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tratto da : www.finimondo.org
La giungla non c'è più. Hanno raso al suolo quella umana di Calais, così come stanno abbattendo quella in Amazzonia. I luoghi selvaggi sono un abominio intollerabile per un mondo asettico e sterilizzato dove il solo rischio ammesso è quello di timbrare con qualche minuto di ritardo il cartellino della sopravvivenza quotidiana. Tutto deve stare in ordine, tutto deve essere sotto controllo. Che i dannati della terra si suicidino se vogliono sbarazzarsi della loro disperazione, ma che non vengano ad insozzare il tappeto davanti alla porta o quello davanti allo schermo, che non protestino, che non si ribellino. Così nelle strade rimarranno solo cittadini, più o meno soddisfatti ma pur sempre in fila.
È proprio vero: «Le foreste precedono gli uomini, i deserti li seguono». Quello che pubblichiamo è un articolo apparso in Francia poche settimane prima della devastazione della «giungla» di Calais — che rende chiaro sia cosa c'era in gioco sia come mettere i piedi sul tavolo — e pubblicato sul n. 5 di Paris sous tension nel gennaio di quest'anno.
A Calais, il 2016 comincia come è terminato il 2015: col rafforzamento delle misure repressive contro gli indesiderabili (clandestini, senza documenti, fuorilegge, ribelli,…), con dichiarazioni di guerra in atto da parte del governo e della sua polizia contro di loro. Il tutto con l’appoggio esplicito di una parte della popolazione, la più esecrabile, quella che ha scelto la xenofobia come palliativo alla sua esistenza miserabile, e che giubila nel vedere il governo — che non fa mai abbastanza, a suo parere — sciogliere le briglie e decidersi ad utilizzare grandi mezzi. E l’adesione passiva di coloro che di fronte alla gravità della situazione si schiereranno comunque dalla parte dello Stato, pretendendo che esso ristabilisca l’ordine, con la sola preoccupazione di mantenere le loro piccole comodità, il loro piccolo commercio, la loro piccola auto integra, il loro piccolo tran tran, la loro piccola tranquillità mentale, per consentire loro di vivere la propria vita senza prestare attenzione al mondo che li circonda.
Come in tanti altri angoli del mondo, a Calais oramai da anni sempre più persone affluiscono per passare in Inghilterra, per passare una frontiera che è loro preclusa poiché non dispongono dei documenti idonei, non corrispondenti alle esigenze dei decreti, non avendo diplomi o curricula vitae da esibire per vendersi sul mercato del lavoro, o magari perché mantenere nella paura del domani questa manodopera a buon mercato è un buon mezzo per addomesticarla e per disporne a piacimento. Da anni si stanno perciò organizzando tra di loro per sopravvivere, nell’attesa di poter tentare la propria fortuna e varcare illegalmente la frontiera, riuscendo a superare i numerosi ostacoli che separano un punto del territorio da un altro per chi è indesiderabile per lo Stato e per il mercato. E siccome in una situazione ostile molto spesso l’unione fa la forza, sono arrivati in migliaia (tra i 4500 e i 6000) ad abitare, in un accampamento di fortuna, una zona ormai conosciuta col nome di «Giungla». Gli sbirri, che erano soliti distruggere tende e capanne all’epoca in cui queste erano isolate le une dalle altre, non osano entrare nella «giungla» per far sloggiare gli abitanti. E quegli abitanti, non facendosi più cacciare un giorno sì e un giorno no, si stanno organizzando in piccoli gruppi e insieme per intrufolarsi nei tir di merci, e accedere al tunnel della Manica o al porto.
Ma ecco che, da diversi mesi, imprese come Eurotunnel e SNCF Réseau Ferré hanno ristretto l’accesso al Tunnel e rinforzato drasticamente il suo controllo, la prima assumendo un centinaio di cani da guardia, la seconda erigendo lungo i binari delle barriere alte alcuni metri e sormontate da filo spinato. Dal canto loro, gli sbirri, più numerosi e ormai equipaggiati con droni, beneficiano di un decreto (un jolly concesso loro con l’instaurazione dello stato d’emergenza) che consente di arrestare qualunque pedone sulla strada che conduce al porto, e di rifilarlo ai loro compari giudici che potranno condannarlo a 6 mesi di carcere. O gaudio, manifestano in coro il presidente della regione (che reclama l’intervento dell’esercito per man-te-ne-re-l’or-di-ne!), il sindaco di Calais e il prefetto, chiedendo la prigione o la deportazione per ogni immigrato colpevole di intrusione nelle zone portuali o nel sito dell’Eurotunnel (passaggi obbligati, in assenza di un portale spazio-temporale, per passare la frontiera), di scontri con la polizia (diventati necessari per tentare di introdursi nei siti in questione, oltre ai sempiterni benefici), di degrado e di «infrazioni di diritto comune» (sane reazioni frutto di frustrazione, delusione, collera, disperazione, rabbia…). Si tratta di oliare il tritacarne giudiziario, di far gravare la mannaia del carcere o dell’espulsione (il che significa nel meno peggiore dei casi ricominciare daccapo) sulla testa dei migranti che non si comportano come i burocrati, i funzionari, i giudici, i politici, si aspettano da loro: da vittime.
I sogni d’ordine e di pacificazione dei governanti di ogni pelo non saranno soddisfatti nei tempi a venire. A riprova di ciò, il 17 dicembre quasi un migliaio di persone si sono spostate lungo l’autostrada in direzione del tunnel. Col Natale che si avvicina si formano lunghe code nei pressi del centro commerciale, e pensano che avranno più possibilità di introdursi in un tir. E, dato che la polizia non è dello stesso parere, si succedono ore di scontri. Il 25 dicembre si ricomincia, in 2500 attraversano il centro di Calais dirigendosi al tunnel della Manica, ma la polizia li respinge. Sulla via del ritorno, a fare le spese della frustrazione e della rabbia sono le automobili: specchietti retrovisori e parabrezza infranti, tergicristalli piegati. Alcuni sbirri in divisa vengono feriti. In questi giorni oscuri in cui l’odio più cieco raggiunge l’egoismo più meschino, in cui la sottomissione più codarda prospera sull’assenza generale di speranza in una vita radicalmente altra, non si dovrà attendere a lungo prima di udire gli strilli per metà indignati per metà interessati della pacifica e laboriosa popolazione che si è allineata a fianco dell’ordine.
I genitori si lamentano… i bambini di una vicina scuola materna hanno fortemente avvertito gli effluvi dei gas lacrimogeni usati in dose massiccia dalle forze dell’ordine: i migranti sono pericolosi, gli occhi dei nostri bambini bruciano ancora.
I commercianti si lamentano… una cosa simile all’approssimarsi del Natale è una catastrofe; le persone non osano più fare le loro compere nel settore, e i loro percorsi in auto durano 8 volte più a lungo; i migranti non rispettano le nostre tradizioni, le compere di Natale sono sacre!
