A parte Stecco, che rimane dentro per altri definitivi, i compagni
arrestati il 19 febbraio sono da ieri ai domiciliari (con tutte le
restrizioni). Sasha, che era già ai domiciliari, ha l'obbligo di dimora
a Rovereto e il rientro a casa tra le 21 e le 7.
Qui di seguito una lettera di Stecco dal carcere di Tolmezzo:
Cari compagni e compagne,
è giunta l’ora di dire qualcosa riguardo a quello che è successo in febbraio.
Sono passati poco più di due mesi dal nostro arresto con l’operazione “Renata”, e posso dire di essere sereno e forte, sicuro come non mai che la lotta prosegue nonostante i colpi inferti dallo Stato.
Il mio arresto a Torino, nelle vicinanze di corso Giulio, è avvenuto intorno alle 17,00 in modo tranquillo. Mentre stavo lasciando il compagno con cui mi trovavo, avevo notato il tipico poliziotto in borghese davanti a me alla fermata del tram, pochi secondi dopo mi sono trovato circondato. Posso dire che tutto si è svolto con molta tranquillità, e mi vien da dire con una fastidiosa “gentilezza”, al contrario di come sono stati trattati i miei compagni e compagne in Trentino.
Prima di partire per Trento pensavo ancora che il mio fermo fosse legato a dei definitivi che aspettavo da tempo. Qualcosa di strano lo percepivo: troppa gente con stellette in quei corridoi della caserma di Torino. Solo alla prima visita dell’avvocato ho scoperto che il giorno stesso dell’arresto mi sono state confermate le misure alternative al carcere. Una casualità? Sta di fatto che attorno alle 20,00 mi consegnano alcune carte riguardo ad una perquisizione nei miei confronti e nella casa in cui vivo. Ovviamente ho notato i “nostri” fatidici 270 bis, 280 bis ed una sfilza di altri reati. Sul momento, date e luoghi elencati non erano comprensibili, ma comprensibile era la mia reazione. Mentre leggevo, non mi sono sorpreso di quello che stava accadendo; niente agitazione né batticuore, ma la semplice certezza delle mie idee e convinzioni, certezza di aver sempre lottato per degli ideali di giustizia, di libertà, di uguaglianza tra tutti gli uomini e le donne.
Così, con questa strana tranquillità, ho affrontato il viaggio ai 70 km all’ora fino a Trento con quattro Ros. Arrivati alla caserma di Trento intorno alle 2,00 di notte, ho capito subito la vastità dell’operazione. La caserma era un formicaio di uomini e donne in divisa e non, valigioni, carte e cartacce.
È la terza volta in 8 anni che lo Stato mi accusa di “terrorismo” assieme a tanti miei compagni e compagne, ed un po’ la trafila la conosco, anche se ’sta volta sono anch’io uno di quelli a finire in gattabuia. Quando ci hanno fatto uscire dalla caserma, tutto era preparato per bene: sirene e lampeggianti spiegati per le foto dei miseri giornalisti appostati lungo la strada. Ho capito che la caccia agli anarchici era studiata nei particolari più infami, in modo da far da grancassa a chi sta in alto, i cui discorsi contro la libertà – oggi tristemente appoggiati da gran parte degli sfruttati – vengono rafforzati e propagandati sotto la luce dei riflettori.
Un’altra convinzione che mi ha tenuto, e mi tiene, tranquillo, è che qualsiasi cosa mi fosse successo o mi succeda i miei compagni non solo ci sono, ma hanno la forza di reagire a questo nuovo attacco. Respirare, anche se per poco, l’aria di Torino mi ha dato forza. Quella forza che dai compagni e solidali di quella città si è trasmessa in tanti luoghi. Sentire un clima coeso, determinato, non può che far bene a tutti e tutte, nonostante le difficoltà degli ultimi tempi. La cascata di telegrammi e lettere arrivataci ha confermato quelle mie sensazioni.
