Quando un filosofo cercava di metterci in guardia dall’antiquatezza dell'uomo, derivante dall'industrialismo e dallo sviluppo di tecnologie apocalittiche quali il nucleare, applicava un metodo preciso. Egli praticava una «critica dell'estrapolazione, dell’esagerazione», perché solo così era possibile rendersi conto dell'enormità delle trasformazioni in corso, che superavano ampiamente la nostra capacità di immaginazione. Soltanto una macchina può trattare un dato come centinaia di migliaia di morti, non essendo capace l'uomo in definitiva di rappresentarselo, di immaginarselo. Sono trascorsi alcuni decenni, le grandi lotte contro «l'apocalisse», resa possibile e concreta dalla proliferazione della tecnologia nucleare, si sono spente, ma non per questo il mondo è cessato. Lo sfruttamento ha varcato nuove soglie, un tempo inimmaginabili. L'idea democratica di un progresso vantaggioso per tutti, dopo un certo periodo di tempo, è smentita dal contrasto tra le sdolcinate melodie dei centri commerciali e le grida di migliaia di indesiderabili che affogano nel Mediterraneo, tra il ronzio dei congelatori e dei frigoriferi pieni e i rumori industriali nei campi di produzione in cui sfacchinano milioni di sfruttati, tra i richiami incessanti, ma «pacifici», dei dispositivi portatili e i gemiti di una fauna e di una flora geneticamente modificate, contaminate, irradiate, sterilizzate, standardizzate, digitalizzate. Malgrado l'adesione e l'entusiasmo smisurato della maggioranza dei nostri contemporanei, il paradiso tecnologico resta una facciata che nasconde crudeltà che — come non accorgersene — non sono nuove, nel senso che la crudeltà ha sempre accompagnato l'uomo nel suo calvario attraverso i secoli, ma che assumono certamente nuove dimensioni. E queste nuove dimensioni sono rese possibili dallo sviluppo tecnologico.
Lo sviluppo tecnologico non è diventato «autonomo» come pretende una certa critica anti-industriale. È totalmente e completamente intrecciato ai rapporti sociali esistenti, rapporti di sfruttamento e di dominio. Le tecnologie che nascono oggi sono il frutto di una determinata società, così come la società è a sua volta modificata o trasformata dall'introduzione di queste tecnologie. Non esiste quindi un Male trascendente che si diverte a rovinarci la vita, il Male è fra di noi, è in noi. Lo subiamo e lo produciamo. Una frase un po' forte, lo comprendiamo, ma lo sviluppo tecnologico si realizza in un dato contesto sociale; ovvero, in una società capitalistica ed autoritaria. Se le «classi» non esistono più (la coscienza di classe, e le condizioni che la favoriscono come le grandi concentrazioni industriali, è stata oggetto di attacchi mortali da parte del capitale), i proletari esistono eccome. Di fatto, sarebbe più esatto parlare di nuovi fossati che si scavano e che strutturano la società. Da un lato gli inclusi, quelli che «godono» dei «benefici» delle tecnologie e del capitalismo e che sembrano situarsi sempre più in un mondo a parte; dall'altro lato gli esclusi, quelli che sono indesiderabili, quelli che crepano nelle miniere di cobalto, lungo i campi di soia geneticamente modificata, sulla riva di fiumi diventati maree tossiche, i superflui. I fossati che li separano si allargano ogni giorno di più, tanto che oggi i ponti di comunicazione stanno saltando l’uno dopo l'altro. Il linguaggio tecnologico ne è un sintomo, la presunta «irrazionalità» e l'odio illimitato che si manifestano nelle esplosioni di rabbia ne sono un altro. E non è affatto detto che le nuove mentalità e credenze fabbricate nei laboratori del potere bastino a difendere il paradiso tecnologico. La distruzione di ciò che non si desidera, di ciò che non si comprende (gli esclusi non sono addomesticati a desiderare e a comprendere il paradiso degli inclusi) è allora ben più logica della ricerca di integrazione. E qua si presenta davanti agli anarchici e ai rivoluzionari odierni, senza mezzi termini e artifizi retorici, la prospettiva necessaria: la distruzione. Più il sistema si interconnette, più tutto diventa contaminato dal virus della merce e dell'alienazione, meno c'è da salvare, o meglio non c'è niente da salvare. Non abbiamo alcun compito costruttivo, se non quello di realizzare le condizioni, le capacità, e l’immaginario che ci permettano di distruggere. Questo concetto di distruzione non comprende soltanto l'attacco contro le strutture e gli uomini del dominio, è anche un attacco alle ideologie, alle mentalità, alle credenze. Come diceva Bakunin, «Nessuno può voler distruggere senza avere perlomeno una lontana idea, vera o presunta, dell’ordine delle cose che a suo avviso dovrebbe succedere a quello precedente; e più questa idea è viva in lui più la sua forza distruttrice diventa potente; e più essa si avvicina alla verità, ovvero più è conforme allo sviluppo necessario all’attuale mondo sociale, più gli effetti della sua azione distruttrice diventano salutari e utili». In altre parole, la nostra azione distruttiva deve andare di pari passo con lo sviluppo, l'esplorazione, l'approfondimento di immaginari completamene differenti che possano avere un effetto corrosivo sulle credenze che sostengono questo mondo di autorità e le sue tecnologie. La tensione utopica, il sogno, il desiderio di libertà, l'amore per il selvaggio e la bellezza, la poesia creatrice di altri mondi, forniscono l'ossigeno necessario al nostro fuoco distruttore.