I rivieraschi si lamentano… alcuni immigrati hanno sfondato i cancelli dei giardini per passare, i bambini sono terrorizzati: i migranti sono minacciosi, non è che un giorno queste persone si introdurranno in casa per divorare i nostri figli?
I portuali si lamentano… che disastro non allontanare il centro di accoglienza attorno al quale si è sviluppata la «giungla» (dove ormai sopravvivono 4500 esseri umani). Da settembre, sono 7500 in meno i passaggi di tir: i migranti costano, fanno crollare il nostro giro d'affari.
Gli automobilisti si lamentano… «è la prima volta che viene rotto il mio specchietto retrovisore, proprio il giorno di Natale, che colpo!», «Il mio tettuccio è malconcio, quegli energumeni lo hanno preso a bastonate, che violenza, ma in che mondo viviamo!».
I «calaisiani in collera» (gruppo dai connotati ambigui, composto in maggioranza da agenti di sicurezza, che tutte le notti fra le 20.30 e le 5 pattuglia i dintorni della «giungla», sorveglia i dintorni della strada per prevenire il passaggio di migranti in direzione del tunnel) si lamentano… la popolazione di Calais non si è ancora unita a loro per combattere gli immigrati.
I trasportatori si lamentano… 36 milioni di euro di perdita a causa degli imbottigliamenti o dei controlli anti-immigrazione, dichiara un dirigente d'azienda per cui «il discorso politico si occupa sempre del problema di Calais da un’angolazione umanitaria, senza tenere conto degli aspetti economici»: i 20 migranti morti nella regione da giugno nel tentativo di raggiungere l'Inghilterra non si sono lamentati, loro, per il crollo del loro giro d'affari, quelli che sono sopravvissuti nemmeno.
Considerate le grosse difficoltà di mantenere l'ordine a Calais davanti ad individui che non rinunciano a proseguire il loro cammino — sulla strada di un esilio che in gran parte sono stati costretti ad affrontare, spinti dalle proprie condizioni di vita — verso la direzione che hanno scelto, l'Inghilterra, negli ultimi mesi lo Stato si è limitato a gestire il disordine. In due mesi, 1800 persone arrestate a Calais sono state spedite (attraverso l'aeroporto del Marck) nei centri di detenzione, carceri per stranieri, in tutta la Francia (Nîmes, Vincennes, Marsiglia, Tolosa, Rouen...) allo scopo di isolarli e scoraggiarli a ritornare.
Ormai lo Stato si dà nuovi mezzi per perseguire un obiettivo, quello che è condizione della sua esistenza e che gli conferisce legittimità: imporre l'ordine a Calais — ovviamente con la forza. Dare la caccia ai «migranti», quindi. Come testimoniano le ripetute richieste di intervento dell'esercito da parte del presidente della regione, l'arrivo di un veicolo blindato cingolato della gendarmeria utilizzato in casi estremi per domare assembramenti ostili di notevole dimensione (come accadde nel novembre 2005 quando una parte del territorio si infiammò per diverse settimane), o ancora il getto di grandi quantità di lacrimogeni dentro il campo stesso colpendo l'insieme dei suoi abitanti senza alcuna discriminazione.
In quest'ottica, l'apertura di un campo al centro della «giungla» è la spina dorsale del progetto governativo, progetto terrificante per ogni persona non ancora sorda alle sofferenze umane, non ancora insensibile di fronte alla fredda negazione dell'esistenza dell'individuo nel nome di interessi superiori, e profondamente convinta dell'impossibilità per ognuno di vivere liberi in un mondo fondato sull'autorità. È da lunedì 11 gennaio che questo campo è già in funzione. Con 125 container prefabbricati di 12 metri di lunghezza. L’uno sull'altro. Ogni container ha 6 letti sovrapposti. Ogni persona dispone di 2,33 metri quadri. Né doccia né cucina. In tutto 1500 posti. Il campo è recintato. Dotato di telecamere di sorveglianza. Controllo biometrico all'entrata.  Dopo due mesi di propaganda nella «giungla», solo 114 cosiddetti «volontari» (è evidente che non è la volontà a spingere a tale scelta, ma la necessità di sopravvivere e i suoi calcoli) hanno accettato di recarvisi una volta terminati i lavori. Ecco quindi cosa annunciano i tempi a venire: internamento nel campo dietro ricatto per una parte dei migranti della giungla con identificazione e registrazione obbligatorie, e trasferimento forzato per gli altri (gli impiegati della associazione La Vie Active che gestisce il campo aiutati dal Soccorso Cattolico, Salam, l'ostello dei migranti e Act'Aid hanno già cominciato a convincere ad andarsene i 500 abitanti della «giungla»), invio in centri di detenzione e/o espulsione per parte di loro. Poiché l'obiettivo dello Stato è di assumere il controllo totale della zona, di afferrare il più possibile nelle sue reti ognuno dei suoi abitanti (reti di cui la polizia, le amministrazioni come l'OFPRA [Ufficio Francese di Protezione dei Rifugiati e Apatridi], e le associazioni umanitarie costituiscono di volta in volta le differenti maglie) e di chiudere totalmente la frontiera con l'Inghilterra, ciò passa attraverso la distruzione della «giungla», uno spazio dove arrangiarsi per sopravvivere e organizzarsi insieme in maniera autonoma è ancora possibile.
Una buona notizia ci arriva proprio mentre stiamo scrivendo queste righe. Una buona notizia per ogni persona che desidera la distruzione delle frontiere, e che ci ricorda che è sempre possibile agire. La notte fra il 15 e il 16 gennaio due mezzi di cantiere sono stati incendiati nelle vicinanze del campo. Mezzi che appartenevano alla società Sogéa, che ha effettuato l'installazione dei container. Una buona notizia che dice anche: chi vuole lottare può darsi i mezzi. A Calais come altrove.
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Fra le aziende che collaborano a tale progetto, spartendosi i 20 milioni di euro della torta (progettazione e funzionamento), citiamo:
Logistic Solution
fornitrice dei contenitori La PME Logistic Solution e già partner regolare dei militari e del ministero della Difesa, fornisce anche dei container nel cantiere di Mururoa in associazione con Sodexo Defense Services. È anche fornitrice dell’esercito egiziano.
ATMG
sorveglianza del sito durante i lavori, così come nei cantieri Eiffage, Bouygues, ecc.
Biro Sécurité
Dispositivo biometrico del campo e di sorveglianza del centro d’accoglienza Jules-Ferry e della zona «tampone» fin dal marzo 2015.
Association La Vie Active
Associazione di «utilità pubblica», gestisce, oltre al campo, più di 70 stabilimenti e siti, nel settore dell’infanzia, dell’adolescenza, del sociale, degli handicap, degli anziani.
Oltre agli alberghi Première Classe, Kyriad, Quality Hôtel e Campanile di Loon Plage e di Ambouts-Cappel, che affittano le loro stanze ai CRS (polizia antisommossa).

