impresa? Un tribunale lo ha condannato, espellendolo dalla polizia per sostituirlo con un poliziotto beneducato e rispettoso della Costituzione? Niente affatto, anzi, con umorismo piuttosto macabro lo Stato ha nominato il signor Perugini rappresentante per l’Italia di una campagna internazionale contro la tortura nel mondo. Così come ha successivamente promosso molti degli aguzzini in divisa che si sono esibiti in quelle giornate.

La convinzione che basti mostrare i soprusi del potere per metterlo in ginocchio è un’illusione ideologica, meritevole di sparire come tutte le ideologie. Erede diretto della vecchia controinformazione, il moderno mediattivismo coltiva una cieca fiducia più nelle virtù taumaturgiche dell’immagine che in quelle della parola. Ma entrambe si basano sul presupposto che, una volta rivelata la verità dei fatti, le menzogne della propaganda saranno infine messe a tacere. Chissà come sono rimasti male, quei poveri idealisti che credono nella luce che sconfigge le tenebre, alla notizia che osservando i filmati un perito della magistratura ha ipotizzato nientemeno che un sasso lanciato da un manifestante poteva aver deviato il proiettile che ha ucciso Carlo Giuliani. È proprio vero che in una immagine ognuno può far vedere ciò che vuole. E in una competizione di immagini e chiacchiere, fra i media alternativi e quelli istituzionali, è inutile nascondere che a vincere saranno sempre i secondi. Una volta per tutte. — Macchine fotografiche e telecamere sono strumenti indispensabili solo a poliziotti e giornalisti (che poi hanno la medesima funzione): nessun altro ne ha bisogno, men che meno chi la rivolta la vuole assaporare in prima persona invece di limitarsi a immortalare quella altrui (o a farsi immortalare, come un turista della rivoluzione che ferma «i momenti belli della vita» per conservarli in qualche polveroso album di ricordi).

Così come non c’è da attendersi nessuna verità da una immagine, non c’è da aspettarsi nessuna giustizia da un verdetto. I tribunali sono istituzioni di quello stesso Stato che ha ordinato il massacro avvenuto a Genova. Perché mai i magistrati dovrebbero condannare uomini che sono al loro servizio? Meglio coprirne l’operato sotto la coltre di qualche cavillo giuridico come una prescrizione.

Sbarazziamoci del pio luogo comune propiziatore di garanzie che pretende esista una differenza fra Stato di diritto e Stato di fatto, come fossero due entità che è necessario far coincidere per ottenere giustizia. Lo Stato inventa il suo diritto e lo applica e modifica come meglio crede, ben sapendo che si tratta solo di carta straccia buona per gli allocchi. I torturatori che a Bolzaneto hanno strappato le carte di identità agli arrestati gridando «qui non avete diritti, siete nessuno!» hanno solo espresso con sincerità la natura dello Stato, quello di cui sono i servi obbedienti e leali. Qualsiasi perizia, controinchiesta o verdetto, non potranno mai riconoscere questa banalità: che lo Stato a Genova ha mostrato il suo vero volto. Che la nostra incolumità dipende dal nostro servilismo. Che chi si oppone ai voleri dello Stato è un nemico da eliminare. Nel loro delirio di onnipotenza e nella loro isteria securitaria, gli Stati pongono a tutti un’alternativa secca: o si è fedeli sudditi, a cui al massimo è concesso di esprimere, a bassa voce e col dovuto rispetto, il proprio disaccordo; o si è terroristi destinati al macero e alla galera. O strisciare o crepare. Che si occupino spazi vuoti o si blocchino strade e treni, che si infrangano vetrine o si rubi per non lavorare, che si manifesti il proprio dissenso o si abbattano funzionari statali, poco importa: qualsiasi atto può essere legittimamente considerato terroristico, con tutto ciò che questo comporta. Definendo in tal modo chiunque non si assoggetta volontariamente, lo Stato intende celare la propria natura terrorista.

Ma i magistrati di Genova sono riusciti ad andare oltre: hanno introdotto il delitto di “compartecipazione psichica”, secondo il quale non occorre più prendere parte ad una rivolta per finire nel mirino della repressione, basta essere presenti ai fatti. Chi non vuole passare qualche guaio non deve solo astenersi dal lanciare pietre o spaccare vetrine, ma deve farsi poliziotto e controllare attivamente gli altri. Altrimenti può venire incriminato come complice. Ossequioso suddito e potenziale sbirro: ecco come deve essere, nelle fantasie di chi ci governa, il cittadino ideale del nuovo millennio.

