In effetti, è impossibile negarlo. Se vuole riuscire ad essere mobilitante la narrazione delle lotte deve essere emozionante, entusiasmante, trascinante. Deve raccontare fatti ed eventi in grado di accendere gli animi. Solo che c'è modo e modo per farlo. C'è la via più difficile da intraprendere, quella che affronta una storia in sé sempre contraddittoria, conflittuale, talvolta persino imbarazzante, e tenta di dipanarla per farla non solo cogliere, ma capire in maniera partigiana. E c'è la via più facile, quella che presenta leggende e miti fortificanti, scorrevoli, privi di asperità e comodi da ammirare per tutti indistintamente.
In quest'ultimo caso non occorre che quanto riportato sia autentico o veridico, basta che sia più o meno verosimile. Questa affabulazione – ci viene detto e ripetuto – non va rifiutata in quanto mistificazione, va accettata come necessità strategica. Non bisogna lasciare alcuno spazio all'intralcio del dubbio, della critica, dello scrupolo… spesso non c'è tempo da perdere. L'urgenza del fare non lascia scampo, contro questo mondo che corre ad alta velocità bisogna muoversi ad alta velocità. Ecco perché il salotto della lotta – quello dove si accolgono amici ed ospiti – non deve necessariamente essere pulito, deve solo apparire pulito. Tutto ciò ha un significato immediato facilmente intuibile: è più pratico nascondere la polvere sotto il tappeto che strigliare a fondo. Si fa più in fretta e funziona comunque.
Cosa ci sia sotto il tappeto del movimento No Tav, ad esempio, è risaputo. In tutte le contrade, anche in quelle dove regna l'omertà più conveniente, è noto che il ceto politico gestore di quella battaglia non ha soltanto disputato a pietrate pezzi di territorio con la polizia, l'ha anche imbeccata attraverso prese di distanza da atti sgraditi e indici puntati contro chi li sostiene. Sono cose che capitano, quando si costituiscono forze collettive con amministratori dell'esistente o quando si condivide un pezzo di mondo con magistrati. Ma sono soprattutto cose da rimuovere e tacere quando, di quel movimento, si vuole pompare «una diversa qualità nell’affrontare le sfide, comporre le differenze, accorciare le distanze». Che questa “qualità” non sia «rimasta confinata in queste contrade», ma sia «scesa a valle, e in quel vasto mondo misterioso e magico della conflittualità sociale, ha lasciato un segno profondo del proprio passaggio», è purtroppo fuori discussione. Dalle richieste di incolumità per gli infiltrati alle dissociazioni, dalle delazioni alla tolleranza per gli stupri di gruppo, sono sotto gli occhi di tutti le conseguenze provocate in questi ultimi anni dalla smania di comporre le differenze ed accorciare le distanze. Inutile dilungarsi ulteriormente.
Assai meno noto qui in Italia è invece cosa abbia da poco ispirato oltralpe la recente vittoria della lotta in corso da mezzo secolo a Notre-Dame-des-Landes contro la costruzione di un aeroporto. Per anni sono confluite in questo territorio nei pressi di Nantes innumerevoli persone e forze animate da intenti diversi, se non contrapposti. All'interno della Zad, zona da difendere nata nel 2013, c'è chi ha sperimentato le tecniche della rappresentazione politica, chi le alternative ad una vita dall'orbita tristemente istituzionale, chi le possibilità di suscitare incendi sociali. Un'esperienza a suo modo unica, attraversata come al solito dalla perenne discrepanza che intercorre fra realismo riformista (che protesta solo «contro l'aeroporto») ed utopia rivoluzionaria (che vuole mettere in discussione anche «il suo mondo»). Non stupisce che essa abbia attratto qui in Italia l'attenzione di chi vuole «Cercare nelle storie dei protagonisti – gente comune e vecchi militanti, realtà organizzate e cani sciolti – non quanto presumono di sapere o l’ideologia che affermano di seguire ma quel che sono trasportati a fare dalle circostanze esterne». Certo, in questo campo il massacro dei rivoltosi di Kronstadt ordinato dal comunista Trotsky o le leggi da ministro della giustizia varate dall'anarchico Garcia Oliver sono fonti ispiratrici troppo abusate e datate...