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Parigi sotto tensione

(giornale anarchico su Parigi e oltre)
Lasciarsi sfruttare, scegliere un padrone (o farselo imporre) e in generale comportarsi come tutti; è questa la libertà? No di certo. Superiamo questa amara constatazione che facciamo – troppo – regolarmente. Riflettiamo e discutiamo di tutto ciò che ci opprime, ci sfrutta e ci impedisce di emanciparci. Puntiamo il dito contro i responsabili, i collaborazionisti, i loro progetti e le loro strutture che contribuiscono alla perpetuazione e allo sviluppo del dominio e dello sfruttamento. Facciamo risuonare le diverse manifestazioni di insubordinazione e di attacco, le rivolte più o meno estese nello spazio e nel tempo. Perché il dominio e lo sfruttamento si incarnano in persone, in uffici, in strutture, in veicoli, ecc. ben reali e raggiungibili dall’immaginazione di ciascuno-a. Ecco la nostra convinzione: noi possiamo darci i mezzi per riprendere in mano la nostra vita, alzare la testa, agire e rispondere colpo su colpo al «migliore dei mondi» da noi stessi, in modo diretto e autonomo. Senza sottometterci, né comandare. E, al di là di ogni cinismo o rassegnazione, siamo capaci di sognare e di immaginare una vita e dei rapporti altri rispetto a quelli che ci vengono imposti. Questo giornale vuole quindi essere un miscuglio di ossigeno e di scintille, di idee e di sogni di libertà, di attacchi, di insubordinazione e di offensive disparate. Da individui di qui e di altrove che si mettono in gioco; con audacia, lucidità, speranza, disgusto, rabbia, gioia e fiducia in se stessi, nelle proprie idee e nei propri complici… Questo giornale desidera mostrare ed essere una convergenza di queste vite; vite come scommesse in tensione*…
*  gioco di parole con diversi significati: paris può significare Parigi, ma anche scommesse o sfide.

La violenza di genere ha sempre una valenza politica, dal mio punto di vista, poiché è uno strumento utilizzato per perpetuare il secolare dominio del genere maschile sulle donne. Poco conta se questo uso sia sempre consapevole o sia frutto di una mentalità che inferiorizza le donne fino a renderle proprietà maschile, dunque schiave dell’uomo. È un dato di fatto storicizzabile, da combattere alla radice.

Esiste, poi, un uso politico della violenza di genere e del femminicidio, il cui obiettivo non è ‘solo’ quello di terrorizzare le donne per mantenerle in condizione di schiavitù, ma anche quello di terrorizzare un’intera popolazione. Generalmente questo secondo aspetto va di pari passo con la guerra.
Nella storia se ne possono rintracciare innumerevoli casi; il più recente è quello della guerra che il governo di Erdogan sta portando avanti, con rinnovata ferocia, nei confronti della popolazione kurda.