Tutto ciò, pur gettando una luce inquietante sulle lotte future, contribuisce a liquidare un’antica falsa questione che attanaglia molte coscienze: quella sulla violenza/non-violenza. Ormai è lo Stato stesso a dichiarare che a scatenare la repressione non è l’uso della violenza, come pretendono i placidi credenti in un miracolo emancipatore, ma bastano le motivazioni che animano i suoi oppositori. Ciò che è intollerabile è che si possa aspirare ad una vita radicalmente diversa, che lo si affermi e ci si batta per questo. Stando così le cose, chi si può dire al di sopra di ogni sospetto? Se è lo Stato medesimo ad accantonare la questione della violenza, che senso ha continuare a sbandierarla come linea di demarcazione fra “compagni” e “provocatori”? Ecco che allora l’uso della violenza torna ad essere ciò che in realtà è sempre stato: una scelta individuale, dettata dalle prospettive, dalle circostanze, dalle attitudini di chi la mette in pratica. Anche perché, se le ragioni della distruzione di questa società sono sotto gli occhi di tutti, quelli della sua conservazione, o anche della convivenza con essa, sono decisamente meno chiare. Chi può scagliare l’anatema contro coloro che a Genova hanno fatto strage di vetrine? Non certo chi ha fatto strage di ossa, di teste e di denti. Né chi si indigna per le aiuole calpestate e poi considera normali i morti sul lavoro. Ma nemmeno chi vuole invadere la “zona rossa” del privilegio partendo dalla “zona grigia” del collaborazionismo. Se chi attacca una banca è un provocatore infiltrato, come si può definire chi contratta a nome di tutti con un questore, chi calca nei più svariati modi il palcoscenico della rappresentazione, chi diventa parlamentare, chi è ormai ingranaggio delle istituzioni? Lo Stato può sempre contare su schiere di servitori pronti ad ammazzare e di elettori pronti a farsi ammazzare; ed oggi ha presentato ad alcuni compagni un conto assai salato per quegli attimi di libertà. Tuttavia la nostra strada, l’unica in grado di portarci in paesaggi fantastici e ad incontri segreti dove tutto è ancora possibile, non può passare né dalle aule di tribunale né dagli studi mediatici. Il culto della giustizia e quello della verità non avranno le nostre attenzioni.

E se ieri un appuntamento politico prettamente spettacolare è riuscito sotto l’incalzare degli avvenimenti a trasformarsi in una sommossa generalizzata, ciò non significa tenere d’occhio l’agenda del potere nella speranza di una replica. Perché non si può aspettare che il calendario ci dica che è carnevale, il solo giorno in cui ogni scherzo vale, per accendere un fiammifero allo scopo di sciogliere il ghiaccio sociale in cui siamo ibernati.

scritto nel 2003, pubblicato su Machete n. 1 nel gennaio 2008

CON NATASCIA IN SCIOPERO DELLA FAME.

CON TUTTI I DETENUTI E LE DETENUTE DEL CARCERE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE.

Nel Carcere Santa Maria Capua Vetere il 6 luglio 2020 centinaia di detenuti sono stati MASSACRATI dalle guardie, per volontà della direttrice Elisabetta Palmieri e del provveditore dell’amministrazione penitenziaria campano Antonio Fullone e dell’allora Ministro della giustizia Bonafede.

Nei filmati che in questi giorni vediamo in TV sembra emergere una violenza inedita: vediamo detenuti fatti inginocchiare, con le mani dietro la testa e il capo appoggiato al muro. Vengono loro inferte dalle guardie a volto coperto testate con i caschi, schiaffi, colpi inferti con il manganello sulle gambe e sulla schiena. E poi calci, e ancora calci anche contro chi già è steso a terra.

Nella cosiddetta “Mattanza della settimana santa” di certo lo Stato ha espresso un apice di inaudita violenza, ma saremmo ingenui e stupidi se non sapessimo scorgere la normalità su cui essa si fonda.

