Vai al contenuto

A proposito di Kavarna

...la passione per la libertà è più forte d'ogni autorità...

«Il diavolo si è installato in un nuovo domicilio. E anche se fossimo incapaci di farlo uscire dal suo rifugio da un giorno all'altro, dobbiamo per lo meno sapere dove si nasconde e dove possiamo stanarlo, per non combatterlo in un angolo in cui non trova più rifugio da molto tempo — e affinché non si prenda gioco di noi nella stanza accanto»
Günther Anders, L'obsolescenza della cattiveria
 
«Come non essere colpiti dalla concomitanza di questa impresa di rastrellamento della foresta mentale con l'annientamento di certe foreste dell'America del Sud con il pretesto di farvi passare delle autostrade?»
Annie Lebrun, L'eccesso di realtà

Quando un filosofo cercava di metterci in guardia dall’antiquatezza dell'uomo, derivante dall'industrialismo e dallo sviluppo di tecnologie apocalittiche quali il nucleare, applicava un metodo preciso. Egli praticava una «critica dell'estrapolazione, dell’esagerazione», perché solo così era possibile rendersi conto dell'enormità delle trasformazioni in corso, che superavano ampiamente la nostra capacità di immaginazione. Soltanto una macchina può trattare un dato come centinaia di migliaia di morti, non essendo capace l'uomo in definitiva di rappresentarselo, di immaginarselo. Sono trascorsi alcuni decenni, le grandi lotte contro «l'apocalisse», resa possibile e concreta dalla proliferazione della tecnologia nucleare, si sono spente, ma non per questo il mondo è cessato. Lo sfruttamento ha varcato nuove soglie, un tempo inimmaginabili. L'idea democratica di un progresso vantaggioso per tutti, dopo un certo periodo di tempo, è smentita dal contrasto tra le sdolcinate melodie dei centri commerciali e le grida di migliaia di indesiderabili che affogano nel Mediterraneo, tra il ronzio dei congelatori  e dei frigoriferi pieni e i rumori industriali nei campi di produzione in cui sfacchinano milioni di sfruttati, tra i richiami incessanti, ma «pacifici», dei dispositivi portatili e i gemiti di una fauna e di una flora geneticamente modificate, contaminate, irradiate, sterilizzate, standardizzate, digitalizzate. Malgrado l'adesione e l'entusiasmo smisurato della maggioranza dei nostri contemporanei, il paradiso tecnologico resta una facciata che nasconde crudeltà che — come non accorgersene — non sono nuove, nel senso che la crudeltà ha sempre accompagnato l'uomo nel suo calvario attraverso i secoli, ma che assumono certamente nuove dimensioni.  E queste nuove dimensioni sono rese possibili dallo sviluppo tecnologico.  

Lo sviluppo tecnologico non è diventato «autonomo» come pretende una certa critica anti-industriale. È totalmente e completamente intrecciato ai rapporti sociali esistenti, rapporti di sfruttamento e di dominio. Le tecnologie che nascono oggi sono il frutto di una determinata società, così come la società è a sua volta modificata o trasformata dall'introduzione di queste tecnologie. Non esiste quindi un Male trascendente che si diverte a rovinarci la vita, il Male è fra di noi, è in noi. Lo subiamo e lo produciamo. Una frase un po' forte, lo comprendiamo, ma lo sviluppo tecnologico si realizza in un dato contesto sociale; ovvero, in una società capitalistica ed autoritaria. Se le «classi» non esistono più (la coscienza di classe, e le condizioni che la favoriscono come le grandi concentrazioni industriali, è stata oggetto di attacchi mortali da parte del capitale), i proletari esistono eccome. Di fatto, sarebbe più esatto parlare di nuovi fossati che si scavano e che strutturano la società. Da un lato gli inclusi, quelli che «godono» dei «benefici» delle tecnologie e del capitalismo e che sembrano situarsi sempre più in un mondo a parte; dall'altro lato gli esclusi, quelli che sono indesiderabili, quelli che crepano nelle miniere di cobalto, lungo i campi di soia geneticamente modificata, sulla riva di fiumi diventati maree tossiche, i superflui. I fossati che li separano si allargano ogni giorno di più, tanto che oggi i ponti di comunicazione stanno saltando l’uno dopo l'altro. Il linguaggio tecnologico ne è un sintomo, la presunta «irrazionalità» e l'odio illimitato che si manifestano nelle esplosioni di rabbia ne sono un altro. E non è affatto detto che le nuove mentalità e credenze fabbricate nei laboratori del potere bastino a difendere il paradiso tecnologico. La distruzione di ciò che non si desidera, di ciò che non si comprende (gli esclusi non sono addomesticati a desiderare e a comprendere il paradiso degli inclusi) è allora ben più logica della ricerca di integrazione. E qua si presenta davanti agli anarchici e ai rivoluzionari odierni, senza mezzi termini e artifizi retorici, la prospettiva necessaria: la distruzione. Più il sistema si interconnette, più tutto diventa contaminato dal virus della merce e dell'alienazione, meno c'è da salvare, o meglio non c'è niente da salvare. Non abbiamo alcun compito costruttivo, se non quello di realizzare le condizioni, le capacità, e l’immaginario che ci permettano di distruggere. Questo concetto di distruzione non comprende soltanto l'attacco contro le strutture e gli uomini del dominio, è anche un attacco alle ideologie, alle mentalità, alle credenze. Come diceva Bakunin, «Nessuno può voler distruggere senza avere perlomeno una lontana idea, vera o presunta, dell’ordine delle cose che a suo avviso dovrebbe succedere a quello precedente; e più questa idea è viva in lui più la sua forza distruttrice diventa potente; e più essa si avvicina alla verità, ovvero più è conforme allo sviluppo necessario all’attuale mondo sociale, più gli effetti della sua azione distruttrice diventano salutari e utili». In altre parole, la nostra azione distruttiva deve andare di pari passo con lo sviluppo, l'esplorazione, l'approfondimento di immaginari completamene differenti che possano avere un effetto corrosivo sulle credenze che sostengono questo mondo di autorità e le sue tecnologie. La tensione utopica, il sogno, il desiderio di libertà, l'amore per il selvaggio e la bellezza, la poesia creatrice di altri mondi, forniscono l'ossigeno necessario al nostro fuoco distruttore.  