Ciò che è avvenuto a Colonia e in altre città a capodanno è terribile, senza dubbio. E non deve stupire che la mentalità patriarcale faccia uso anche dei social network per organizzare violenze di massa. O continuiamo a pensare, stupidamente, che il patriarcato abbia a che vedere con il feudalesimo e nulla abbia a che fare con la modernità e le sue tecnologie?

Ricordiamo bene le aggressioni sessuali di gruppo in piazza Tahrir, al Cairo, quando orde di maschi circondavano le donne, le molestavano e le stupravano per ‘punirle’ della libertà che si erano prese scendendo in piazza a protestare. Ma dovremmo anche ricordare bene  come, nell’arco di breve tempo, si organizzarono i gruppi di difesa e autodifesa delle donne.
E così anche in India, e in tante altre parti del mondo.
Che oggi le aggressioni sessuali di gruppo – come quelle di Colonia – vengano ridotte ad una questione etnica o culturale, serve solo a coprire un dato di fatto, che noi donne abbiamo, invece, molto chiaro – anche se giornaliste & C. sembrano dimenticarsene molto facilmente quando si tratta di soffiare sul fuoco della xenofobia.

Quale donna non ha avuto a che fare con aggressioni sessuali di branco già dalle elementari, se non da prima?
Cosa c’entra la provenienza etnica, se non per dissimulare un problema molto più profondo che si chiama dominio patriarcale e che viene instillato nei maschi ancor prima che nascano?
Si tratta di un dominio che, pur manifestandosi con declinazioni  differenti, nella sostanza non cambia affatto.

Quando ero in Olanda, ad Utrecht, per ragioni di studio, mi si raccontava di come quel paese fosse avanti anni luce, quanto le donne fossero emancipate e quanto illuminati fossero gli olandesi coi loro matrimoni gay e lesbici, col loro antiproibizionismo ecc ecc…
Trovavo poco convincenti queste affermazioni, anche perché sapevo della genderizzazione della popolazione migrante in base alla divisione capitalistica del lavoro: per ottenere il permesso di soggiorno, alle donne immigrate veniva insegnato come diventare delle ‘brave casalinghe olandesi’ – che il lunedì lavano i panni, il martedì stirano, e via dicendo – mentre agli uomini venivano insegnati lavori di basso profilo, per tenerli al fondo della scala sociale e ‘razziale’.
Ma la conferma che l’Olanda non fosse affatto un paese meno machista di altri l’ho avuto durante il Queen’s day, quando, il 30 aprile, l’intera popolazione è in festa per il compleanno della regina (tutto vero!). Si tratta di una giornata in cui si rovesciano le consuetudini quotidiane, più o meno rigidamente mantenute per tutto il resto dell’anno. Una sorta di carnevale, nel senso più alienato del termine; una  ‘valvola di sfogo’. I festeggiamenti cominciano la sera del 29 aprile e proseguono per 24 ore – inutile dire che, poi, il primo maggio, tutti/e rientrano docili nei loro ranghi calvinisti, altro che festa del lavoro! – e per tutto quell’arco temporale gli olandesi (e le olandesi!) si scolano ettolitri di alcolici ed è molto frequente incontrare gruppi di maschi alti e biondi, ubriachi marci, che insultano e molestano le donne – soprattutto quelle che non hanno tratti somatici tipicamente nederlandse. Non sto qui a raccontare la serata che io e un’amica spagnola – entrambe basse e scure, quindi visibilmente non-nederlandse – abbiamo trascorso difendendoci da insulti e aggressioni da parte di vari branchi di olandesi, la cui mentalità machista è rafforzata da un’altrettanto forte eredità partiarcal-coloniale.

Tutto questo per dire che è inutile strapparsi i capelli per ciò che è accaduto lo scorso capodanno in alcune città europee, se lo si continua a leggere come una questione meramente etnica. Anche perché serve solo a dimenticarci che in quelle che vengono definite ‘altre culture’ molto spesso le donne lottano con una determinazione da cui noi avremmo soltanto da imparare.

Come le Imperial Ladies furono complici del patriarcato colonialista in nome della propria  – presunta – emancipazione da esportare, così l’etnicizzazione della violenza di genere è complice della crescente violenza di genere ‘intra-etnica’ nostrana, e dissimula, buttandolo sull’altro, il dominio dell’uomo  occidentale su tutte le donne – dall’autoctona mogliettina o ex fidanzata massacrata, alle bambine thailandesi stuprate dai turisti sessuali, alle donne ‘straniere’ sposate sperando che siano mogli sexy e remissive.

Accennavo, prima, all’uso politico che il governo di Erdogan fa della violenza di genere. Perché non se ne parla? Crediamo davvero che stia facendo diversamente da Daesh-Isis?
Nell’attuale genocidio in corso in Kurdistan, l’accanimento contro le donne – kurde o filo-kurde – ha assunto aspetti terribili. Dalle donne crivellate di colpi perfino nella vagina alle combattenti ferite, torturate e trascinate nude fino alla morte con una corda al collo, alle bimbe di pochi mesi, alle ragazzine e alle donne incinte ammazzate dai cecchini, alle donne i cui cadaveri non possono essere recuperati dalle strade perché la polizia e l’esercito sparano su chiunque provi ad avvicinarsi. E potrei continuare, perché la lista è lunga

Oggi è il terzo anniversario dell’assassinio, a Parigi, di tre donne kurde, tre femministe che avevano dedicato le loro vite alla lotta con altre donne: Sakine Cansiz, Fidan Dogan e Leyla Söylemez. Un triplice assassinio in cui hanno grande responsabilità i servizi segreti turchi.