Da tanti anni pensavo quello che ha scritto il mio compagno Roberto: “L’ho sempre saputo, lottare per la libertà significa anche poterla perdere”. Parole semplici, chiare e soprattutto veritiere. Ora che in carcere ci sono, vedo e sento cose che a volte mi sono sfuggite (le due mie prime e brevi esperienze di carcere erano un assaggio di quello che vivo ora). Ora tocco con mano tanti miei ragionamenti fatti in questi anni di lotta. Stare qui a Tolmezzo vuol dire percepire come lo Stato e il suo apparato repressivo siano in costante lavoro e aggiornamento sui modi di isolare chi si ostina a lottargli contro. E ancor più dure sono le condizioni in cui si trovano le nostre compagne a L’Aquila, in quell’ibrido fra AS2 e 41 bis.
Vogliono togliere a questo carcere la fama di posto di aguzzini e picchiatori meritata all’epoca dell’ex direttrice Silvia Dalla Barca, anche se quelle mani pesanti sono ancora qui. Solo che ora i detenuti sono per la maggior parte in AS e provenienti dal sud Italia, non stranieri isolati a cui si può fare tutto quello che si vuole senza che nessuno lo sappia. La tattica ora è diversa. Il carcere è tutto spezzettato nelle varie categorie: mafia qui, mafia là, 41 bis, comuni, islamici, anarchici ecc. Tattica che sembra funzionare, se si pensa che tra i pochi “comuni” che ci sono alcuni si sono menati per insulti razzisti e pregiudizi vari, con gran favore per la Direzione. Penso che comprendere l’evoluzione delle carceri, la loro storia, i cambiamenti nel codice penale, il modo in cui vengono condotte le inchieste, non solo contro noi anarchici, sia molto utile per capire cosa dire e fare oggi sia fuori che dentro.
Oggi è il 25 aprile. Alcuni detenuti mi hanno chiesto se festeggiavo ed è
stato interessante come in pochi minuti si convenisse che non c’è stata
alcuna liberazione. La storia del movimento partigiano è molto
complessa. Posso portare rispetto per quella lotta, ma anch’io
parteggio. Se penso a quella lotta, penso a compagni come Pedrini,
Tommasini, Mariga, Mariani e tanti altri, che il fascismo e lo Stato li
hanno combattuti ben prima dell’8 settembre e ben dopo il 25 aprile.
Soprattutto non hanno combattuto per fini politici e di potere, non
hanno tradito gli scopi che tanti giovani, uomini e donne, si
prospettavano con i loro sacrifici. È anche grazie a quei compagni, alle
loro esperienze, ai loro racconti che io ora ho le conoscenze per
affrontare il carcere con forza e dignità. Per me esiste un filo
sotterraneo che mi unisce a quei compagni, non perché io abbia lo stesso
coraggio – tante cose che loro hanno vissuto io non le ho provate sulla
mia pelle –, ma perché cerco umilmente di portare avanti le stesse
lotte e idee. Trovo ipocrita che, come ogni anno, su giornali quali il “Corriere della Sera”
venga ricordato un grande fotografo come Robert Doisneau, il quale
durante la guerra falsificò documento per il movimento francese della
Resistenza, e allo stesso tempo si condanni e criminalizzi chi oggi
scappa dai lager finanziati dall’Occidente dove è rinchiuso perché senza
documenti e che solo tramite la fuga e la falsificazione dei documenti
può cercare di sottrarsi alle autorità e rimanere libero. Questa
giornata rispecchia l’ipocrisia della società in cui viviamo, in cui
tutto può essere il contrario di tutto.
Questi sono tempi tristi. Le
notizie di massacri indiscriminati si susseguono in modo angosciante. I
fatti in Libia, Sri Lanka, Nuova Zelanda, Venezuela e tutti quelli
tenuti nascosti fanno parte dello stesso lato della medaglia di altri
massacri compiuti dai vari eserciti in giro per il mondo.