E il tempo stringe. La questione non è solo che siamo schiavi degli apparecchi, ridotti a una servitù abbrutente e definitivamente alienata in tutti gli ambiti della vita, il punto è che questi apparecchi ci trasformano, il loro spirito prima ci penetra e poi ci rimodella, plasmandoci a loro immagine; diventiamo le brutte copie dell'apparecchio, mentre insistiamo a cercare di raggiungere la sua «perfezione» e la sua «razionalità». L'uomo che ne risulta non è una mera appendice della macchina, è diventato macchina. Si potrebbe sperare che il percorso non darà quei frutti, che l'uomo in fin dei conti non possa essere ridotto a una serie di algoritmi, che la razionalità delle macchine non riuscirà giammai a trionfare su ciò che vi è di assurdo, di imprevedibile, di appassionante, di irrazionale nell'uomo. Ma se guardiamo i nostri contemporanei è una magra consolazione. Richiama alla mente la vecchia talpa dell’escatologia marxiana, preconizzante che le condizioni del capitale avrebbero scavato la fossa al capitalismo. Lasciar scavare la talpa in attesa del diluvio. Il prezzo di una tale grottesca illusione lo si paga tutti i giorni. Il capitale non ha comunque raggiunto i propri limiti nello sfruttamento, producendo contraddizioni insormontabili, li sposta indietro costantemente, instancabilmente, e in particolare attraverso l'iniezione di tecnologia in tutte le sfere fisiche, mentali, sensibili. Il mondo diventa sempre più piccolo, contrariamente a quanto affermano le fanfaronate scientifiche: i campi dell'esperienza umana si riducono ad ogni introduzione di una nuova tecnologia, ad ogni invasione tecnica in un «mistero della natura». Prolungare l'attesa sarebbe solo un suicidio quotidiano. La distruzione, allora. Ma come? Non si può fare a meno di una certa capacità di orientamento. Il saggio che segue cerca di sorvolare gli ambiti che la ricerca si propone di esplorare nei decenni a venire (nanotecnologie, biotecnologie, scienze cognitive, tecnologie dell'informazione) e di stilare un elenco dei progressi tecnologici che hanno trasformato radicalmente, o annunciano di fare, il rapporto con se stessi, con gli altri e col mondo. Si potrebbe dire che è incompleto, ma il suo scopo non è quello. È un’incursione, una ricognizione in territorio nemico al fine di disporre di qualche elemento supplementare per orientare la nostra attività distruttrice.  

Il saggio che segue riguarda una questione ineludibile, ovvero che la distruzione necessita — oltre che di conoscenze elementari del nemico, di proprie realizzazioni e propri progetti — di una conoscenza e una disponibilità dei mezzi di distruzione. È l'aspetto costruttivo menzionato; ricercare, sperimentare e poi condividere le maniere di attaccare la bestia tecnologica, le sue unità produttive e i suoi laboratori, le sue antenne di telecomunicazione e le sue infrastrutture energetiche, i suoi strumenti di propaganda e le sue fibre ottiche. Ciò di cui avremmo bisogno è una nuova cartografia, una cartografia del nemico che non menzioni solo i posti di polizia, le banche, gli uffici di partiti e sindacati, le istituzioni, ma sulla quale si possa leggere anche tutto ciò che alimenta lo sfruttamento e il dominio, tutto ciò che ci incatena a questo mondo.  

Una simile cartografia può armarci in qualsiasi situazione. Che sia in presenza di una calma piatta o di un movimento di rivolta, che si sia coinvolti in una lotta specifica o si intervenga per sabotare una nuova fase nelle guerre condotte dagli Stati, essa servirà per guardare meglio, per meglio scorgere le nostre possibilità di azione. Non è detto che nel corso di un movimento contro una ristrutturazione dello sfruttamento sia impossibile indicare i ripetitori di telefonia mobile come infrastrutture necessarie alla flessibilità del lavoro; così come non è detto che lo scontro fra arrabbiati e poliziotti in un quartiere non possa estendersi al sabotaggio delle infrastrutture energetiche. «Abbandonare ogni modello per studiare le possibilità» diceva il poeta inglese, abbandonare i modelli obsoleti di un confronto simmetrico, abbandonare ogni mediazione politica o sindacale, per studiare le possibilità di portare il conflitto soprattutto laddove il potere non vuole che avvenga.

introduzione a Les chaînes technologiques d'aujourd'hui et de demain

Entropie éditions, 2017

Traduzione: Finimondo

Per la cronaca, il nostro compagno Paska si è beccato 8 mesi per essersi difeso come poteva da un pestaggio delle guardie. Come risuona al di fuori di molte gabbie, fuoco alle galere e secondino pezzo di merda...

DICHIARAZIONE DI PASKA

Dal 3 Ottobre 2018 al 20 marzo 2019 sono stato detenuto presso il Carcere di La Spezia. Non entrerò nei più specifici dettagli delle modalità detentive che ho subito, cosa di cui tra l’altro non mi lamento poiché essendo libertario era più che prevedibile il trattamento riservatomi. Citerò quindi solo le cose più eclatanti accadutemi. Riportare dei fatti non vuol dire né reclamare né piangersi addosso: sono solo avvenimenti accaduti, e la realtà delle cose non ha mai fatto male a nessuno. Anzi questa dichiarazione potrà forse infastidire qualcuno che vuole che me ne stia zitto e buono solo ad aspettare questa sentenza, quindi benvenga.

Appena arrivato a Fontevivo ho avuto subito seri rallentamenti della posta senza avere la censura richiesta né dal pm né dalgiudice né dal DAP: probabilmente la penitenziaria si sentiva in dovere di monitorare le mie lettere per chissà quale motivo. Dopo 6 giorni dal mio arrivo mi è stato comunicato che avevo un divieto di incontro con un altro compagno ivi recluso, cosa stabilita sicuramente dalla Direzione del carcere senza nessuna sollecitazione esterna, quindi che lor signore non si nascondano dietro frasi di sorta: il DAP non ha chiesto nessun divieto, tanto che il giorno prima di questa famigerata imposizione mi sono incontrato con il compagno a messa.

Sono stato collocato in una cella insieme ad una persona con cui non condividevo di sicuro le mie idee politiche né tantomeno erano minimamente affini, e questo lo sapeva tutta la direzione carceraria e tutta la polizia penitenziaria di Spezia: abbiamo soprasseduto entrambe a questo disguido ed in altro modo abbiamo risolto la problematica creatasi dopo pochi giorni. Durante le traduzioni, ed in particolare quella del 18 Ottobre 2018 sono stato trasportato, o meglio sballottato come un pacco postale riportando enormi dolori costali, che ancora oggi riaffiorano, solo per la spavalderia delle guardie che erano particolarmente gasate nel trasportare un detenuto con furgoncino, macchina di scorta davanti e mitraglietta in bella vista: che emozione avranno vissuto gli aguzzini che sono quasi riusciti a spaccarmi la testa con le loro eroiche gesta frutto di una guida da formula uno in centro città! Dopo pochi giorni sono anche riusciti a spaccarmi la testa davvero, ma ci arriveremo.

