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A proposito di Kavarna

...la passione per la libertà è più forte d'ogni autorità...

Ecco gli ultimi libri arrivati e disponibili presso la biblioteca kavernicola "La leggera":

Saggistica:

H. Marcuse, L'uomo a una dimensione

H. Marcuse, Eros e civiltà

H. Marcuse, Critica della tolleranza

I. Illich, Nemesi medica. L'espropriazione della salute

I. Illich, Descolarizzare la società

S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale

Alex B, La società de/generata. Teoria e pratica anarcoqueer

Anonimo, Insolito sguardo

Odoteo/Crisso, Ma chi ha detto che non c'è?

Letteratura:

A. Camus, Lo straniero

R. Bacchelli, Il diavolo al pontelungo

I. Turgenev, Padri e figli

C. Baudelaire, I fiori del male

Ricordiamo inoltre le pubblicazioni periodiche tutt'ora attive che potete trovare presso la biblioteca (tra parentesi segnaliamo l'ultimo numero disponibile):

Frangenti (n. 33)

I giorni e le notti (n. 8)

Il vetriolo (n. 2)

Fenrir (n. 9)

Negazine (n. 1)

Più di centomila persone arrabbiate che occupano da quasi quattro settimane rotatorie e caselli autostradali, che cercano di bloccare e rallentare il funzionamento delle piattaforme logistiche di supermercati, depositi petroliferi o anche di fabbriche, che si riuniscono ogni sabato nelle città di medie dimensioni come nelle metropoli per assaltare prefetture e municipi, o semplicemente per distruggere e saccheggiare ciò che li circonda; ecco che l'autunno dà vita inaspettatamente all’ennesimo movimento sociale. Di che far accorrere tutti coloro a cui piace l'odore delle mandrie, per tentare di cavalcarle o semplicemente per essere là dove accade seguendo il vento dei lacrimogeni. Come durante il movimento sindacale contro la Loi Travail del 2016 (marzo-settembre) e le sue conseguenze contro le ordinanze nel 2017 (settembre-novembre), o quello contro la riforma della SNCF quest'anno (aprile-giugno). Solo che questa volta non è andata così.Per una volta, un movimento è scoppiato in modo auto-organizzato al di fuori di partiti e sindacati, per una volta si è immediatamente fissato le proprie scadenze sia a livello locale che nazionale — scadenze spesso quotidiane e non al ritmo settimanale o mensile delle grandi giornate orchestrate dai leaderini e concordate in anticipo con la polizia —, definendo anche i propri luoghi e percorsi di scontri e blocchi rifiutando ostinatamente di implorare un'autorizzazione prefettizia preventiva. Insomma, un po’ di aria fresca per tutti i militanti in attesa di un grande movimento collettivo per uscire di casa. E tuttavia! Mentre le briciole reclamate da qualsiasi collettivo cittadinista, sindacalista o vittimista con il sostegno di un rapporto di forza nelle strade per aiutare i suoi rappresentanti a meglio negoziare col potere non ha mai impedito ai più di partecipare, ecco che i coraggiosi militanti antiautoritari cominciano a sezionare quelle che hanno fatto traboccare il vaso dei gilet gialli. Ah, ma è troppo reazionario arrabbiarsi per il prezzo del gas o delle tasse. Ah, ma nella loro consultazione virtuale vorrebbero contemporaneamente sia un aumento del 40% dello SMIC [salario minimo] e delle pensioni che una diminuzione degli oneri per i padroni, vorrebbero meno eletti ma anche essere consultati dal potere tramite referendum, aumentare il numero di sbirri e giudici e rimettere ospedali, treni e uffici postali nei paesi, vietare il glifosato e riaprire fabbriche ovunque, integrare gli immigrati docili e cacciare via i numerosi rifugiati a cui è stata respinta la domanda di asilo, ripristinare l'ISF [imposta sul patrimonio] ma pure che le banche smettano di vessare i commercianti. In breve, più le persone si uniscono a questo movimento e più le rivendicazioni si allungano, in un guazzabuglio eterogeneo di luoghi comuni e piccole