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Dal ruolo al genere

Urbain Bizot
La critica generalizzata cui la vita sociale era stata sottoposta prima, durante e dopo il maggio 68, si applicava non solo al dominio della società da parte dello Stato e dell'economia, ma all'insieme del funzionamento derivante da tale dominio, alla parte che ciascuno traeva da questo funzionamento, quindi alla realtà dei ruoli sociali.
I ruoli sociali ricoprono integralmente il campo sociale. Questi modelli di comportamento standardizzati vanno dal padre e madre della famiglia al direttore di fabbrica passando per il poliziotto, il prete, lo psicologo, il professore, il quadro, l'uomo politico, senza tralasciare l'operaio e l'impiegato stesso (giacché all'epoca si parlava dell'auto-superamento del proletariato). E comprendevano anche i ruoli sessuali, dell’uomo o della donna, i quali, per quanto sovrapposti ai ruoli familiari, conservavano nondimeno la loro specificità (si può essere uno spiccato fallocrate senza essere padre di famiglia). I ruoli maschili e femminili erano percepiti come ruoli fra gli altri, tanto è vero che lo stesso individuo può essere simultaneamente donna o uomo, quadro o impiegato, ecc. La realtà concreta di un individuo è incontestabilmente fatta da un insieme di ruoli, col rischio per altro di porre numerosi problemi di attrito o di compatibilità fra gli stessi (ogni settore considera solo i propri interessi, e le donne in particolare, avendo messo in discussione il sincretismo selvaggio della propria realtà concreta, dovendo essere al tempo stesso amante seducente ed elegante, madre amorevole e comprensiva, cuoca raffinata e amministratrice economa, quadro responsabile di un settore commerciale e, se possibile, non troppo ignorante e capace di una discussione presentabile nelle serate mondane). L'abbandono di un ruolo in particolare non implica il superamento degli altri, ovvero si compie, in caso di conflitto fra ruoli, a favore della conservazione degli altri (si può rinunciare ad essere padre di famiglia per meglio assumere una funzione professionale).
La critica dei ruoli approfondiva su un piano soggettivo quella dei rapporti sociali alienati. È difficile assumere una funzione sociale senza identificarsi col tipo di personalità impersonale che la funzione esige. Sul versante soggettivo, la critica mirava a ristabilire un avvio di rapporto umano al di là e a scapito dei rapporti alienati: una volta gettato il dubbio o il discredito su un comportamento «che non è proprio», la meccanica ben oliata dei rapporti alienati si inceppa ed il fermento della loro messa in discussione può intaccare il suo sviluppo. Per quanto inaccettabile che il sistema di sfruttamento della natura e degli umani da parte del valore rientri nei suoi obiettivi e nella sua logica d'insieme, altrettanto lo è nelle sue implicazioni su scala individuale. Per obbedire alle funzioni sociali, chiunque deve trasformarsi in robot disumano. La «banalità del male» è la cosa più diffusa. Se bisogna scegliere fra un «imperativo economico» e la conservazione di un minimo d'umanità, ogni esitazione è bandita; ed è così, tutti i giorni, che inizia la formazione di individui discretamente mostruosi. La «causa» psicologica e comportamentale è totalmente indissociabile dalla «causa» economica, poiché questa ultima esige l'abbandono permanente di ogni dimensione vivente. È questa unità di comportamenti nell'alienazione che la critica dei ruoli aveva cominciato a contrastare.
Ma da allora, man mano che questa contestazione generalizzata sfumava e ricadeva nelle rivendicazioni settoriali, i ruoli sociali in senso stretto (politici e economici) scomparvero dalla scena, perché palesemente non negoziabili dal potere in carica, lasciando posto in maniera esclusiva a ciò che la neo-lingua dominante ha battezzato il «societale». La famiglia e la sessualità, fra altri esempi, beneficiano di un interesse costante e ininterrotto fino ai giorni nostri, ma si sbaglierebbe a ritenere ciò un autentico privilegio; e sarebbe meglio interrogarsi sulle ragioni di una tale sopravvivenza. Alcuni rispondono che sono «lotte» che hanno continuato su questo terreno, e che ne hanno imposto la permanenza. Non che questo sia falso, ma la spiegazione stessa merita di essere spiegata.