Sono entrato in sciopero della fame per 20 giorni perdendo 15Kg., ho chiesto il trasferimento in altro luogo perché non era assolutamente né accettabile né sopportabile andare a processo con la loro scorta, l’unica con la quale abbia mai avuto problemi di traduzione nonostante i numerosi “viaggi”, se così si possono chiamare, che ho subito durante la mia breve detenzione. Teramo-Lecce, Teramo-La Spezia, Lecce-La Spezia, Firenze-Teramo-La Spezia in un sol giorno, Viterbo-Firenze, Lecce-Viterbo e viceversa, tutti sempre senza manette o comunque senza riportare lividi o bozzi per la traduzione.

Per non parlare dell’essere fuori regione e a 150km dal luogo del processo per il quale all’epoca ero detenuto, processo con calendarizzazione praticamente bisettimanale e molto lungo, e a 520km dal mio luogo di residenza e quello di mia madre, che di certo non è una signorina giovane e forte visti i suoi (all’epoca) 71 anni di età e i non pochi problemi fisici, quali il suo ancora attuale monitoraggio per la guarigione da un tumore e le altre svariate operazioni che ha affrontato negli ultimi anni che non starò qui ad elencare.

Alla successiva traduzione, l’8 Novembre 2018 dopo aver chiesto in tutti i modi un trasferimento ed aver fatto presente l’incompatibilità con il Nucleo Traduzioni, mi hanno assegnato nuovamente la stessa scorta del 18 Ottobre. A quel punto, ho ridato ai gentili signori la botta in testa e le manette sul costato che mi hanno regalato il mese prima sotto forma di due spinte a due agenti. Di certo non negherò di aver spinto due guardie poiché, dopo aver subito tutte queste vicissitudini, il livello di sopportazione era più che esaurito. Dopo aver spinto quindi prima una guardia sul piano della sezione, ed un’altra nel corridoio della matricola, senza tra l’altro aver fatto cadere proprio nessuno, sono stato messo al muro da due agenti (che piano piano sono diventati una dozzina, partecipi tutti al pestaggio), e mi hanno iniziato a riempire di calci, pugni e schiaffi. Ho potuto solo ripararmi il più possibile finché non sono stato scaraventato a terra, e ho continuato a ricevere colpi in faccia, sulle ginocchia, sul costato, sulla schiena, con uno dei testimoni dell’accusa (che si è fatto anche refertare!), che si è seduto sul mio petto con le ginocchia, mentre i suoi colleghi mi calpestavano le braccia con gli anfibi per evitare che mi proteggessi, e ha continuato per 2-3 minuti a colpirmi in faccia con schiaffi, pugni e sputi. Il tutto è continuato per una decina di minuti.

Un appunto per chi mi ha così definito: meglio figlio di puttana in caso che figlio di picchiatore in divisa sempre! Ed altri appunti per altri picchiatori: hai visto che il pezzo di merda (come mi ha definito uno dei testimoni dell’accusa per codesto processo) non è rimasto a Spezia fino alla fine delle udienze del processo di Firenze, anche se il procedimento è terminato dopo Maggio? Questo mi è stato detto nel retro dell’aula di Tribunale di Firenze l’8 Novembre 2018, in seguito al pestaggio ed alla mia “cacciata” dall’aula decisa dal giudice, mentre ero ammanettato e mi spintonavano. Peccato che il viaggetto me l’abbiano fatto fare solo il 20 Marzo, speravo di partire un po’ prima sinceramente.

In seguito, sempre il 18 Novembre, il medico mi ha dato il nulla osta di traduzione su mia richiesta, dopo avermi assicurato che avrebbe riportato gli evidenti lividi e bozzi sul mio corpo. Logicamente non ha fatto ciò, ed io aspettandomelo sono andato ugualmente a processo per mostrare come mi avevano combinato, nonostante il mio evidente stato di stordimento (ero anche in sciopero della fame già da 5 giorni). Mi hanno visto tutti e tutte in aula, ho chiesto di leggere una dichiarazione dove informavo i presenti e le presenti che ero stato pestato dalle guardie, ma il giudice, evidentemente, dopo aver visto lo stato in cui ero ridotto si sarà stizzito nel dover ammettere che la penitenziaria mi avesse picchiato, e mi ha fatto portare via dall’aula. A quel punto i secondini hanno stracciato la mia dichiarazione e mi hanno stretto le manette ai polsi a più non posso, con le mai che erano diventate viola e che mi si gonfiavano, relazionandosi con me con gli epiteti sopra citati. Di questo il signor PM dubito abbia chiesto, ma poco importa. Forse la Procura era troppo impegnata a richiedere 14 rinvii a giudizio e altrettanti fogli di via per un imbrattamento ed un volantinaggio in centro a La Spezia? O ad aprire un procedimento di 4 sorveglianze speciali per questi avvenimenti del 5 Gennaio 2019? Oppure accumulare in maniera frettolosa e sconclusionata materiale per un 270bis,dato che alcune ed alcuni hanno deciso di portare solidarietà ad un loro amico e compagno pestato in carcere?