Tutti
questi avvenimenti parlano di morti indiscriminate, sommarie, barbare,
compiute non per scopi di emancipazione, ma che mirano a brutalizzare la
vita per la sopraffazione e il potere.
In questo contesto di guerre e cambiamenti sociali di varia natura per
l’ennesima volta il movimento anarchico nella sua storia viene accusato
di “terrorismo”. Questa accusa è una grave offesa, la quale ha come
scopo di denigrare le nostre idee e i nostri metodi. Lo Stato, che usa i
metodi più sporchi e infami, quando ha paura o necessità va a colpire
gli sfruttati più coscienti che lottano. In tanti modi gli anarchici si
sono difesi da questi attacchi ribadendo la giustezza delle loro idee e
pratiche nel tempo.
Anch’io ora voglio dire la mia. L’isolamento e
questa cella non possono riuscire a tenermi zitto. Non mi passerà mai la
voglia di portare chiarezza dove c’è la peggior confusione. Per farlo
citerò dei fatti e delle parole di alcuni anarchici.
Da tanti anni in
Russia, gli anarchici e non solo vengono uccisi, torturati, la
propaganda imbavagliata, i familiari arrestati. Nel 2001 il giovane
anarco-sindacalista Nikita Kalin viene ucciso con un colpo di pistola
alla testa per via della sua attività nella fabbrica dove lavorava.
Tanti altri sono stati colpiti da una feroce repressione dello Stato e
dei suoi servi fascisti che negli ultimi anni non ha fatto che
aumentare. Il 31 ottobre 2018, alle ore 8,52, ad Arkhangelsk, un giovane
anarchico, Mikhail Zhlobitsky, muore dilaniato dalla sua bomba
all’interno della Direzione regionale del FSB (il servizio segreto
russo). Tre agenti vengono feriti e l’edificio viene danneggiato. Questo
fatto drammatico ci fa capire che da una parte abbiamo perso un
coraggioso compagno e che dall’altra la colpa di quanto successo è dello
Stato. Se si mettono all’angolo le idee e la libertà, esse reagiranno
con gli uomini e le donne più coraggiosi e determinati. Sono le
condizioni sociali che fanno sì che simili episodi avvengano. E questo
fatto non è “terrorismo”. Noi ora possiamo piangere il compagno
scomparso, ma ancor più capire che la lotta debba andare avanti finché
fatti come questi non siano più necessari.
Il 20 settembre 1953 uscì un articolo di Mario Barbari sul giornale anarchico “Umanità nova”, in cui quel compagno così commentava il libro di Giuseppe Mariani a proposito dei fatti del Diana del 1921:
“E il tiranno non è forse un leone famelico – sempre in cerca di brame conquistatrici – quando nella sua dispotica brutalità non esclude nessun mezzo ai danni di chi tenta di liberarsi dalla tirannia stessa nel timore che altri siano resi edotti della realtà che li schiaccia? Il tiranno è dunque l’espressione genuina della violenza e chi lo combatte, combatte la violenza”.
Noi anarchici dobbiamo tenere una bussola che ci distingua sempre da chi usa la violenza per i suoi scopi cattivi. Malatesta la chiamava “ginnastica morale”, grazie alla quale il senso della violenza rivoluzionaria sia diverso da quello della violenza utilizzato dallo Stato tramite i suoi mezzi e servi. Uno dei nostri compiti è portare chiarezza in questa società basata sulla violenza, lottare perché finalmente la brutalità venga sostituita con la fratellanza e la solidarietà per tutto il genere umano. Forse oggi quella per rimanere umani è la battaglia più difficile, sottrarsi all’odio che ci circonda lo è ancora di più. Se ci riusciamo i nostri scopi potranno emergere con forza e lucidità.