Pochi giorni fa, in una delle città kurde in cui la Turchia ha imposto da settimane un violento coprifuoco e le forze dello stato sparano a vista su tutto ciò che si muove – persone ed animali – altre tre femministe sono state ferite, torturate e poi violentemente ammazzate – i loro volti sono stati sfigurati da raffiche di colpi e, probabilmente, dall’esplosivo. Si chiamavano Sêvê Demir, Pakize Nayır e Fatma Uyar.

Ieri è stato dato fuoco alla sede di un’organizzazione femminista all’urlo di “Allahu Akbar”. No, non erano i miliziani di Daesh, ma le forze dello stato turco!

Ma alle nostre latitudini nessuna/o spende mezza parola su queste atrocità. Perché?
Di certo non soltanto perché di stragi e violenze se ne parla solo quando avvengono “nel nostro cortile”, ma perché gli stati occidentali sono complici delle politiche turche, non solo ingrassando il governo di Erdogan affinché blindi le frontiere a donne e uomini migranti, ma soprattutto perché la regione kurda è un laboratorio del confederalismo democratico, che fa paura all’occidente capitalista e ai suoi alleati arabi in quanto progetto antistatuale, cooperativo, egualitario, femminista ed ecologista.

Mai non sia che le anime belle, qui, si rendano conto di non vivere nel “migliore dei mondi possibili”! E magari decidano pure di rompere con la violenza di genere, lo sfruttamento del lavoro e la devastazione dell’ambiente – o almeno di non delegarne la soluzione agli apparati di potere.

Il nemico numero uno della Turchia, Abdullah Ocalan, ipocritamente consegnato – dal governo D’Alema – nelle mani del governo turco, dopo avergli fatto credere di poter essere in salvo in Italia, da anni è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza su un’isola turca; di lui, né i suoi legali, né i familiari hanno più notizie da mesi.
Alcuni anni fa, mentre era già rinchiuso in quella tomba di cemento e ferro, Ocalan mandò un messaggio alle Donne Libere kurde, che voglio riportare qui, perché è lo specchio delle miserie di tutti i “democratici” signorini nostrani che si occupano di mascolinità e ci costruiscono le loro “democratiche” carriere accademiche (oltre ai loro, frequenti, marpionamenti), senza nulla cambiare realmente nei rapporti tra generi:

Organizzatevi bene contro di noi e anche contro di me. Rispetto a una donna libera io non sono che un quarto di uomo. Ma che ci posso fare? Alla mia età è tardi per cambiare. Questa è la realtà del vostro presidente.
Gli uomini sono solo asini in calore, sono signori feudali in disarmo. Questi uomini credono che bastonare la donna sia un loro sacrosanto diritto. L’uomo è rozzo, molto rozzo; anche al migliore degli uomini puzza l’alito. L’uomo non va al di là del suo istinto. Ma allora cosa volete farci voi donne di un uomo così?

Alla brava e coraggiosa Sakine, i torturatori turchi avevano, fra altre violenze, tagliato i seni quando era loro prigioniera – pratica sadica che ancora oggi tanto Daesh-Isis che le forze dello stato turco utilizzano per terrorizzare e cercare di sottomettere e colonizzare le popolazioni. A lei la parola.

fonte: http://www.nicolettapoidimani.it/

Traduzione da Rabble, che sta tenendo la cronologia della resistenza allo sgombero di Calais e delle iniziative di solidarietà in altri luoghi

c1Oggi, 3 marzo, la parte sud della jungle di Calais entra nel terzo giorno di sgombero, in un processo che, a detta delle autorità, richiederà tre settimane di tempo per concludersi.

Qui sotto riportiamo alcune azioni di resistenza organizzate dentro e fuori dal campo. Sembra che questo processo andrà per le lunghe, per cui diamoci una mossa per cercare, preparare e realizzare azioni adesso. Questo post verrà aggiornato non appena ci saranno ulteriori resoconti di ciò che succede.

17 gennaio:

Due veicoli utilizzati per effettuare gli sgomberi sono stati dati alle fiamme durante la notte.

24 gennaio:

Sulle porte dell’ufficio Visti e Immigrazione del Regno Unito a Roma compare la scritta “Al fianco di chi lotta a Calais”.

22 febbraio:

Calais Migrant Solidarity fa un appello per una giornata transnazionale di azioni solidali , nello specifico indirizzate contro le istituzioni francesi e britanniche e le compagnie coinvolte nell’attacco alla jungle. Qui una lista di alcune di queste compagnie.

Stand up to Racism (SWP) organizza una manifestazione a Downing Street.

23 febbraio:

In un’iniziativa organizzata in poche ore, 30-40 persone si riuniscono a Shoreditch, a Londra, per interrompere il lancio della campagna governativa francese “Creative France”, a cui partecipava l’ambasciatore francese. L’edificio è stato evacuato dopo che i solidali hanno lanciato fumogeni e spazzatura nell’atrio.

25 febbraio:

La sfida legale contro lo sgombero è persa: esso andrà avanti con la presunta esclusione degli spazi sociali (edifici religiosi, biblioteca ecc.).

Bernard Cazeneuve, ministro degli interni francese, afferma che non è nelle intenzioni del governo, e mai lo sarà, usare bulldozer per lo sgombero del campo.