O più che altro, forse, dico forse, era fastidioso che tutta la situazione creatasi dopo il pestaggio portasse a galla verità inconfutabili e rendesse noto alla popolazione di La Spezia che in quel carcere avvengono ripetuti e frequenti pestaggi? Ma tutto sommato, fa più paura un volantino, uno scritto, che un imbrattamento, perché è la realtà a fare più paura di tutto il resto. Cosa palese che si denota anche per le misure di sicurezza adottate per lo svolgimento di questo processo: militarizzazione completa della città ed al contempo continui silenzi su ciò che sta accadendo. Nessuno e nessuna deve sapere che questo processo si sta svolgendo, né che i secondini di Spezia pestano i detenuti. Insabbiare, zittire nascondere: ecco cosa fa il potere con la realtà. Ma si sa, che esiste sempre la realtà che è una cosa, e la realtà accusatoria che ne è un’altra. Ritornato in carcere dopo 8 ore di processo ho provato a farmi visitare da un altro medico, sperando in un esito differente, ma circondato da 8 guardie intorno ed al lume di candela perché era andata via la luce, la risposta è stata: “No, non si vede niente, io non li vedo i bozzi, mi dispiace, non posso basarmi su quello che mi dici tu”. Tipico. Il giorno dopo ho avuto il consiglio disciplinare, dove ho dichiarato che di aver dato la spinta a due guardie e poi sono stato pestato (e calpestato), ma nonostante gli evidenti segni in faccia mi è stato pure detto, da qualcuno che ha ammesso in questa sede di non essere presente al Consiglio di disciplina, “Questo lo insinua lei Fallanca”. Eh bè. Ho chiesto quindi di farmi refertare ancora una volta ma il nuovo medico mi ha consigliato di assumere psicofarmaci per calmarmi dato che non avevo lividi addosso. Nel frattempo continuavo lo sciopero della fame. Il pomeriggio sono andato di nuovo in infermeria e sempre la stessa cosa. Il giorno successivo, il medico di turno, che poi ha spudoratamente mentito in quest’aula, ha segnalato che sì c’erano dei bozzi in testa e dei lividi: solo dopo 4 visite sono riusciti a scrivere qualcosina, non tutto di certo, né hanno prenotato una lastra alla schiena come da me richiesto. Per la cronaca i dolori alla schiena ancora me li riporto da più di 2 anni, comunque.. Da quel momento in poi non ho più voluto avere rapporti con il personale medico di La Spezia, visto che incarna l’essenza della buffonaggine e sono il braccio destro della penitenziaria coprendo svariati pestaggi.

Nonostante ciò loro mi hanno continuato a cercare. Nel frattempo hanno fatto partire nei miei confronti una procedura di applicazione della misura del 14-bis per 3 mesi, ed al mio diniego di colloquio con la Psichiatra (che voleva somministrarmi psicofarmaci), scontati i 15 giorni di isolamento mi hanno messo in una cella singola con la Grande Sorveglianza Interna, dicitura per chi ha problemi psichici. Ma come, non ho mai preso farmaci se non l’antistaminico per le allergie né mai avuto colloqui con uno psichiatra in 33 anni, e dopo un pestaggio da parte delle guardie, con i medici che non mi refertano, mi appioppate pure una sorveglianza psichiatrica? Dopo un acceso colloquio con il Dirigente Sanitario, mi hanno tolto nel giro di mezz’ora questa inutile dicitura, segno che era solo a scopo repressivo e per avere maggiore controllo autorizzato su di me. La psichiatria all’interno delle carceri è funzionale all’annichilimento delle menti, serve solo a quello, altrimenti perché persone che non hanno mai assunto nessun psicofarmaco in carcere si riempiono di gocce, che il personale sanitario ti dà anche senza prescrizione e nel giro di dieci minuti, facendo chiamare alla guardia l’infermeria? Mentre per un’aspirina o un antidolorifico attendi ore? Provare per credere, e così ho fatto una volta durante il 14-bis: nel giro di 7 minuti, vai con le 20 gocce di Rivotril che mi hanno dato perché “ero nervoso e avevo bisogno di calmarmi”: logicamente ho subito riversato il contenuto del bicchierino nel gabinetto.

Dopo tutto questo ambaradan, mi hanno comminato anche 3 mesi di 14-bis, ovvero l’isolamento senza né tv né fornello in cella: peccato che sul provvedimento non era scritto da nessuna parte che dovessi fare l’aria da solo (ultimamente lor signori hanno compreso che far stare 3 o 6 mesi una persona completamente da sola non è che sia proprio il massimo, e il 14-bis in alcuni casi si restringe a stare in cella da soli con il minimo sindacale di suppellettili, ma è prevista sia la cella nelle sezioni che l’aria in comune con gli altri detenuti).

Dopo aver presentato un reclamo al Magistrato di Sorveglianza il mercoledì 6 Febbraio 2019 per fare l’aria con gli altri, tac: neanche hanno aspettato la risposta della camera di consiglio e prevedendo di fare una figuraccia (per dirlo con eleganza), il lunedì 11 già ero all’aria con i comuni. L’ennesimo dispetto, l’ennesimo sopruso. Finalmente il 20 Marzo sono stato trasferito da questo lager, non per avvicinamento colloqui come qualcuno sempre in questa sede ha insinuato, bensì sono stato mandato in uno dei carceri punitivi più pesanti d’Italia, a Viterbo, il Mammagialla, distante 200km dalla mia sede processuale e a 250km da mia madre, quindi effettivamente più vicino. E’ stato comunque un sollievo per me poter andar via da Spezia, anche se dove mi stavano portando è nettamente peggio a livello di condizioni detentive. Ma questa è un’altra storia. Che si sapesse che fino al 20 Marzo non mi avrebbero trasferito era evidente dato che nell’udienza del processo del 20 Dicembre 2018 per cui ero detenuto, (alla quale mi sono recato solo per comunicare all’avvocato dell’inizio del 14-bis sotto Natale -bel regalo!-), il giudice premeva per far terminare il processo entro e non oltre il 20 Marzo, data della fine del mio 14-bis e del mio già programmato trasferimento. Ma a quanto pare hanno aperto anche un 270bis menzognero e falso sul mio trasferimento.

Questo è quello che mi è capitato. Per fortuna sono una persona con una salda mentalità e di corporatura robusta, e conosco a cosa si può andare incontro nelle carceri contro questi loschi figuri: se il pestaggio riservatomi l’avessero “regalato” a qualcun’altro, con la metà del mio peso, chissà come sarebbe andata a finire. Finché sono stato nelle sezioni comuni a La Spezia, c’è stato più o meno un pestaggio a settimana, senza che i detenuti dicessero nulla o volessero far uscire la notizia, per paura di rappresaglie interne da parte delle guardie o di perdere il lavoro. Anche se alcuni detenuti si sono subito resi disponibili a venire a testimoniare i lividi che avevo sul corpo, ho preferito non coinvolgerli chiamando piuttosto a riferire medici e personale del carcere che hanno fatto finta di niente, per evidenziare le contraddizioni nel momento in cui avvengono dei pestaggi nei confronti dei detenuti. I luoghi migliori per picchiare sono le scale e i gabbiotti, dove non ci sono le telecamere. Ma anche dove ci sono le telecamere e funzionano (poiché tutte le telecamere del Carcere di La Spezia funzionano, hanno la luce rossa accesa e registrano, e figuriamoci se proprio quella del corridoio tra l’ufficio matricola ed il magazzino sono inattive, una delle zone più importanti del carcere insieme all’area colloqui!), insomma anche se funzionano poi vien fuori che, chissà perché, hanno dei problemi e non c’è un registro ufficiale per sapere quali siano attive o meno! Ma guarda caso, che buffa coincidenza, è proprio ciò che è avvenuto per questo procedimento penale!