Dunque, cosa sono stati trasportati a fare dalle circostanze esterne certi zadisti? Mercoledì 17 gennaio il primo ministro francese Edouard Philippe ha annunciato il ritiro del progetto tanto contestato: il governo ha ceduto, quella grande opera non si farà. «Una grande vittoria per il movimento», il quale per difendersi dalla repressione ed opporsi ai lavori aveva reso inagibile una via d'accesso, la D281, costruendo numerosi ostacoli (chicane) e capanne lungo il suo percorso. A questo proposito, nella sua dichiarazione il primo ministro ha tenuto a precisare che «gli interlocutori che ho incontrato mi hanno espresso la necessità di ristabilire rapidamente lo stato di diritto nella zona. Il governo si impegna in questo senso. È la seconda decisione che annuncio oggi: metteremo fine alla zona di non-diritto che prospera da quasi dieci anni su questa zona.
Gli squat che debordano sulla strada dovranno essere sgomberati, gli ostacoli rimossi, la circolazione ristabilita. In mancanza di ciò, le forze dell'ordine procederanno alle operazioni necessarie. Conformemente alla legge, gli agricoltori espropriati se lo desiderano potranno ritrovare le loro terre. Gli occupanti illegali di queste terre dovranno andarsene entro la prossima primavera, altrimenti saranno espulsi».
Lo Stato francese ha perciò fatto sì un passo indietro, ma con l'intento di farne due avanti. Ha ritirato un progetto ormai datato e troppo contestato al fine di ripristinare il suo controllo su una zona franca che da tempo costituiva sia un affronto alla sua sovranità che un cattivo esempio. Il movimento non ha quasi avuto nemmeno il tempo di festeggiare che già ha iniziato a dilaniarsi. Finita la lotta che teneva tutti più o meno uniti, «quando i destini sparsi si condensano e i soggetti presenti sul campo di battaglia sono obbligati a “fare insieme”», gli animi si sono immediatamente divisi. La sera del giorno successivo, giovedì 18 gennaio, si è tenuta una interminabile assemblea in cui ovviamente non si discuteva più di come bloccare l'aeroporto, ma di come sgomberare la D281. Vista l'impossibilità di trovare un'intesa fra chi aveva lottato soltanto contro l'aeroporto e chi invece voleva bloccare anche il mondo che lo produce, una parte dei presenti è uscita dall'assemblea per mettersi d'accordo in separata sede. Al ritorno, hanno comunicato a tutti che avrebbero provveduto a sgomberare la strada loro stessi, nel giro di una settimana. Non farlo, avrebbe significato dare via libera all'intervento della polizia. Meglio uno sgombero fatto dai compagni, magari ricorrendo a qualche minaccia o spintone, che uno sgombero fatto dagli sbirri a colpi di manganello?
Oplà, in sole 24 ore la tanto decantata assemblea sovrana – quella che deve decidere per consenso, all'unanimità, perché compone le differenze e accorcia le distanze – è stata così allegramente scavalcata. In Francia come in Italia, dietro la melassa mitopoietica sparsa a piene mani dai contastorielle di movimento c'è sempre qualcuno (uno chef?) che decide in nome della strategia più corretta e dell'urgenza della situazione. Cittadinisti e nemici di questo mondo potranno anche convivere per un periodo più o meno lungo, ma prima o poi sono destinati ad arrivare ai ferri corti. Perché è una pura idiozia sperare che i fiori del Male della rivolta siano concimati dalla politica del Bene Comune. Da cosa autoritaria può nascere solo cosa autoritaria.