IL CARCERE UCCIDE OGNI GIORNO. Dai cosiddetti “suicidi” in galera, alle botte che passano sotto silenzio, agli atti di coraggio di chi alza la testa dietro le sbarre come i 5 detenuti che hanno parlato delle violenze e dei massacri perpetrati nelle carceri di Modena E Ascoli Piceno dopo le rivolte del marzo 2020. Queste cose le sappiamo, le dobbiamo sapere, prima che l’allarmismo massmediatico le riporti alla nostra attenzione tentando di gridare “allo scandalo”. Non è un’eccezione, è la schifosa normalità del potere.

Un colpo al cerchio, uno alla botte: dopo le rivolte del marzo scorso, finite con l’uccisione di 14 persone, con processi archiviati in meno di un anno a carico di chi ha ammazzato i detenuti con spari e botte (DETENUTI CHE CHIEDEVANO IL DIRITTO ALLA SALVAGUARDIA DELLA LORO SALUTE IN PIENA EMERGENZA COVID-19), ora lo Stato finge di processare sé stesso, mettendo alla sbarra 52 tra secondini e dirigenti della penitenziaria ai vertici della mattanza di S.M. Capua Vetere del 6 aprile 2020. Intanto centinaia di detenuti delle carceri di tutta Italia sono sotto processo con vari titoli di reato (tra cui devastazione e saccheggio) con l’accusa di aver partecipato a quei giorni di rivolta. E che rivolta sia.

Non è la giustizia di tribunale ciò che vogliamo, non perché siamo fuori dal mondo, ma perché siamo proprio coi piedi per terra. LA GIUSTIZIA NON È UGUALE PER TUTTI e non è a questa giustizia che ci dobbiamo appellare, ma a quella che abbiamo nei nostri cuori, nelle nostre mani, nelle verità che trascendono lo scandalo di un servizio giornalistico o di un processo.

A Santa Maria Capua Vetere è stata trasferita da 3 mesi anche una nostra compagna anarchica, Natascia.

Dal momento del suo arresto nel maggio 2019 è stata trasferita più volte, oltre ad aver subito la censura della corrispondenza e svariate altre forme di pressione interna. E’ chiara la volontà di giudici e carcerieri di allontanarla e isolarla dalla solidarietà di chi la sostiene da fuori e di fiaccare la sua determinazione. Quest’ultimo trasferimento assume una valenza ancor più indicativa poiché è avvenuto in prossimità dell’inizio del processo per l’Operazione Prometeo che vede Natascia imputata con altri 2 compagni, accusati di aver inviato buste esplosive all’allora direttore del DAP e ai due Pubblici Ministeri Sparagna e Rinaudo. Di fatto vogliono renderle impossibile organizzare la propria difesa, dato che il suo avvocato si trova a 1000 km di distanza e hanno 10 minuti di comunicazione telefonica al mese. La dispersione e l’isolamento sono da sempre strumenti utilizzati dai carcerieri per stremare l’animo di chi, nonostante sia rinchiuso, non vuole sottostare ai ricatti carcerari o sottoporsi ad alcun ravvedimento.

Natascia, prigioniera anarchica, è entrata in sciopero della fame il 16 giugno per opporsi al trasferimento nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. È determinata a proseguire questo sciopero, finché non verrà trasferita da quell’infame prigione.

Non è per creare scandalo che scriviamo questo, ma per senso di realtà. IL CARCERE È DI PER SÈ VIOLENZA, TORTURA, PRIVAZIONE. I trattamenti detentivi riservati ai prigionieri e alle prigioniere che non si chinano al ricatto sono l’ estrema dimostrazione di questo.

A ciascuno di noi sta dare un senso concreto alla solidarietà verso chi è rinchiuso e continua a lottare.

Contro l’isolamento e la dispersione dei prigionieri e delle prigioniere!
Contro i circuiti differenziati e i regimi speciali!

A fianco di Natascia e di tutti i prigionieri e le prigioniere!
Con i detenuti e le detenute del carcere di Santa Maria Capua Vetere

E MENO MALE CHE IN CAMPANIA SE MAGN’ BBUONO!

Ciao ragazzi!

Due righe di aggiornamento al volo.
Senza perdere un minuto, la notte successiva all’ultima udienza preliminare di Scintilla, mi hanno rimessa su un aereo per rispedirmi in questo postaccio di merda, S. Maria Capua Vetere. Sapevo che la trasferta al nord era solo un appoggio temporaneo, ma pensavo sinceramente che avrei avuto un po’ di tempo in più, così come ingenuamente speravo che avrebbero almeno letto le varie istanze presentate, da me e dall’avvocato, per la riassegnazione.