La modernizzazione della società capitalista, andando a tappe forzate verso una socializzazione sviluppata dal consumo, e non più solo dal lavoro, deve produrre consumatori in massa, ovvero persone che si ritengono libere. La convinzione della propria libertà ed il desiderio di consumare sono due facce della stessa medaglia. Ogni atto di consumo viene vissuto come una manifestazione della propria libertà personale; all'inverso, qualcuno che non commettesse il medesimo errore di valutazione minaccerebbe di consumare poco, troppo poco. Così (paradosso di cui il mondo mercantile ha il segreto) l'atto più conformista è vissuto, più o meno sotterraneamente, come un atto sovversivo, come un gesto d'emancipazione: il miraggio della merce non ha cessato di esercitare il suo immenso potere. Se il consumatore è l'immagine ufficiale della libertà, non deve avere limiti nel suo consumo (o piuttosto un solo limite, che è insuperabile: quello dei suoi mezzi finanziari). All'interno dei mezzi finanziari esistenti, nessun limite deve essere incontrato o, come direbbe un recente ministro dell'economia, parlando a nome del sistema mercantile: «non devono esserci tabù». Ecco con precisione cosa si pensa e cosa si pratica attualmente. «Nessun tabù», all'occorrenza, vuol dire: «la tua paga deve essere spesa». Ma per mettere in atto un ambiente così «illimitato», agitato da un hybris indispensabile alla rotazione del capitale, bisogna produrre un soggetto individuale capriccioso e sollecitato, al tempo stesso fantasmatico e conformista, pieno di invidie infinite e sempre preoccupato di aver perso qualcosa, non sapendo più distinguere fra piacere e angoscia. Il carattere illimitato del suo desiderio non deve fermarsi, per esempio, davanti ad ostacoli naturali, che la scienza e la tecnologia devono spazzare via. Qualsiasi cosa pur di acquistare.
Se si tiene a mente questa integrazione generale, in quanto condizione di esistenza del nuovo soggetto mercantile, e se si tiene anche conto della perdita altrettanto generale dei «punti di riferimento» tradizionali (poiché la sopravvivenza di vecchi arnesi non convince nessuno), ne derivano logicamente persone alle quali una «nuova identità sessuale» deve apparire come un radicamento desiderabile, come una risposta necessaria e sufficiente alla perdita universale di identità, in relazione all'astrazione mercantile. Questa richiesta di cambiare sesso non è pertanto che un estremo, particolarmente patetico (sia detto qui senza ironia), in un «mondo amoroso» trasformato prima di tutto in «vita sessuale», poi in domande sempre più microscopiche quali lo speed dating, lo speed meeting, il sex chat con o senza webcam, od ogni altra tecnica di incontri effimeri, metodi ereditati dalla ricerca di impiego e miranti ad un CDD (contratto a tempo determinato) non eccedente alcune brevi unità di tempo. Sperando in una identità duratura, l'atto transessuale appare ancora come un residuo d'umanità in questo deplorevole ambiente di frammentazione e di spersonalizzazione.
Non si tratta più allora di sbarazzarsi dei ruoli, come nel 68, ma di scegliere il proprio. Significa rifiutare il «genere» imposto dalla società sulla base di uno zoccolo «naturale», per acquisire quello vicino che non si possedeva. Del resto, non è in realtà una questione di possesso? Ciò che viene vissuto sul modo dell'essere non è rivelatore dell'avere? Simili osservazioni possono essere percepite come offensive dalle persone coinvolte in una pratica transgenere. Queste persone vivono in effetti con sofferenza la loro «condanna» ad un sesso d'origine, e la nostra proposta non è ovviamente quella di imporre sofferenza o di reprimere desideri. Ma l'assunzione di un desiderio, quale che sia, non vieta di porre questioni, e di mantenere una distanza critica in rapporto a quanto si ritiene legittimo per sé.