Quello che è successo a me succede a centinaia di detenuti e detenute ogni giorno: e sono convinto che non è che serva, ad esempio, l’inchiesta della procura di Siena per smascherare i pestaggi a San Gimignano, oche la procura di Torino si esprima per dire cosa è tortura o cosa è trattamento degradante, nei confronti dei reclusi e delle recluse. Piuttosto che il rinvio a giudizio a Milano di 8 secondini per aver pestato un detenuto all’aria, come dimostra ampiamente un video che ha fatto il giro del web, od ancora la guardia che a Campobasso punta la pistola sulla tempia di un detenuto durante una traduzione. Ed i 14 morti ammazzati delle rivolte di questo Marzo, morti sparati nel carcere di Modena ed in altre patrie galere, morti che il DAP fa risultare per overdose. Penso possa fermarmi qui con gli esempi.

A Fontevivo, c’è stata la media di un morto ogni 3 mesi, da Luglio 2018 ad Ottobre 2019: 5 date, ovvero 31 Luglio 2018, 5 Agosto 2018, 8 Aprile 2019, 25 Luglio 2019, 31 Ottobre 2019. 15 mesi, 5 morti: un po’ troppo per un carcere con 230 detenuti. Forse o c’è qualcosa che non va (e già l’esistenza stessa di un carcere è un qualcosa che non va), oppure la realtà è che a nessuno interessa dei detenuti, che vengono picchiati in continuazione da guardie impunite che hanno mano libera con l’appoggio degli alti funzionari carcerari (che dopo alcune morti sospette vengono guarda caso trasferiti e hanno un piede in due scarpe, o meglio due direzioni in due carceri..). Come al solito i pezzi grossi li coprono insomma, e i medici fanno silenzio assenso, dato che oltre a cercare di rendere la popolazione carceraria apatica e silente grazie alle loro goccette, riescono a negare l’evidenza non refertando chi prende botte quotidianamente. Questo è il quadro della situazione, sia nel carcere spezzino che altrove ovunque, in Italia e nel mondo.

E’ per questo che non ci sarà pace se non ci sarà giustizia, e nessuna giustizia esisterà mai nelle aule di tribunale né tantomeno finché l’essere umano continuerà ad incarcerare i suoi simili e non solo. Chiudo questa dichiarazione, stringendo forte un compagno a cui è stata comminata la Sorveglianza Speciale per gli avvenimenti successivi al pestaggio che ho subito, e che nel carcere di Torino ha subito la perforazione del timpano a causa di altre infami guardie. Cose all’ordine del giorno insomma. La mia solidarietà va a lui e a tutti i compagni reclusi e le compagne recluse, sorvegliati e sorvegliate, ristretti e ristrette, repressi e represse, in Italia, come nel mondo intero.

Resistete, e dato che già so che lo farete, vi abbraccio fortissimo!

PER LA VERITA’

PER LA LIBERTA’

PER L’ANARCHIA

PASKA

Che le persone non siano solo numeri da diffondere dovrebbe essere un fatto da tenere bene in mente, tanto più negli ultimi tempi dove vi è un’enorme sovrabbondanza di cifre. Parcellizzata e settorializzata, la vita diventa sempre più un frammento che impedisce di guardare alle cose in maniera più ampia. Questo è il frutto di una vita burocratizzata, trattata in ogni aspetto della quotidianità con la lente di un codice. Basterebbe dare uno sguardo alle regole assurde che costantemente vengono imposte, anche in tempi di pandemia o emergenzialità, conseguenza di una visione asettica. O alle disposizioni che provengono dai vari specialisti, totalmente contraddittorie, perché legate a singoli aspetti che non tengono mai in considerazione tutti gli altri. Così che, nello stupore o nella rabbia di fronte ad alcune norme, viene da pensare che un minimo di cultura generale sarebbe sufficiente ad evitare amenità grossolane (ad esempio l’uso di una mascherina mentre si fa attività fisica).

Ma in fondo e d’altra parte, la questione centrale è quella dell’ordine che si vuole riportare alle cose. Da un lato un ordine economico, in cui continuino a sopravvivere privilegi, proprietà, ricchezze riservate a pochi, dall’altro un ordine sociale che possa garantire tutto questo, con una gestione centralizzata, controllando o reprimendo a seconda delle necessità.

In virtù di quest’ordine le strutture di trasformazione del mondo vengono preparate costantemente e servono a garantire lo scheletro della casa in costruzione.

Se ora si applica il coprifuoco, togliendo la possibilità di circolare dopo una certa ora, e si chiudono piazze e strade che divengono inaccessibili, ufficialmente per evitare assembramenti, da qualche anno i vari decreti sicurezza adottano la stessa ratio, limitando le libertà di alcune categorie di persone per la tutela di un modello di città sempre più escludente. Se il confinamento diviene generalizzato, la diffusione della paura fa introiettare l’autoreclusione e il rispetto delle regole senza grande dispiegamento di forza. Infine, un linguaggio da guerra civile caratterizza il modo in cui viene affrontato il rischio sanitario, facendo dimenticare altri linguaggi e metodi quali la cura e l’attenzione. Non è delegando, che sapremo affrontare meglio le questioni riguardanti la salute, la sopravvivenza, il tempo e gli spazi dell’esistenza.

La non sottomissione quindi è l’antica ricetta che può essere usata per non ridurre la complessità della vita a un protocollo.

Nessun luogo, dicembre 2020

Fonte: disordine.noblogs.org

Se le mura delle prigioni potessero parlare racconterebbero le esperienze di coloro che sono stati (e sono) rinchiusi dietro di esse; forse ci racconterebbero molte storie dove i poveri sono i protagonisti, o forse ci racconterebbero l’immensa brama di libertà che riempie il cuore di chi è rinchiuso nei sotterranei e nelle celle.

Purtroppo, le mura delle prigioni, sono testimoni silenziose delle esperienze delle persone che vi stanno dietro. Raccontare ciò che accade in questi luoghi è quindi precisa responsabilità di ognuno di noi, rapiti dallo Stato, e di chi vuole porre fine all’attuale sistema di terrore. La storia dei prigionieri è la nostra storia e non può andare perduta.

Nelle prigioni regna la tristezza, è signora e padrona, ed è presente nella maggior parte della vita di chi passa per questo luogo grigio. Il carcere di San Miguel non solo conserva storie piene di dolore, ma ha anche molte esperienze di resistenza e di lotta.

Nei primi anni ’90, in questo carcere, furono rinchiusi molti prigionieri politici, uomini di diverse organizzazioni hanno riempito le celle delle torri, fino al trasferimento ai C.A.S. nel 1994, trasferimento a cui i combattenti si opposero con le armi.