riforme di destra e di sinistra che sono il segno distintivo degli schiavi che cercano di riverniciare la propria gabbia. Nulla di sorprendente nel chiedere un cambiamento purché nulla cambi, dopo molti decenni di spossessamento, di ristrutturazioni produttive e di addomesticamento tecnologico a partire dall'ultimo tentativo di assalto al cielo degli anni 70. Nulla di sorprendente, ma un gioco più aperto di quanto non sia stato nel corso dell'ultimo decennio, rivolto solo ai meteorologi impauriti più propensi allo status quo democratico e ben oliato che alle possibilità di uno sconvolgimento a tutti i livelli, a meno che, naturalmente, la famosa rottura non avvenga di colpo, magica e pura, gentile e senza processi o superamenti.Ma ora, il militante antiautoritario pur abituato ad ingoiare tutto in materia di rivendicazioni riformiste per mescolarsi ai movimenti di lotta, questa volta non vi rileva sufficienti luoghi comuni conosciuti. Passi per il rifiuto dei licenziamenti o la chiusura di una fabbrica che macina vite ed avvelena — sapete, è la lotta di claaasse. Passi per le case popolari e le altre gabbie amministrate in centri specifici (per i senzatetto, i richiedenti asilo, ecc.), sapete, è urgente togliere i poveri della strada. Passi per un processo e delle perizie eque con l’aggiunta di qualche sbirro in carcere, sempre che venga detto in altro modo e portato avanti da famiglie. Passi per il rifiuto dell’ingresso selettivo nel meccanismo che formerà i futuri dirigenti, è l'opportunità di interrompere dei corsi senza intaccare la gerarchia sociale. Passi per il rifiuto di una nocività perché troppo così o non abbastanza colà, purché il e il suo mondo non arrivi ad infrangere la bella composizione cittadinista coi pianificatori dell'esistente.In tutte queste occasioni e in molte altre, dal militante che traina il suo programma a quello che rompe vetrine mirate, in genere stanno attenti a difendere la propria attività facendo una distinzione fra il vertice e la base del movimento, fra le tristi richieste degli organizzatori e la collera dei presenti, si cerca di bilanciare il pretesto iniziale per rialzare la testa con le possibilità di rompere la routine dello sfruttamento, si soppesano gli ingredienti del casino per far crescere la propria parrocchia. Insomma, si fa politica in dialettica con la sinistra: si sensibilizza, si radicalizza, si socializza, si dilaga, si recluta e si fa il brutto anatroccolo della grande famiglia progressista. Qualche volta si sogna persino di destituire il Presidente per poter fare a meno di una rottura rivoluzionaria violenta. Ma che fare quando non c'è una base o un vertice e nemmeno rivendicazioni educate ed unitarie, ma una proliferazione di rabbia diffusa (dai pensionati ai liceali, dai blocchi diurni alle sommosse serali)? Quando non c’è un soggetto politico da sostenere o su cui contare? Quando Facebook diventa un sostituto dell’assemblea ed il corteo di testa non ha più il monopolio dello scontro in manifestazione? Quando le parole che vengono fuori sono più volgari, gli argomenti più confusi ed i simboli più rozzi?Perché all'improvviso, col movimento dei gilet gialli, il militante antiautoritario riscopre il mondo che lo circonda! Lui che ieri andava in estasi davanti alla cosiddetta Primavera araba, senza che l'abuso «interclassista» della parola «popolo» («il popolo vuole la caduta del regime» era uno degli slogan più presenti) e la profusione di bandiere nazionali costituissero un ostacolo irrimediabile, oggi è disgustato dagli stessi limiti dalla sua parte del Mediterraneo. Lui che ieri si era mobilitato contro la Loi Travail o durante lo scorso Primo Maggio senza ritenere la propria presenza incompatibile con quella di bandiere infiorettate di falci e martelli, o con quella di striscioni di testa parigini a volte ambigui (con