Il carattere unidirezionale delle trasformazioni sessuali appare in sé eloquente. Si vedono poche donne farsi trasformare in uomini, assai più il contrario. È che (anche se nella sfera della produzione e dello Stato, il modello della società rimane fallocratico) la donna è diventata, nel consumo, un sesso invidiabile, combinante lo status di oggetto del desiderio e di persona emancipata. Nei periodi economicamente (più o meno) fasti in cui il consumo predomina (realmente o simbolicamente), il modello femminile finisce per prevalere, mentre il ruolo maschile diventa obsoleto: la vecchia disuguaglianza dei sessi si inverte allora, temporaneamente. Il nuovo carattere unidirezionale si ritrovava già nell'evoluzione possibile fra eterosessualità e omosessualità: tutti hanno visto un(a) eterosessuale diventare omosessuale, ma mai il contrario. È anche questo che incupisce tanto i difensori dei ruoli sessuali tradizionali: il personaggio dominante del loro immaginario (l'uomo eterosessuale, figura del padre autoritario) non esercita più molta attrazione. Non è una perdita, certo, ma questo non basta a instaurare l'era della felicità. Nei due casi menzionati (transessualismo e cambiamento di orientamento sessuale), il carattere unidirezionale esprime una volontà di aggiornamento davanti a ciò che viene percepito come (post)modernità. Il tedio e la noia legati al modello familiare tradizionale (che sono un dato statistico pesante, senza essere con ciò per forza una legge strutturale inevitabile) costituiscono una forte motivazione per distanziarsene, ma la ridefinizione dell'individuo di fronte al mondo del consumo e dello spettacolo è comunque un bisogno pressante, fonte di cambiamenti.
Davanti a questa evoluzione, la polemica contro il «genere» sessuale non presenta alcun interesse poiché, rifiutando la risposta, questa posizione ottusa rifiuta anche la domanda. Il suo fantasma è il ritorno all'indietro, che è impossibile in ragione stessa degli aspetti più moderni della società che tali persone difendono, ma che rimane probabile se la crisi economica si intensifica, e se per via di questa crisi il lavoro ritroverà una superiorità assoluta sul consumo.
La critica dei ruoli sessuali rimane altrettanto indispensabile di quella di tutti gli altri ruoli, ma è indubbiamente spiacevole che la prima possa separarsi dagli altri. Così come è spiacevole che la critica dei ruoli sessuali sia tornata sul terreno europeo solo come importazione di una teoria americana del genere, pur essendo stata in origine ispirata dalla critica europea del ruolo.
Sarebbe preferibile riallacciarsi alla portata iniziale della critica dei ruoli. I ruoli sessuali, poco importa che si basino su una origine «naturale» oppure «artificiale», essendo comunque una costruzione sociale. Una donna transessuale sarà considerata come un uomo. La differenza è che vuole esserlo al punto da volerlo diventare: diventa quindi un’accettazione del ruolo, non più la sua messa in discussione. Ora il ruolo sessuale, come tutti i ruoli, non si giudica in relazione alla sua origine fisica, ma in base alla sua realtà sociale. L'identità sessuale, com'è analizzata dalla teoria del genere, consiste essenzialmente in stereotipi sociali costruiti in vista di un comportamento normalizzato. Ma questa stessa normalità non ha mancato di evolversi. Ciò che era inaccettabile per la vecchia normalità diventa facilmente un ingrediente utile alla nuova, e la sovversione finisce per diventare adeguamento. Pervenire a un destino così ridicolo si spiega con un solo fattore: la limitazione, nella critica del ruolo (sociale), consistente nel prendere di mira solo il genere (sessuale). Ora, se il genere è un ruolo sociale, esso comunica strettamente con tutti gli altri ruoli sociali, con cui è solidale e di cui è, per così dire, una connotazione permanente. La sua contestazione è nulla se non verte anche sugli altri. Si potrà cambiare sesso tanto spesso quanto si vorrà in una società che vende questo così come vende altro, senza intaccare minimamente il dominio imperante. Da parecchio tempo una maggioranza di omosessuali, dopo aver visto negli anni 70 mettere in discussione l'ordine familiare e sessuale dominante e, andando oltre, il predominio dei ruoli alienanti in genere, ha ribaltato il suo obiettivo, proclamando di voler vivere «come tutti»: è il segno manifesto di chi batte in ritirata. La società ha offerto loro un posto a condizione di non occuparsi di altro.
Al di là dell'indispensabile libertà di viver(si) come si vuole, le posizioni soggettive contemporanee più diffuse appaiono non di meno come semplici frammenti di una emancipazione mercantile.