Durante la perquisizione delle celle, subito dopo gli scontri, furono trovate numerose armi e munizioni: una pistola Browning da 7,65 mm con sette cartucce; un revolver Trident italiano calibro 38; una pistola Dachmaur con quindici cartucce; una Llama calibro 7,65; una borsa contenente tredici proiettili; un’altra borsa in pelle con altri 18 proiettili; un cellulare a marchio NEC e tre esplosivi fatti in casa (1). Diverse guardie carcerarie e alcuni prigionieri rimasero feriti durante gli scontri, tra cui Mauricio Hernández Norambuena (guerrigliero ed ex-comandante del FPMR, Fronte Patriottico Manuel Rodrìguez). Il comandante Ramiro (uno dei fondatori del FPMR) raccontò: “Rimasi gravemente ferito. Non ero mai stato colpito da un’arma da fuoco prima di allora, ed è stato proprio in carcere che mi spararono per la prima volta” (2). Lo stesso fatto fu raccontato da Ricardo Palma Salamanca (ex-guerrigliero del FPMR) in un’intervista rilasciata a Parigi il 27 gennaio 2019: “Nel bel mezzo degli scontri, due persone rimasero uccise, anche io ero armato, ma nessuna pallottola mi raggiunse.”

Le armi usate nella resistenza durante il trasferimento ai C.A.S. erano originariamente destinate alla fuga. Mauricio Hernandez la racconta così: “Riuscimmo a far entrare diverse armi nel carcere di San Miguel, e realizzammo un progetto di fuga molto interessante, con un supporto esterno, a cui si unirono combattenti di Mapu-Lautaro (capo militare Mapuche protagonista della guerra di Arauco in Cile e del MIR (Movimento della Sinistra Rivoluzionaria). L’idea era quella di far evadere un numeroso gruppo di prigionieri. Fuori il supporto era di quindici o venti combattenti. C’erano buone armi, ma purtroppo il piano fallì. L’intera operazione fu organizzata fin nei minimi dettagli, i combattenti che si trovavano fuori occuparono una casa le cui mura confinavano con quelle della prigione, con l’intenzione di farla saltare in aria. Dovevamo semplicemente attraversare un cancello e uscire da quella parte. Purtroppo, pochi giorni prima della fuga, fummo trasferiti al C.A.S., e le armi che avevamo raccolto per l’evasione le usammo per resistere al trasferimento (3).

Questo non è stato l’unico tentativo di fuga dal carcere di San Miguel. Nel 1997, un gruppo di ex membri della FPRM cercò di fuggire dalla prigione attraverso i tetti, con un sistema di corde e carrucole, raggiungendo così una delle strade confinanti. Ma il tentativo di fuga fallì e scoppiò una rivolta, e i prigionieri coinvolti furono trasferiti nel carcere di Colina I e II, tra cui Jorge Saldivia, ucciso poi in una rapina in banca nel 2014.

Le mura non parlano, ma conservano dei segni difficili da cancellare. Molti detenuti ci dicono che nella Torre 5 del carcere di San Miguel, dove morirono bruciati 81 prigionieri, le macchie dei corpi non sono mai state completamente cancellate… Le donne dicono che le macchie sembrano essere fatte d’olio, e che non importa quanta cera e vernice abbiano messo sui pavimenti e sulle pareti, continuano sempre ad uscire fuori. Si raccontano molti aneddoti sui fantasmi e gli spiriti della torre 5, credenze, miti o realtà… tuttavia la morte degli 81 prigionieri non è stata dimenticata dagli altri detenuti della torre 5, e non dovrebbe essere dimenticata da nessun altro prigioniero.

10 ANNI DOPO IL MASSACRO DELLA PRIGIONE DI SAN MIGUEL: MEMORIA ATTIVA E COMBATTIVA

FINO A QUANDO TUTTE LE GABBIE NON SARANNO DISTRUTTE!

MÓNICA CABALLERO SEPÚLVEDA

PRIGIONIERA ANARCHICA

Note:

(1) Intervista a Ricardo Palma nel libro “Retorno desde el punto de fuga” di Tomás García

(2) “Un passo avanti” Mauricio Hernández Norambuena

(3) “Un passo avanti” Mauricio Hernández Norambuena

Fonte: ContraInfo

Traduzione a cura di: Inferno Urbano

Durante le rivolte di marzo nelle carceri, lo Stato italiano ha compiuto una strage: 14 detenuti vengono ritrovati morti nelle patrie galere. Tredici di loro dentro i corridoi dei penitenziari di Modena, Alessandria, Verona, Ascoli, Parma, Bologna, Rieti; uno di loro morirà successivamente dopo il ricovero nell’ospedale di Rieti. Non una parola pronunciata dallo Stato su queste morti nel corso dei mesi, nemmeno alle famiglie, avvisate – e forse ad oggi nemmeno tutte – a distanza di tempo, dagli avvocati che seguivano le vicende legali dei propri cari detenuti. Se questi morti ad oggi hanno un nome è per opera di chi individualmente si è attivato per ricercarli e renderli noti.

Quello che si è visto fino a qui, non è che un copione degno delle peggiori dittature: insabbiare l’accaduto, costruire una verità ufficiale rimescolando qualche carta, trovare qualcuno da incolpare (i morti stessi, detenuti e tossici, oppure la regia esterna dei mafiosi, o degli anarchici), far sparire i testimoni o terrorizzarli a morte. Un copione che si è già spesso ripetuto nella storia della democratica Italia: dalle stragi di Stato note, seppur mai ufficialmente riconosciute come tali, alle morti in carcere o nei CPR, da quella di Cucchi sino a quella di Vakhtang Enukidze, ucciso dalla Polizia a gennaio di quest’anno nel CPR di Gradisca d’Isonzo.

Sappiamo bene che le inchieste ufficiali condotte dalle Procure di Stato non diranno MAI la verità su queste morti, già in parte liquidate infatti con ipotesi di suicidio, più di preciso avvenuto per tutti e 13 con un’overdose di farmaci. Ne siamo convinte, non solo perché non abbiamo fiducia nello Stato e perché ci è nemica la sua concezione di giustizia. Ma perché di fronte a quanto accaduto sarebbe troppo ingenuo, addirittura contraddittorio, pensare possibile che uno Stato possa arrivare a condannare se stesso con l’accusa di strage nei confronti dei detenuti, la più grande dal dopoguerra.