punchline di rapper, reazionari da ogni punto di vista) rimane oggi stordito dallo stupore per i tricolori e gli slogan populisti.Volontariamente cieco, non aveva mai notato i numerosi tricolori nelle iniziative di France Insoumise nel corso delle ultime elezioni (a Place de la Bastille a Parigi il 18 marzo 2017 o nel Vieux Port di Marsiglia il 9 aprile 2017), né quelli srotolati da centinaia di migliaia di persone nelle strade durante la vittoriosa epopea dello spettacolo calcistico del luglio 2018 (sventolati all'unisono da giovani poveri delle città e da vecchi ricchi razzisti). No, il militante è una persona semplice come la sua ideologia da supermercato bio. Un emblema immondo = un fascio, punto. Sì al vandalismo militante nel corso di manifestazioni inquadrate, gomito a gomito all'interno di black bloc con stalinisti, maoisti o neo-blanquisti organizzati, ma non nel corso di raduni sparsi senza organizzatori né percorsi definiti, dove logicamente potrebbero essere presenti dei fascisti organizzati. Per i militanti più allergici ai fascisti organizzati che agli stalinisti organizzati, più ai partiti che ai sindacati, il prurito sembra essere piuttosto a corrente alternata, a meno di rivedere il concetto delle prospettive antiautoritarie, beninteso.A corto di argomenti per tenere a distanza questo movimento incontrollato, non è nemmeno sorprendente che alcuni limitanti siano venuti a balbettare, come banderuole disorientate, il classico ritornello del potere: quando per riflesso condizionato capita loro di mescolarsi al casino di un movimento sindacale o di sinistra, imprecano contro chi li accusa di «recuperare il movimento» o di essere «elementi esterni». Diamine, no, loro portano semplicemente il proprio contributo alla sommossa. Ma allorché dei liceali, degli anarchici o dei teppisti si azzardano a farsi vedere nell’attuale baraonda iniziata dai gilet gialli per agire a modo loro e a proprio piacimento, riprendono a propria volta l'antifona sugli pseudo-recuperatori di un «movimento intrinsecamente proto-fascista». Nella corsa alle categorie del potere, i cacciatori-raccoglitori (ops, i «vandali-saccheggiatori») sono per forza qualcos'altro! E noi che credevamo ingenuamente che un movimento fosse innanzitutto ciò che ognuno fa e ciò che realmente vi accade, al di là delle sue rappresentazioni e dei soggetti politici fantasticati. Alla fine, per una settimana o due, è sembrato più prudente restare su un terreno familiare a diversi antiautoritari, mosche cocchiere del famigerato campo del progresso sociale, foss'anche sindacalista della CGT-guardie carcerarie o SUD-Interni, tendenza patriottarda della Repubblica o politicante degli Indigeni, piuttosto che affrontare l'imprevisto di una contestazione aperta senza dirigenti né schemi prefissati. Prima ovviamente di gettarsi dentro, ma nel modo in cui erano usi fare prima, aggiungendo pietra su pietra, tag su tag, e così via. E poi, molto rapidamente è comparsa quella magica locuzione, «situazione pre-insurrezionale», che da sola giustifica il salto operato, anche tappandosi un po' il naso. Immergersi con gaudio nel gregge rosso o tuffarsi a malincuore nel gregge giallo, partecipare per influenzare o restare spettatori per mantenere le mani pulite, ecco un buon esempio di false dicotomie, perché i termini stessi della questione sono falsati. A nostro avviso, la questione in effetti non è mai se partecipare o meno ad un movimento, se esserne attori o spettatori, ma unicamente agire per distruggere l'esistente in ogni circostanza, con o senza un contesto particolare di lotta, sia che gli altri si muovano per questa o quella briciola iniziale più o meno (in)interessante, purché lo si faccia con le nostre idee, pratiche e prospettive. Dentro, fuori o vicino a un movimento, a contatto con esso o molto alla larga. Da soli o con molti