**
No, vaffanculo, io non sono Charlie
Questa mattina i parigini e le parigine, e attraverso loro il mondo intero, si sono svegliati in un odore macabro di polvere da sparo. Alcuni fanatici religioni, non sono i primi, non saranno gli ultimi, hanno aperto il fuoco durante la riunione settimanale della redazione del giornale satirico Charlie Hebdo. Una dozzina di morti e dei feriti, per la maggior parte si tratta di giornalisti e vignettisti conosciuti da tutti e regolarmente presenti sui mass media, poi due sbirri, i quali, a differenza degli altri, ricevevano un salario per farsi sparare addosso. A parte forse qualche vecchio lupo di guerra, la prima reazione suscitata da questi avvenimenti è l’empatia di fronte al terrore di questo assalto. In effetti questo attentato, che è il più sanguinoso in Francia dai tempo di quello, fascista, del treno Strasburgo-Parigi del 18 giugno 1961 durante la guerra d’Algeria, non può che provocare sgomento di fronte alla determinazione ed alla fuga in avanti dei suoi autori. Lo sgomento, allo stesso modo, di fronte all’infamia religiosa che distoglie, più che mai, una buona parte dell’umanità da una vera riflessione sul mondo che la circonda. A tutto ciò, per noi anarchici e rivoluzionari, viene ad aggiungersi lo sgomento per la sempiterna unità nazionale. Quell’unità nazionale che tirano fuori ogni volta che gli Stati hanno bisogno di carne da cannone proletaria. Perché sono sempre gli stessi quelli a cui viene chiesto di sacrificarsi sui sentieri della gloria, per interessi che non sono i loro, come la nazione, la “pace” o la repubblica, mentre quelli che prendono le decisioni si grattano la schiena contro gli stucchi dorati dei loro palazzi.
Ci hanno già giocato questo tiro cent’anni fa, nel 1914, esortandoci all’unità contri i “crucchi”, o qualche anno fa con il «caso Merah», ed oggi è lo stesso. Padroni e lavoratori, prigionieri e secondini, sbirri e “delinquenti”, ricchi e poveri, tutti uniti mano nella mano per osservare il lutto nazionale. Oggi non ci sono più classi, non ci sono più barriere fra le persone e nemmeno barricate, nonostante centinaia di migliaia di persone sfilino nelle strade di tutta la Francia (e anche altrove). Ma, in fin dei conti, tutto questo a chi serve? Certamente non agli indesiderabili che popolano le strade di Parigi e del mondo. All’improvviso, il terrorismo di Stato, il terrorismo repubblicano e democratico, i terroristi del denaro versano le loro lacrime di coccodrillo e si fanno passare per i buoni; i jihadisti servono loro quest’opportunità su un vassoio che prende le proporzioni dell’universo, a tal punto che adesso ci manca soltanto il maresciallo [Pétain, NdT] per prendere la testa dell’organigramma. Ma oggi non si tratta di recuperare l’Alsazia e la Lorena, si tratta di «difendere i valori della laicità e della libertà d’espressione». Tutta merda, insomma, per noi che vogliamo distruggere tutte le religioni e che rifiutiamo ogni libertà di espressione a chiunque porti una cravatta, una tonaca, qualunque uniforme o titolo nobiliare.
Tutti col proprio commento lacrimevole; ogni partito, ogni organizzazione di ogni sponda possibile ed immaginabile, inclusi i libertari, ci vomita ancora il discorso trito e ritrito dei “barbari” all’assalto del «vivere insieme».
Ma cos’è precisamente un barbaro?
Soffermiamoci un attimo su questo termine. Dal greco bárbaros (straniero), questa parola era usata dai Greci antichi per designare le popolazioni che non appartenevano alla loro civiltà, definita attraverso la lingua e la religione elleniche. Il barbaro è quindi l’altro, quello che non condivide la stessa minestra oppure quello che non mangia alla stessa tavola. Montaigne diceva: «Chiamiamo barbarie ciò che non è nei nostri costumi». Come abbiamo già detto altrove, noi non conosciamo barbari, conosciamo solo degli individui che sopravvivono in seno a questa civiltà ammorbante. Non conosciamo nessuno che sia al di fuori, conosciamo sì degli esclusi, ma essi non potrebbero essere più dentro di quanto sono già. I “barbari” di oggi sono ben lungi dall’essere fuori dalla civiltà, anche se per i suoi difensori può probabilmente essere rassicurante pensarlo. Esattamente come la famosa «gang dei barbari» a suo tempo, essi sono dei meri prodotti della civiltà. Ne conoscono i codici, ne utilizzano gli strumenti, e non sono molto lontani da quelli che, ipocritamente, li fustigano. Perché non fa una gran differenza, in fondo, se gli assassini portano un’uniforme verde oppure nera, se gridano «viva la democrazia» o «Allahu akbar», se portano una bandiera tricolore o una jihadista, se vengono condannati dall’opinione pubblica oppure no, se i loro massacri sono legali oppure illegali, se ci massacrano per portarci il loro Illuminismo oppure la loro oscurità. Commettendo le loro macabre gesta, si mettono tutti allo stesso livello, a partire dal momento in cui rifiutano all’individuo di realizzarsi come meglio crede.