Le torture a suon di pestaggi e umiliazioni e le minacce inferte nei confronti di chi ha assistito a quel massacro e ne è sopravvissuto sono un monito chiaro, soprattutto nei confronti di chi è ancora detenuto e si trova quindi ancora tra le mani dei suoi aguzzini. Le inchieste delle procure e i provvedimenti disciplinari volti a punire i rivoltosi di tutte le carceri per quelle giornate, non fanno che riprodurre la violenza di quelle torture, contribuendo perfino a legittimarle. Per ora le inchieste note sono quelle di Bologna, Modena, Frosinone, Milano Opera, Milano San Vittore e Roma Rebibbia, con accuse a vario titolo di devastazione e saccheggio, sequestro, incendio, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale. A queste ritorsioni punitive, si aggiunge poi l’espressa esclusione dai benefici delle pene alternative legate all’emergenza Covid in modo specifico per coloro, tra gli altri, che hanno preso parte alle rivolte di marzo. Il messaggio è chiaro: per Bonafede e i suoi alleati, chi non tiene la testa bassa, in galera ci può morire.

Chi è accusato e inquisito dallo Stato per essersi rivoltato trova tutta la nostra solidarietà e, ora più che mai, questo si rende necessario: non soltanto perché quelle rivolte erano comprensibili e giuste, come d’altronde crediamo lo sia ogni atto di ribellione fatto per conquistarsi la libertà da una galera. Ma ancor di più, in tempo di pandemia, perché scatenate dalla necessità dei detenuti di salvarsi la pelle dalla diffusione incontrollata del COVID negli istituti penitenziari e dalla rabbia per l’adozione di misure (blocco dei colloqui in primis) che nulla avevano a che vedere con la tutela della salute. La diffusione del virus nelle carceri, causata dalle nulle o minime misure di sicurezza sanitaria adottate, dagli ingressi e uscite di secondini e altre figure e dalla deliberata scelta di non concedere misure alternative ad ampio raggio, ha provocato il dilagare del virus e, secondo i dati ufficiali, 13 morti per COVID accertate da aprile ad oggi. Non esprimere aperta solidarietà verso chi si è rivoltato e verso chi continua a farlo, significherebbe legittimare il massacro avvenuto durante e dopo le rivolte di marzo e riconoscere allo Stato la licenza di uccidere o lasciar morire chi si trova carcerato, quando ciò gli serve a difendere le proprie prigioni.

A nove mesi da quel 7 marzo, le carceri continuano a rimanere sovraffollate e nella metà degli istituti italiani si registrano veri e propri focolai del virus, la situazione sanitaria continua a essere drammatica e nel “decreto Ristori” di ottobre Bonafede replica le stesse misure farsa del “Cura Italia” di marzo: di nuovo, se già il numero delle persone detenute che potrebbero beneficiare di pene alternative è ristretto, nei fatti sono ancor di meno quelle che escono. Riprendono le proteste in diverse carceri, in particolare nelle forme delle battiture e dello sciopero della fame.

Se in questo interminabile anno, si è cominciato a parlare di carcere e alcuni provvedimenti sulla situazione, seppur insufficienti, sono stati adottati, ciò è accaduto soltanto perché qualcuno a marzo si è rivoltato. Sarebbe troppo comodo e incredibilmente ipocrita non volerlo ammettere o fingere di dimenticarlo.

Abbiamo sempre sostenuto convintamente che se anche 14 persone fossero morte per overdose, la responsabilità sarebbe comunque stata chiara: quella di uno Stato che ti abitua, in carcere, all’assunzione di una pillola quotidiana, che ti infligge quotidianamente la sua dose di disagio psichico e sofferenza e che ti rende, là dentro, tossicodipendente. Proprio come accadeva nel carcere di Modena dove peraltro, proprio nei giorni prima della rivolta e in coincidenza con il DPCM che disponeva la chiusura a doppia mandata delle carceri e dei colloqui con i familiari, era circolata la notizia dei primi detenuti positivi dentro al carcere, uno dei più sovraffollati d’Italia.

Nonostante il terrore inferto dallo Stato per mettere tutti a tacere, alcuni prigionieri, con un atto estremo di coraggio, hanno deciso di rompere il muro di silenzio fatto calare su queste morti. Alle loro voci, che raccontano la verità su quanto accaduto l’8 marzo 2020 al Sant’ Anna, è stato dato pubblicamente spazio in piazza a Modena per la prima volta il 3 ottobre e il 7 novembre.

“Quando è arrivato il corona c’era un uomo malato e non volevano farlo uscire e hanno vietato di farci vedere i famigliari. Dopo ciò è successa una rivoluzione e hanno bruciato il carcere e sono entrate le forze speciali e hanno iniziato a sparare. Sono morte 12 persone di cui 2 miei amici, sono morti davanti ai miei occhi. Sono ancora sotto shock. Io ero scappato fino al tetto del carcere così che non mi sparassero. Dopo ci hanno presi tutti e ci hanno messo in una camera e ci hanno tolto tutti i vestiti e hanno iniziato a picchiarci dandoci schiaffi e calci. Dopo ci hanno ridato i vestiti e ci hanno messo in fila e ci hanno picchiato ancora con il manganello. In quel momento ho capito che ci stavano per portare in un altro carcere. Da quante botte abbiamo preso che mi hanno mandato in un altro carcere senza scarpe. Poi quando siamo arrivati al carcere ci hanno picchiati ancora. Alla fine ho finito di scontare la mia pena. Io sono molto scioccato per i miei amici. Non sono riuscito a fare denuncia contro i carabinieri perché loro sono troppo forti.”

Altri occhi, altre voci hanno meglio precisato di chi fossero le braccia che hanno puntato le armi contro i detenuti, sparando e uccidendoli: della polizia penitenziaria e delle centinaia di carabinieri in antisommossa, accorsi al Sant’Anna per sedare la rivolta.

I media ufficiali, complici del silenzio venutosi a creare intorno a questa vicenda e della creazione di una verità costruita ad hoc per non far trapelare i fatti, mai hanno fatto menzione di questi non trascurabili dettagli nei giorni successivi alle rivolte. Eppure gli spari, anche dai video circolati, si sono sentiti in modo chiaro e distinto.

Solo dopo diversi mesi, due giornaliste hanno pubblicato testimonianze anonime giunte da prigionieri testimoni del massacro modenese che parlavano di detenuti uccisi e non morti di overdose. La Procura ha aperto un fascicolo per “omicidio colposo”, chiamando le due giornaliste a testimoniare.