A Ventimiglia (a confine tra Italia e Francia) uno striscione viene calato da un ponte in solidarietà con le persone migranti di Calais.

ventimiglia

26 febbraio:

Alcuni dipendenti del Municipio si aggirano attorno al campo sollecitando le persone ad andar via. Arrivano autobus per portare la gente nei vari centri sparsi nel paese, ma sono costretti ad andare via quasi completamente vuoti facendo infuriare le autorità, che accusano i No Borders di scarsa capacità di comprensione.

29 febbraio:

Lo sgombero della jungle inizia. Un’imponente operazione di polizia (circa 55 camionette) è lanciata alle prime luci del mattino. Bulldozer e operai della Sogea (una società della Vinci) distruggono i rifugi delle persone, in una vergognosa e palese contraddizione con l’annuncio di Cazaneuve della settimana precedente.

c3
Gli abitanti lanciano sassi verso la polizia antisommossa, ricevendo in risposta dei lacrimogeni.

Le persone iniziano a occupare i tetti per resistere, e viene usato un idrante per cercare di spostarle da lì. Questo tipo di protesta continuerà a essere utilizzata anche nei giorni seguenti.

c4c5c6c7Una donna si taglia un polso sul tetto, prima che la polizia possa trascinarla via.

Un’altra manifestazione solidale viene organizzata a Downing Street da Stand Up to Racism (SWP).

CMS (Calais Migrant Solidarity) denuncia altre due aziende (Baudelet Environnement, e Groupe SOS Solidarités. dettagli qui ) coinvolte direttamente nello sgombero.

Durante la notte, i migranti occupano l’autostrada per costringere i camion a fermarsi e dar loro un passaggio nel Regno Unito.

1 Marzo:

50 persone manifestano fuori dall’Institut Francais a Londra, partendo poi in corteo a Kensington, cantando, distribuendo volantini e raccontando dal megafono la situazione a Calais.

kensington

Un abitante della jungle muore durante la notte, forse per un attacco di cuore.

Il Ministro degli Interni, Bernard Cazaneuve, fa un discorso denunciando i No Borders di aver interrotto il procedere dello sgombero.

Circa 100 persone, inclusi molti rifugiati, protestano in centro a Parigi contro la repressione a Calais, a dispetto dello stato d’emergenza e dei continui divieti a manifestare.

2 Marzo:

Dodici iraniani che vivono nel campo iniziano uno sciopero della fame, parecchi di loro si cuciono anche le labbra, ricevendo telefonate e messaggi di solidarietà da altri attivisti iraniani in Europa.

iranIl prefetto di Calais, Fabienne Buccio, dichiara -subito ripresa a pappagallo dai media- che “gli anarchici no borders” stanno incitando i “migranti più irriducibili” a reagire. L’idea che le persone potrebbero agire per fermare la distruzione delle loro case senza il bisogno di essere incoraggiate dall’esterno è chiaramente inconcepibile per queste persone.

Dei cinque cosiddetti “attivisti no borders” della jungle, presi in custodia negli ultimi due giorni, due erano iraniani che stavano difendendo i propri rifugi, due erano volontari dell’Auberge des Migrants, e uno era un volontario di Care for Calais. Gli iraniani e un’altra persona sono stati rilasciati nella jungle. Gli altri due sono comparsi davanti al Tribunale con l’accusa di incendio doloso, ma sono stati assolti.

Prossime manifestazioni:

3 Marzo:

Manifestazione di solidarietà con Calais a Bruxelles, ore 20, place de la Bourse.

4 Marzo:

Manifestazione di solidarietà con Calais a Parigi, ore 18 alla Gare du Nord.

5 Marzo:

London2Calais ha chiamato una manifestazione per “aprire le frontiere”, a Londra, in un luogo segreto che sarà annunciato il giorno stesso.

demo

Anche a Bath chiamata altra manifestazione.

6 Marzo:

Manifestazione a Witney, Regno Unito.