Le capanne e le chicane sulla D281, fino a quel momento esaltate come poetico esempio pratico della resistenza nella Zad, di un'altra forma-di-vita possibile nel deserto del capitale, diventano nel giro di poche ore un simbolo inutile e facilmente sacrificabile. Poiché la maggioranza del movimento, quella più rispettabile e responsabile, attraverso una associazione legale vuole negoziare con la prefettura le modalità di ripristino dell'ordine (col fine dichiarato di proteggere tutti gli occupanti della Zad, ovviamente), non è difficile intuire cosa riservi il futuro alla minoranza di teste calde, quelli che non intendono trattare con le istituzioni.
Sabato 20 gennaio è giornata di trattative telefoniche fra la signora prefetto e qualche leaderino di movimento, a cui viene assicurato che la capanna Lama Fâche sarebbe rimasta intatta. Domenica 21 gennaio gli abitanti del borgo vicino alla strada si riuniscono per prepararsi ai lavori di smobilitazione. Lunedì mattina 22 gennaio centinaia di attivisti rispondono all'appello del movimento e sgomberano quasi tutte le capanne, smontandole pezzo per pezzo, in un clima non privo di tensione vista la presenza qui e là di chi vorrebbe continuare quell'esperienza. Lo spaccio Sabot, ad esempio, viene per il momento risparmiato. Martedì 23 gennaio proseguono i lavori e lo spaccio Sabot viene smontato dai suoi stessi occupanti, speranzosi di salvaguardare almeno la capanna Lama Fâche. Un errore, poiché le autorità nel frattempo cambiano idea: anche l'ultima capanna sulla D281 deve sparire. Mercoledì 24 gennaio nel corso dell'assemblea generale viene fatto capire che lo sgombero della D281 non è evitabile (il gruppo COPAIN minaccia di lasciare il movimento se la strada non verrà sgomberata completamente il giorno dopo). Giovedì 25 gennaio, mentre la Lama Fâche viene presidiata da alcuni occupanti, alcune decine di attivisti (fra cui spiccano per vigore quelli legati alla Maison de la Grève di Rennes) iniziano a smontare la capanna con piedi di porco e martelli. Dopo attimi di forte tensione, per evitare la totale devastazione, gli stessi occupanti della Lama Fâche proporranno ed otterranno di terminare da soli la smobilitazione.
La strada D281 è di nuovo percorribile; sottratta al controllo dello Stato ed al suo mondo di aeroporti, è stata restituita in fretta e furia dal movimento stesso allo Stato e al suo mondo di automobili. Venerdì 26 gennaio la vettura della signora prefetto può percorrere interamente la D281 per constatare l'epurazione. Verificata l'assoluta affidabilità dei "portavoce" della protesta, la signora prefetto li premia concedendosi un brindisi in loro compagnia.
Ma il malumore serpeggia e cresce fra chi non si è battuto contro lo Stato per giorni, o mesi, o anni, solo per vincere la possibilità di negoziare con lo Stato. La D281 sarà anche ormai priva di capanne e chicane, ma renderla poco praticabile è pur sempre possibile. Così a qualche testa calda viene in mente di disselciarne un tratto a colpi di piccone.
Ma questo non è solo un piccolo atto di sabotaggio contro la normalizzazione voluta dalle autorità di Stato, è anche un grande atto di disobbedienza contro la normalizzazione accettata dalle autorità di movimento.
All'alba di martedì 20 marzo uno dei luoghi della Zad, la Gaieté, viene attaccata da cinque persone armate di mazze da baseball e col volto coperto da passamontagna. Gli occupanti vengono neutralizzati col gas e picchiati. Uno di loro viene legato mani e piedi, con occhi e bocca chiusi dal nastro adesivo, caricato nel portabagagli di una macchina e portato via. Per alcune ore se ne perdono le tracce. Verrà scaricato nei pressi di un ospedale psichiatrico, con un braccio e una gamba spezzati. Responsabili di simile bravata non sono né poliziotti, né fascisti, bensì kompagni determinati a dare una lezione a chi non intende seguire l'unica linea da seguire: la loro. Gli occupanti della Gaieté scrivono e diffondono la sera stessa un testo per rendere pubblico quanto accaduto.