Dal giorno in cui mi hanno trasferita qui, 3 mesi fa, non ho più potuto comunicare decentemente con il mio avvocato: i colloqui sono stati riaperti, quindi niente video chiamate né chiamate su richiesta del legale, le telefonate sono 1 mensile di 10 minuti, anche per gli imputati  e anche per chi sta a 1.000 chilometri dalla sede del processo o da casa. Se è in vena, il direttore può concederne una seconda straordinaria nel corso dello stesso mese, ma ovviamente, in quanto concessione, non ha nessun obbligo di farlo, e in ogni caso è fuori discussione superare le due mensili. 20 minuti al mese, in una stanzetta soffocante, e nell’orario e giorno prestabiliti, augurandosi che il tuo difensore quel giorno sia in studio. 20 minuti al mese, da un mese e mezzo prima che iniziasse il processo, sino ad oggi, che il dibattimento è sostanzialmente giunto al termine. Ci restano 2 udienze, prima della requisitoria, 2 udienze in cui si sarebbe dovuto ragionare di dichiarazioni spontanee, esame e controesame, ma a quanto pare mi toccherà ragionare in solitaria. A pensar male, sembra quasi che si faccia di tutto per impedire una difesa “dignitosa”… anzi: una difesa qualunque… non sia mai che l’iperbolico e morbosetto castello di carte dell’accusa dovesse iniziare a scricchiolare. Molto meglio se questa possibilità, quella di difendersi in aula, è ridotta al lumicino. Non mi dilungherò qui su come la videoconferenza si sposi alla perfezione con questa strategia, di questo si è già discusso molto (anche se forse non abbastanza). Si sa, spesso a pensar male si pensa bene. Dei 20 giorni trascorsi a Vigevano, 15 li ho trascorsi in isolamento sanitario ed 1 in udienza, altri due a fare i bagagli tra andata e ritorno… insomma, nemmeno questa è stata un’occasione per parlare con l’avvocato, visto che gli isolati non possono ricevere visite. Inutile aggiungere che ora sono di nuovo in quarantena.

Insomma, bando alle ciance: lucidamente consapevole della strategia punitiva (e preventiva?) che sta ponendo in essere il DAP nei miei confronti, e contemporaneamente offuscata di rabbia e disgusto, ho deciso che, se non ho mezzi per interpormi concretamente alle loro logiche vendicative, ho perlomeno la possibilità di non lasciarglielo fare con la mia collaborazione. Alla notizia del mio ritorno a S. Maria, alle h. 18.00 del 16.06.21, ho immediatamente comunicato l’inizio di uno sciopero della fame a tempo indeterminato. So che queste decisioni non competono alla direzione del carcere, ma io in questo posto di merda non intendo più mangiare un boccone. E peccato, perché le compagne di gabbia fanno delle pizze… ma mi è passata proprio la fame! Ad oggi, nessun medico mi ha visitata né pesata.

Alle donne che ho intorno pare un po’ una sciocchezza, ‘na capata!, d’altronde qui c’è gente che rischia il fine pena MAI e si fa andar bene queste condizioni… ma anche questo è un altro discorso. So che alcuni di voi non hanno mai smesso di riflettere su isolamento e dispersione… mi dispiace non essere in grado di fornire nuovi spunti o idee “innovative”, ma in questo momento, in cui ho deciso molto di pancia di intraprendere questa nuova sfida, non sono riuscita a pensare a nulla di meglio che usare nuovamente il mio corpo, digiunando.

Vi ho scritto queste due righe di getto, sulla scia della stessa ondata emotiva, di ribrezzo assoluto, che mi ha invaso rivedendo queste mura di merda. Spero di non essere stata troppo confusionaria.

Vi abbraccio tutti con molta forza!

A pancia vuota e testa alta,
Salud y Anarquìa

Nat

PS:  Un piccolo appunto in merito al volantino di indizione del presidio del 13.06 a Vigevano. Per quanto ci si possa trovare male in un’AS3 e le condizioni possano essere afflittive, nel rispetto di chi ci sta veramente ci andrei con i piedi di piombo a fare paralleli con il 41 bis. E’ stato davvero un po’ fuori luogo, a mio avviso. Spero che nessuno si offenda per questo mio pensiero, ed è stato comunque bellissimo sentirvi!