Il terrorismo non è una pratica barbara, è una pratica altamente civilizzata, la democrazia non è forse nata dal Terrore? È per questa ragione che bisogna combattere il terrore allo stesso modo della civiltà che lo produce e ne ha bisogno, dai “settembristi” del 1792 alle pene detentive sterminatrici e a Daesh oggi. Chi sono, quei porci in cravatta che mandano i loro eserciti all’assalto delle popolazioni della Repubblica Centrafricana, dell’Afghanistan e di altri luoghi e che ci danno lezioni di pacifismo quando dodici persone vengono assassinate a Parigi? Sono esattamente tutti quelli che in questi giorni sfilano in TV per versare qualche lacrima a costo zero, per guadagnare o non perdere uno o due miserabili punti in più nei loro altrettanto miserabili sondaggi d’opinione.
Oggi non siamo Charlie più di ieri e la morte non trasforma i nostri avversari o i nostri nemici di ieri in amici di oggi; lasciamo questa visione del mondo alle iene e agli avvoltoi. Non abbiamo l’abitudine di piangere sulle tombe dei giornalisti (anche quelli vagamente alternativi o libertari) e degli sbirri, perché è da molto tempo che abbiamo riconosciuto i media e la polizia come le due armi essenziali di questo terrorismo civilizzatore, da una parte con la fabbricazione del consenso, dall’altra con la repressione e l’imprigionamento. Ecco perché rifiutiamo di piangere dei lupi insieme ad altri lupi o anche insieme alle pecore.
Quei predatori che ci esortano a piangere in coro, a dichiarare «Io sono Charlie», quegli stessi predatori in giacca e cravatta che sono responsabili dell’affermarsi di gruppi e movimenti come Al Qaeda e Daesh, vecchi alleati delle democrazie occidentali contro i precedenti pericoli, prima di conquistare un posto di rilievo sul podio degli odierni pericoli geostrategici. Quegli stessi schifosi che ogni giorno, nei tribunali, nei commissariati, nelle prigioni, assassinano, rinchiudono, mutilano e sequestrano coloro che non seguono il sentiero tracciato imposto a colpi di manganello e di istruzione. Quegli stessi esseri civilizzati che fanno morire ogni giorno alle frontiere coloro che cercano di fuggire la miseria e le guerre provocate proprio da loro, o dai loro nemici attuali, salafisti e consorti.
Costoro, non abbiamo nessuna intenzione di vederli continuare a civilizzarci e a sopprimerci, e ancora meno di serrare i ranghi con loro. Perché è contro di loro che vogliamo serrarli, contro di loro e tutti quelli che, con diversi pretesti, religiosi, politici, comunitaristi, interclassisti, civilizzatori e nazionalisti, ci considerano solo pedine da piazzare, da sacrificare, su una scacchiera immonda ed assurda. È una buona idea, oggi come ieri e come domani, ricordare le parole di Rudolf Rocker: «gli Stati nazionali sono in pratica organizzazioni di Chiese politiche; la cosiddetta “coscienza nazionale” non è innata nell’uomo, ma è costruita in lui da un deliberato addestramento. È un concetto religioso per cui si è francese o germanico o italiano allo stesso modo che si è cattolico o protestante o ebreo».
Ciononostante, non si tratta di sminuire il pericolo rappresentato da quei pazzi di Allah, innamorati dell’auto-sottomissione e del masochismo morale. E se oggi siamo completamente superati dalla loro capacità di reclutare un po’ dappertutto per andare a farsi saltare in aria a destra e a manca, bisognerà porsi delle domande a questo proposito, per riuscire a capire, senza cedere alle sirene di chi ci vuole dividere ancor di più, generalizzando a partire da un’infima parte dei musulmani. Senza cedere cioè alla stigmatizzazione di tutta una popolazione, per arrivare al presunto «scontro di civiltà» che li fa tanto sognare, in pratica la guerra civile, delle cui possibili conseguenze per tutti forse non si rendono conto.
E che dire di quell’uomo delle pulizie crivellato di pallottole, giustiziato freddamente, che non aveva chiesto niente a nessuno? Chi se ne preoccupa? Probabilmente non aveva un’utenza Twitter, né agganci all’interno dello spettacolo moderno, né un nome, una faccia, nessun amico che lo pianga in televisione. Non era Charlie. Non è che un danno collaterale di qualche folle di dio dal grilletto illuminato, come tanti altri, di questi tempi, come le milioni di vittime collaterali degli Stati, per il mondo. È a lui che vanno i nostri pensieri questa sera.
Una cosa è sicura, non c’è da scegliere fra la peste ed il colera, fra un qualunque dio con i suoi profeti sgozzatori, crocifissi o massacratori e un qualunque Stato di merda con i suoi sbirri ed i suoi militari assassini. Rifiuteremo ancora, e sempre, l'imposizione di scegliere fra diverse forme di schiavitù e di sottomissione. La scelta che vogliamo fare non potrà venire che da noi stessi ed è quella della libertà.
In questa epoca di disperazione, di fronte alla pseudo “unità nazionale”, di fronte alla guerra civile, alle jihad dei fanatici e alle “guerre pulite” degli Stati, dobbiamo riportare la guerra sociale al centro dello scenario, fino a che lo scenario bruci.
[7/1/15]