Urbain Bizot
La critica generalizzata cui la vita sociale era stata sottoposta prima, durante e dopo il maggio 68, si applicava non solo al dominio della società da parte dello Stato e dell'economia, ma all'insieme del funzionamento derivante da tale dominio, alla parte che ciascuno traeva da questo funzionamento, quindi alla realtà dei ruoli sociali.
I ruoli sociali ricoprono integralmente il campo sociale. Questi modelli di comportamento standardizzati vanno dal padre e madre della famiglia al direttore di fabbrica passando per il poliziotto, il prete, lo psicologo, il professore, il quadro, l'uomo politico, senza tralasciare l'operaio e l'impiegato stesso (giacché all'epoca si parlava dell'auto-superamento del proletariato). E comprendevano anche i ruoli sessuali, dell’uomo o della donna, i quali, per quanto sovrapposti ai ruoli familiari, conservavano nondimeno la loro specificità (si può essere uno spiccato fallocrate senza essere padre di famiglia). I ruoli maschili e femminili erano percepiti come ruoli fra gli altri, tanto è vero che lo stesso individuo può essere simultaneamente donna o uomo, quadro o impiegato, ecc. La realtà concreta di un individuo è incontestabilmente fatta da un insieme di ruoli, col rischio per altro di porre numerosi problemi di attrito o di compatibilità fra gli stessi (ogni settore considera solo i propri interessi, e le donne in particolare, avendo messo in discussione il sincretismo selvaggio della propria realtà concreta, dovendo essere al tempo stesso amante seducente ed elegante, madre amorevole e comprensiva, cuoca raffinata e amministratrice economa, quadro responsabile di un settore commerciale e, se possibile, non troppo ignorante e capace di una discussione presentabile nelle serate mondane). L'abbandono di un ruolo in particolare non implica il superamento degli altri, ovvero si compie, in caso di conflitto fra ruoli, a favore della conservazione degli altri (si può rinunciare ad essere padre di famiglia per meglio assumere una funzione professionale).
La critica dei ruoli approfondiva su un piano soggettivo quella dei rapporti sociali alienati. È difficile assumere una funzione sociale senza identificarsi col tipo di personalità impersonale che la funzione esige. Sul versante soggettivo, la critica mirava a ristabilire un avvio di rapporto umano al di là e a scapito dei rapporti alienati: una volta gettato il dubbio o il discredito su un comportamento «che non è proprio», la meccanica ben oliata dei rapporti alienati si inceppa ed il fermento della loro messa in discussione può intaccare il suo sviluppo. Per quanto inaccettabile che il sistema di sfruttamento della natura e degli umani da parte del valore rientri nei suoi obiettivi e nella sua logica d'insieme, altrettanto lo è nelle sue implicazioni su scala individuale. Per obbedire alle funzioni sociali, chiunque deve trasformarsi in robot disumano. La «banalità del male» è la cosa più diffusa. Se bisogna scegliere fra un «imperativo economico» e la conservazione di un minimo d'umanità, ogni esitazione è bandita; ed è così, tutti i giorni, che inizia la formazione di individui discretamente mostruosi. La «causa» psicologica e comportamentale è totalmente indissociabile dalla «causa» economica, poiché questa ultima esige l'abbandono permanente di ogni dimensione vivente. È questa unità di comportamenti nell'alienazione che la critica dei ruoli aveva cominciato a contrastare.
Ma da allora, man mano che questa contestazione generalizzata sfumava e ricadeva nelle rivendicazioni settoriali, i ruoli sociali in senso stretto (politici e economici) scomparvero dalla scena, perché palesemente non negoziabili dal potere in carica, lasciando posto in maniera esclusiva a ciò che la neo-lingua dominante ha battezzato il «societale». La famiglia e la sessualità, fra altri esempi, beneficiano di un interesse costante e ininterrotto fino ai giorni nostri, ma si sbaglierebbe a ritenere ciò un autentico privilegio; e sarebbe meglio interrogarsi sulle ragioni di una tale sopravvivenza. Alcuni rispondono che sono «lotte» che hanno continuato su questo terreno, e che ne hanno imposto la permanenza. Non che questo sia falso, ma la spiegazione stessa merita di essere spiegata.
La modernizzazione della società capitalista, andando a tappe forzate verso una socializzazione sviluppata dal consumo, e non più solo dal lavoro, deve produrre consumatori in massa, ovvero persone che si ritengono libere. La convinzione della propria libertà ed il desiderio di consumare sono due facce della stessa medaglia. Ogni atto di consumo viene vissuto come una manifestazione della propria libertà personale; all'inverso, qualcuno che non commettesse il medesimo errore di valutazione minaccerebbe di consumare poco, troppo poco. Così (paradosso di cui il mondo mercantile ha il segreto) l'atto più conformista è vissuto, più o meno sotterraneamente, come un atto sovversivo, come un gesto d'emancipazione: il miraggio della merce non ha cessato di esercitare il suo immenso potere. Se il consumatore è l'immagine ufficiale della libertà, non deve avere limiti nel suo consumo (o piuttosto un solo limite, che è insuperabile: quello dei suoi mezzi finanziari). All'interno dei mezzi finanziari esistenti, nessun limite deve essere incontrato o, come direbbe un recente ministro dell'economia, parlando a nome del sistema mercantile: «non devono esserci tabù». Ecco con precisione cosa si pensa e cosa si pratica attualmente. «Nessun tabù», all'occorrenza, vuol dire: «la tua paga deve essere spesa». Ma per mettere in atto un ambiente così «illimitato», agitato da un hybris indispensabile alla rotazione del capitale, bisogna produrre un soggetto individuale capriccioso e sollecitato, al tempo stesso fantasmatico e conformista, pieno di invidie infinite e sempre preoccupato di aver perso qualcosa, non sapendo più distinguere fra piacere e angoscia. Il carattere illimitato del suo desiderio non deve fermarsi, per esempio, davanti ad ostacoli naturali, che la scienza e la tecnologia devono spazzare via. Qualsiasi cosa pur di acquistare.