È enorme la responsabilità che i media hanno avuto nella distorsione della verità di quanto accaduto in quei giorni. Quella che da tv e giornali è stata raccontata come una follia barbara scatenatasi nel penitenziario di Modena (e anche nelle altre carceri d’Italia dove ci sono state proteste e rivolte), ha in realtà origini ben precise. Chi era in quelle celle prima e durante la rivolta lo sa bene. I primi casi di detenuti positivi dentro al Sant’Anna, infatti, non sono stati nient’altro che la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso.  Un vaso da tempo pieno di una sanità spesso assente all’interno degli istituti. I media hanno parlato di morti per overdose. Le voci di chi era presente testimoniano una razzia di farmaci in infermeria da parte di molti, ma fanno emergere anche l’indiscutibile responsabilità delle guardie che, noncuranti del palese stato di alterazione psicofisica di queste persone, hanno infierito sui loro corpi che giacevano inermi a terra, riempiendoli di manganellate in faccia e in testa. Probabilmente, senza questo barbaro regolamento di conti messo in atto da polizia penitenziaria e carabinieri in antisommossa, queste persone non sarebbero morte. Arrivato il momento della “resa”, decine di detenuti sono stati ammassati tra le due porte carraie del carcere, sono stati picchiati a sangue, lasciati in maglietta e senza scarpe. In queste condizioni sono stati caricati sui furgoni e trasferiti a decine verso altre carceri. Al loro arrivo nelle nuove destinazioni l’accoglienza è stata la medesima: squadre di penitenziaria con casco, scudo e manganello. In alcune “nuove destinazioni” questo trattamento brutale e vendicativo è proseguito per giorni dopo l’arrivo. In particolare c’è chi racconta di un carcere dove i nuovi giunti da Modena hanno preso botte e sono stati lasciati senza scarpe per oltre 10 giorni, denunciando poi il tutto ad un ben istituzionalizzato garante dei diritti dei detenuti. Costui, pur avendo visto con i suoi occhi le condizioni dei detenuti trasferiti, non ha detto nulla. Evidentemente questo è il suo ruolo.

Salvatore Piscitelli è forse il nome che più è stato menzionato dai giornali negli scorsi mesi tra quelli dei detenuti uccisi durante e in seguito alla rivolta di Modena. Il suo corpo è stato cremato e le fonti ufficiali, poi riprese anche dal garante stesso, parlano di decesso avvenuto prima del suo ingresso nel carcere di Ascoli; altre sostengono che la morte sia avvenuta in ospedale, al cui ingresso Salvatore non avrebbe presentato lesioni compatibili con violenze o segni di intossicazioni. Ma chi era con lui racconta che, all’arrivo ad Ascoli, Salvatore stava talmente male che gli altri detenuti hanno dovuto fargli il letto mentre era accasciato a terra. La mattina dopo, i detenuti hanno sollecitato le guardie dalle 8.30 alle 10 per fare arrivare il medico che non è mai arrivato. Alle 10.30 i detenuti che erano con Salvatore hanno chiamato nuovamente le guardie, dicendo che era morto. Constatata la morte, gli agenti hanno spostato il suo compagno in un’altra cella, hanno messo il corpo di Salvatore in un lenzuolo e lo hanno portato via.

Come si può credere che questi dettagli siano frutto di fantasia? Come si può non attribuire una responsabilità alle botte volutamente assestate dalle guardie su corpi inermi o alla voluta noncuranza nell’assistenza di coloro che mostravano già enorme sofferenza data dai pestaggi e dalle sostanze ingerite? Come si può liquidare tutto in “morti per overdose” anche laddove le autopsie hanno confermato questa versione?

Per le inchieste delle Procure non hanno valore le testimonianze che raccontano verità in netto contrasto con quelle ufficiali, proprio in quanto anonime e forse anche proprio perché smentiscono del tutto le versioni emerse finora; ma per tutte/i noi ce l’hanno eccome. Comprendiamo bene le ragioni tutelanti di quegli anonimati e sappiamo a chi credere, sappiamo da quale parte stare. Spetta a noi dare eco a queste voci e supportare in ogni modo chiunque troverà il coraggio di farlo, pur nella consapevolezza che ciò che è a repentaglio è la sua propria vita.

Nonostante sia stato il luogo di un massacro, una parte del carcere di Modena è ancora aperta e al suo interno sono ad oggi rinchiuse in regime a celle chiuse circa 200 persone nella sezione maschile, alcune delle quali da marzo stesso. Si hanno notizie di nuovi contagi al suo interno, ma ciononostante le risorse investite dal DAP sono state destinate alla ristrutturazione delle sezioni rese inagibili dalle rivolte, ai sistemi di videosorveglianza e alle nuove ingenti dotazioni di manganelli, scudi, caschi, giubbotti antiproiettile. Negli ultimi mesi, decine di solidali sono tornate in diverse occasioni sotto quelle mura, per portare ai detenuti solidarietà, vicinanza e condividere con loro quanto avvenuto nei giorni di marzo all’interno del penitenziario di Modena e di altre città.

Siamo consapevoli che lo Stato possieda ogni strumento per provare ad intimidirci e ad occultare la verità. Tuttavia è fondamentale che essa emerga. Questa responsabilità spetta a chiunque abbia una coscienza, perchè ciò che è in gioco non è solo la restituzione di una verità storica, che già sarebbe molto; è in gioco la tutela della vita di ogni persona che, qualora rinchiusa dietro le sbarre, non tenga la testa chinata di fronte alle quotidiane angherie delle amministrazioni penitenziarie, alla violenza dei secondini, agli omicidi perpetrati da questi ultimi e dalle altre divise.

Per questo motivo non possiamo tacere e ribadiamo, ancor più in occasione dell’anniversario della strage di Piazza Fontana, che stragista è lo Stato.

Esprimiamo tutta la nostra solidarietà ad Alfredo ed Anna, compagni anarchici condannati il 24 novembre a 20 e 16,6 anni di carcere, anche con l’accusa di strage, perché ritenuti responsabili di un ordigno alla scuola allievi di polizia di Fossano.

STRAGISTA È LO STATO.

LIBERTÀ DALLE GALERE PER TUTTI/E I/LE DETENUTI/E!

LIBERTA’ PER CHI, CONTRO LA VIOLENZA INDISCRIMINATA DELLO STATO, HA SEMPRE LOTTATO!

PERCHÈ MARCO, SALVATORE, SLIM, ARTUR, HAFEDH, LOFTI, ALI, ERIAL, ANTE, CARLO SAMIR, HAITEM, GHAZI E ABDELLAH E TUTTI GLI ALTRI MORTI PER MANO DELLO STATO NON SIANO DIMENTICATI

Anarchiche e anarchici