E il tempo stringe. La questione non è solo che siamo schiavi degli apparecchi, ridotti a una servitù abbrutente e definitivamente alienata in tutti gli ambiti della vita, il punto è che questi apparecchi ci trasformano, il loro spirito prima ci penetra e poi ci rimodella, plasmandoci a loro immagine; diventiamo le brutte copie dell'apparecchio, mentre insistiamo a cercare di raggiungere la sua «perfezione» e la sua «razionalità». L'uomo che ne risulta non è una mera appendice della macchina, è diventato macchina. Si potrebbe sperare che il percorso non darà quei frutti, che l'uomo in fin dei conti non possa essere ridotto a una serie di algoritmi, che la razionalità delle macchine non riuscirà giammai a trionfare su ciò che vi è di assurdo, di imprevedibile, di appassionante, di irrazionale nell'uomo. Ma se guardiamo i nostri contemporanei è una magra consolazione. Richiama alla mente la vecchia talpa dell’escatologia marxiana, preconizzante che le condizioni del capitale avrebbero scavato la fossa al capitalismo. Lasciar scavare la talpa in attesa del diluvio. Il prezzo di una tale grottesca illusione lo si paga tutti i giorni. Il capitale non ha comunque raggiunto i propri limiti nello sfruttamento, producendo contraddizioni insormontabili, li sposta indietro costantemente, instancabilmente, e in particolare attraverso l'iniezione di tecnologia in tutte le sfere fisiche, mentali, sensibili. Il mondo diventa sempre più piccolo, contrariamente a quanto affermano le fanfaronate scientifiche: i campi dell'esperienza umana si riducono ad ogni introduzione di una nuova tecnologia, ad ogni invasione tecnica in un «mistero della natura». Prolungare l'attesa sarebbe solo un suicidio quotidiano. La distruzione, allora. Ma come? Non si può fare a meno di una certa capacità di orientamento. Il saggio che segue cerca di sorvolare gli ambiti che la ricerca si propone di esplorare nei decenni a venire (nanotecnologie, biotecnologie, scienze cognitive, tecnologie dell'informazione) e di stilare un elenco dei progressi tecnologici che hanno trasformato radicalmente, o annunciano di fare, il rapporto con se stessi, con gli altri e col mondo. Si potrebbe dire che è incompleto, ma il suo scopo non è quello. È un’incursione, una ricognizione in territorio nemico al fine di disporre di qualche elemento supplementare per orientare la nostra attività distruttrice.
Il saggio che segue riguarda una questione ineludibile, ovvero che la distruzione necessita — oltre che di conoscenze elementari del nemico, di proprie realizzazioni e propri progetti — di una conoscenza e una disponibilità dei mezzi di distruzione. È l'aspetto costruttivo menzionato; ricercare, sperimentare e poi condividere le maniere di attaccare la bestia tecnologica, le sue unità produttive e i suoi laboratori, le sue antenne di telecomunicazione e le sue infrastrutture energetiche, i suoi strumenti di propaganda e le sue fibre ottiche. Ciò di cui avremmo bisogno è una nuova cartografia, una cartografia del nemico che non menzioni solo i posti di polizia, le banche, gli uffici di partiti e sindacati, le istituzioni, ma sulla quale si possa leggere anche tutto ciò che alimenta lo sfruttamento e il dominio, tutto ciò che ci incatena a questo mondo.
Una simile cartografia può armarci in qualsiasi situazione. Che sia in presenza di una calma piatta o di un movimento di rivolta, che si sia coinvolti in una lotta specifica o si intervenga per sabotare una nuova fase nelle guerre condotte dagli Stati, essa servirà per guardare meglio, per meglio scorgere le nostre possibilità di azione. Non è detto che nel corso di un movimento contro una ristrutturazione dello sfruttamento sia impossibile indicare i ripetitori di telefonia mobile come infrastrutture necessarie alla flessibilità del lavoro; così come non è detto che lo scontro fra arrabbiati e poliziotti in un quartiere non possa estendersi al sabotaggio delle infrastrutture energetiche. «Abbandonare ogni modello per studiare le possibilità» diceva il poeta inglese, abbandonare i modelli obsoleti di un confronto simmetrico, abbandonare ogni mediazione politica o sindacale, per studiare le possibilità di portare il conflitto soprattutto laddove il potere non vuole che avvenga.
introduzione a Les chaînes technologiques d'aujourd'hui et de demain
Entropie éditions, 2017
Traduzione: Finimondo