Se si tiene a mente questa integrazione generale, in quanto condizione di esistenza del nuovo soggetto mercantile, e se si tiene anche conto della perdita altrettanto generale dei «punti di riferimento» tradizionali (poiché la sopravvivenza di vecchi arnesi non convince nessuno), ne derivano logicamente persone alle quali una «nuova identità sessuale» deve apparire come un radicamento desiderabile, come una risposta necessaria e sufficiente alla perdita universale di identità, in relazione all'astrazione mercantile. Questa richiesta di cambiare sesso non è pertanto che un estremo, particolarmente patetico (sia detto qui senza ironia), in un «mondo amoroso» trasformato prima di tutto in «vita sessuale», poi in domande sempre più microscopiche quali lo speed dating, lo speed meeting, il sex chat con o senza webcam, od ogni altra tecnica di incontri effimeri, metodi ereditati dalla ricerca di impiego e miranti ad un CDD (contratto a tempo determinato) non eccedente alcune brevi unità di tempo. Sperando in una identità duratura, l'atto transessuale appare ancora come un residuo d'umanità in questo deplorevole ambiente di frammentazione e di spersonalizzazione.
Non si tratta più allora di sbarazzarsi dei ruoli, come nel 68, ma di scegliere il proprio. Significa rifiutare il «genere» imposto dalla società sulla base di uno zoccolo «naturale», per acquisire quello vicino che non si possedeva. Del resto, non è in realtà una questione di possesso? Ciò che viene vissuto sul modo dell'essere non è rivelatore dell'avere? Simili osservazioni possono essere percepite come offensive dalle persone coinvolte in una pratica transgenere. Queste persone vivono in effetti con sofferenza la loro «condanna» ad un sesso d'origine, e la nostra proposta non è ovviamente quella di imporre sofferenza o di reprimere desideri. Ma l'assunzione di un desiderio, quale che sia, non vieta di porre questioni, e di mantenere una distanza critica in rapporto a quanto si ritiene legittimo per sé.
Il carattere unidirezionale delle trasformazioni sessuali appare in sé eloquente. Si vedono poche donne farsi trasformare in uomini, assai più il contrario. È che (anche se nella sfera della produzione e dello Stato, il modello della società rimane fallocratico) la donna è diventata, nel consumo, un sesso invidiabile, combinante lo status di oggetto del desiderio e di persona emancipata. Nei periodi economicamente (più o meno) fasti in cui il consumo predomina (realmente o simbolicamente), il modello femminile finisce per prevalere, mentre il ruolo maschile diventa obsoleto: la vecchia disuguaglianza dei sessi si inverte allora, temporaneamente. Il nuovo carattere unidirezionale si ritrovava già nell'evoluzione possibile fra eterosessualità e omosessualità: tutti hanno visto un(a) eterosessuale diventare omosessuale, ma mai il contrario. È anche questo che incupisce tanto i difensori dei ruoli sessuali tradizionali: il personaggio dominante del loro immaginario (l'uomo eterosessuale, figura del padre autoritario) non esercita più molta attrazione. Non è una perdita, certo, ma questo non basta a instaurare l'era della felicità. Nei due casi menzionati (transessualismo e cambiamento di orientamento sessuale), il carattere unidirezionale esprime una volontà di aggiornamento davanti a ciò che viene percepito come (post)modernità. Il tedio e la noia legati al modello familiare tradizionale (che sono un dato statistico pesante, senza essere con ciò per forza una legge strutturale inevitabile) costituiscono una forte motivazione per distanziarsene, ma la ridefinizione dell'individuo di fronte al mondo del consumo e dello spettacolo è comunque un bisogno pressante, fonte di cambiamenti.
Davanti a questa evoluzione, la polemica contro il «genere» sessuale non presenta alcun interesse poiché, rifiutando la risposta, questa posizione ottusa rifiuta anche la domanda. Il suo fantasma è il ritorno all'indietro, che è impossibile in ragione stessa degli aspetti più moderni della società che tali persone difendono, ma che rimane probabile se la crisi economica si intensifica, e se per via di questa crisi il lavoro ritroverà una superiorità assoluta sul consumo.
La critica dei ruoli sessuali rimane altrettanto indispensabile di quella di tutti gli altri ruoli, ma è indubbiamente spiacevole che la prima possa separarsi dagli altri. Così come è spiacevole che la critica dei ruoli sessuali sia tornata sul terreno europeo solo come importazione di una teoria americana del genere, pur essendo stata in origine ispirata dalla critica europea del ruolo.
Sarebbe preferibile riallacciarsi alla portata iniziale della critica dei ruoli. I ruoli sessuali, poco importa che si basino su una origine «naturale» oppure «artificiale», essendo comunque una costruzione sociale. Una donna transessuale sarà considerata come un uomo. La differenza è che vuole esserlo al punto da volerlo diventare: diventa quindi un’accettazione del ruolo, non più la sua messa in discussione. Ora il ruolo sessuale, come tutti i ruoli, non si giudica in relazione alla sua origine fisica, ma in base alla sua realtà sociale. L'identità sessuale, com'è analizzata dalla teoria del genere, consiste essenzialmente in stereotipi sociali costruiti in vista di un comportamento normalizzato. Ma questa stessa normalità non ha mancato di evolversi. Ciò che era inaccettabile per la vecchia normalità diventa facilmente un ingrediente utile alla nuova, e la sovversione finisce per diventare adeguamento. Pervenire a un destino così ridicolo si spiega con un solo fattore: la limitazione, nella critica del ruolo (sociale), consistente nel prendere di mira solo il genere (sessuale). Ora, se il genere è un ruolo sociale, esso comunica strettamente con tutti gli altri ruoli sociali, con cui è solidale e di cui è, per così dire, una connotazione permanente. La sua contestazione è nulla se non verte anche sugli altri. Si potrà cambiare sesso tanto spesso quanto si vorrà in una società che vende questo così come vende altro, senza intaccare minimamente il dominio imperante. Da parecchio tempo una maggioranza di omosessuali, dopo aver visto negli anni 70 mettere in discussione l'ordine familiare e sessuale dominante e, andando oltre, il predominio dei ruoli alienanti in genere, ha ribaltato il suo obiettivo, proclamando di voler vivere «come tutti»: è il segno manifesto di chi batte in ritirata. La società ha offerto loro un posto a condizione di non occuparsi di altro.
Al di là dell'indispensabile libertà di viver(si) come si vuole, le posizioni soggettive contemporanee più diffuse appaiono non di meno come semplici frammenti di una emancipazione mercantile.