Il giorno seguente, mercoledì 21 marzo, tre kompagni si presentano per avvisare gli occupanti che non devono pubblicare testi non discussi con loro (?). Poche ore dopo, nuova visita da parte di altri kompagni giunti per caso a fare una inchiesta di vicinato e consigliare di... non pubblicare testi che fanno il gioco del nemico (sempre quelli non discussi con loro). La giornata finisce con una nuova visita da parte di kompagni armati di bastoni e mascherati che pretendono di conoscere l'indirizzo ip del computer di un insubordinato…
Non potendo sostenere apertamente che il motivo di un così brutale pestaggio ai danni di una persona sia il sospetto (o la certezza) che egli sia uno dei picconatori notturni della D281, contro di lui verrà usato il pretesto che lo vuole un noto maschilista poco rispettoso delle donne. Peccato che a spezzargli braccio e gamba non sia stata la furia di qualche Lilith bensì una squadretta della neo-Ceka, i cui tirapiedi sono invero poco credibili nei panni di macho-vendicatori della femminilità oppressa.
Più che la magia delle circostanze esterne, è una precisa logica politica che viene così applicata. La Vittoria della lotta contro l'aeroporto pone il suo ceto politico come legittimo interlocutore dello Stato a proposito del futuro della Zad. Niente e nessuno deve permettersi di turbare questa legittimità acquisita.
Che simili mezzi non siano messi in atto dalla parte più riformista di quel movimento (sindacalisti orfani del proletariato, contadini dalle terre espropriate, attivisti decresciuti ideologicamente), bensì da quella sedicente insurrezionale (magari immaginaria ed invisibile, quella che accetta «la guerra civile, compresa quella tra di noi... perché essa è compatibile con l’idea che ci facciamo della vita... In materia di organizzazione, non c’è dunque da scegliere tra la pace fraterna e la guerra fratricida. C’è da scegliere tra le forme di scontro interno che rinforzano le rivoluzioni e quelle che le ostacolano»), non ci stupisce. Per gli aspiranti generali della rivoluzione la conflittualità va alternata non solo nei confronti delle istituzioni, ma anche contro le teste calde (sfruttabili quando marciano al passo, bastonabili quando non scattano sull'attenti).
Quanto è appena accaduto alla Zad, così come quanto è successo alcuni anni fa in Val Susa, dovrebbe far riflettere quei nemici di questo mondo che ancora ci cascano a rendersi disponibili a battersi assieme a chi questo mondo lo vuole difendere. Fuori dalla narrazione mitopoietica, le differenze non si compongono, le distanze non si accorciano. Semplicemente si sospendono provvisoriamente a beneficio di una reciproca strumentalizzazione. Per i cittadinisti è comodo avere a disposizione una forza d'assalto, per i sovversivi è comodo poter contare su un avallo popolare. Ma, non appena la lotta arriva ad una svolta, quelle differenze e quelle distanze non possono che riesplodere. Si parte insieme, si torna insieme? Insieme a chi, di grazia? Non è mai la tanto acclamata gente comune, quella che spinge a negoziare con le istituzioni, o che diffonde comunicati di dissociazione e delatori, o che organizza squadrette punitive.
Cosa significa ciò per i nemici di questo mondo? Che la loro partecipazione alle lotte sociali insieme ai riformisti (e chi vuole solo una diversa configurazione del mondo è un riformista, ciarle barricadere a parte) è condannata a non andare oltre una pur salutare ginnastica muscolare. Che la loro generosità finirà sempre per essere una forma di involontaria ma prevedibile manovalanza a profitto altrui. Se non si è d'accordo con l'accettare in partenza simili limiti, è il caso di porsi fin da subito la questione di un intervento autonomo. Infatti tutto ciò non può significare stare alla larga da simili lotte, semmai dal loro ceto politico con le sue assemblee generali e la sua composizione. Senza scordare mai che il nemico non è solo quello che indossa una uniforme.