Con le loro accuse ci vogliono buttare in un paniere il cui contenuto è più che marcio; noi invece dobbiamo rimanere incorrotti davanti alla barbarie.
Continuava Barbani:
“Non si tratta quindi più di violenza o non-violenza; di amare od odiare; di comprendere o compatire; ma di lottare strenuamente con tutte le nostre energie di uomini coscienti per estirpare la tirannia ed eliminare il giogo della schiavitù materiale e spirituale; e per questo, incitiamo ciascuno a comprendere se stesso per comprendere nel pari tempo gli altri. Se domani una nuova aurora ci trovasse presenti alla realtà d’una rivolta di oppressi e di relitti umani, non disdegneremo di essere presenti nel fragore delle barricate ed anche allora saremo certi di non commettere alcuna violenza, ma di combattere la violenza!”.
Il libro “Memorie di un anarchico” di Giuseppe Mariani mi ha fatto più volte fare profonde riflessioni che mi hanno aiutato ad avere chiarezza su pratiche e metodi. Finisco questo discorso con le parole di Gigi Damiani presenti nell’introduzione al libro di Mariani:
“… Ma la storia ci insegna che vi sono momenti in cui la violenza diventa una necessità sociale. Solo è necessario, per quanto possibile, che essa non colpisca alla cieca e che non faccia pagare agli umili le colpe dei grandi”.
Penso che in questo momento, grazie purtroppo anche agli attacchi dello
Stato contro il nostro movimento, abbiamo l’occasione di tornare con
ancora più forza a parlare delle nostre idee, pratiche e sogni. Degli
spazi, se pur piccoli, si stanno aprendo e noi dobbiamo criticare i
movimenti riformisti e in malafede. Negli ultimi mesi tante persone si
pongono diversi quesiti rispetto alla direzione che sta prendendo questa
società, soprattutto con cortei di opinione che purtroppo hanno un
carattere difensivo, riformista e non condivisibile. Tocca a noi, con
chi ci sta, creare rotture e stimolare la realtà in modo tale che questa
tenue ripresa di coscienza vada alla radice dei problemi sociali e non
si faccia incantare da parole come democrazia-diritti-progresso-civiltà.
La chiarezza e le nostre pratiche siano ora fondamentali per riuscire a
creare un rapporto di forza necessario a far arretrare lo Stato e i
padroni dai loro intenti. Anche qui ci vuole una sana ginnastica.
E
se procuratori al di sotto di ogni sospetto come Raimondi e i questori
di Torino e di Trento si sorprendono della solidarietà espressa a noi
anarchici invitando la cosiddetta società civile a starci lontano, vuol
dire che la strada è giusta, e non possono che farmi felice. Le nostre
lotte, la nostra propaganda, le nostre pratiche, anche se in piccolo,
spaventano in qualche modo chi di dovere.
Ringrazio di tutto cuore tutti i compagni e compagne che in questi mesi si stanno caricando di tante fatiche per portare avanti le lotte e la solidarietà a tutti noi in galera. Ringrazio tutti quelli che tramite assemblee, riviste, approfondimenti portano avanti il dibattito e la crescita delle nostre idee.
La mia sincera vicinanza va ai compagni e compagne indagati e rinchiusi in prigione per i processi “Scripta Manent”, “Panico”, “Scintilla” e tutti i compagni e compagne detenuti nelle galere di ogni dove.
La mia più viva preoccupazione va alla compagna anarchica Anahi Salcedo rinchiusa in Argentina in condizioni fisiche precarie e con mancanza di cure appropriate.
Un saluto fraterno vada a tutti i compagni latitanti che camminano sulle strade del mondo.
Ancora una volta:
Per la Rivoluzione sociale, per l’Anarchia
carcere di Tolmezzo, 25 aprile 2019
Luca Dolce detto Stecco
Per scrivergli: Luca Dolce – C.C. via Paluzza 77 – 33028 Tolmezzo (Udine)