altri. Di giorno come di notte.Quanto alla questione insurrezionale, è vero che se si vuole abbattere lo Stato e distruggere ogni autorità, appare una premessa indispensabile, che non sarà comunque opera dei soli anarchici e dei rivoluzionari (d'altronde è per questo motivo che gli autoritari neo-blanquisti trascorrono il loro tempo a cercare di cavalcare lotte e movimenti, per trovare una massa da manovrare, o che altri tentano costantemente di reclutare seguaci). Le rivolte e le insurrezioni scoppiano già senza di noi, e quando non si ha né desiderio di dirigere tali movimenti né disprezzo per gli schiavi che si ribellano per le proprie ragioni, la domanda interessante da porsi diventa: cosa vogliamo fare noi? Agire già senza aspettare nessuno, qui ed ora, non esclude infatti la possibilità di farlo a maggior ragione quando esplode una situazione di casino caotico. In ogni caso non quando abbiamo già riflettuto un minimo sulle nostre prospettive. Quando si è quindi in grado in piena autonomia di cogliere le occasioni che si presentano per cercare di realizzare i nostri progetti sovversivi.Quanto alla rivoluzione, ci uniamo a ciò che alcuni anarchici italiani hanno appena scritto in un testo relativo a quanto sta accadendo in Francia (Di che colore è la tua Mesa?), di cui riprendiamo uno dei passaggi: Chi avverte ancora un simile desiderio, come si immagina lo scoppio di una rivoluzione? […]Il guaio di tutti i militanti — disfattisti o entusiasti che siano — è che nelle situazioni di effervescenza sociale il loro cervello è tarato per porsi un unico quesito, ovvero quali rapporti diretti e produttivi instaurare coi movimenti di protesta. Sono ossessionati dalla ricerca del soggetto rivoluzionario al cui servizio mettersi, o di cui fare semplicemente l'apologia. È così che si può mettere in luce il minimo scontro in periferia con la polizia o le autorità senza curarsi della questione delle motivazioni individuali (è legata allo spaccio, ad un problema di assunzione di manodopera locale, ad una battaglia mafiosa di territorio, ad un addestramento religioso, o a molte altre cose ancora?), rifiutandosi ostinatamente di prendere in considerazione il minimo scontro di gilet gialli nelle piazze e nelle rotatorie con la polizia o con le autorità perché si danno fin troppi giudizi a priori sulle motivazioni individuali (è legata allo spaccio, ad un problema di assunzione di manodopera, ad un malcontento sociale per le tasse, ad un addestramento nazionalista, o a molte altre cose ancora?).È come se ogni volta si riscoprisse la stessa acqua calda: no, gli altri rivoltosi non sono anarchici ed entrano in ballo per ragioni proprie, sia che appaiano appassionanti o futili, sia che le si conosca esplicitamente o meno. Ma ciò che a noi interessa è che la rivolta apra qui degli spazi per altri là, in una possibilità diffusa di andare dal centro alla periferia, che permetta di sperimentare forme di complicità dirette o indirette, ed infranga una normalità che è durata fin troppo. Spetta agli anarchici stessi, e non ad altri, far vibrare le proprie prospettive contro ogni autorità alimentando i vasi comunicanti tra idea ed azione. Nei momenti di calma come di tempesta. E allora, forse, i nostri sogni o le nostre collere incontreranno un'eco in altri cuori insubordinati.Per fortuna non tutti sono militanti, e possono quindi interessarsi di più a cosa apra ogni conflitto e disordine, non tanto per gli altri, ma per se stessi. In mezzo al caos che rallenta l'intervento repressivo e facilita il mordi-e-fuggi, esistono possibilità altrimenti molto più ardue, ossia impossibili? Lontano da quel caos su cui si concentra il controllo, si può puntare ad obiettivi altrimenti invulnerabili? Esaminando più da vicino il movimento dei gilet gialli in corso, ci si accorgerà che molti hanno già iniziato a rispondere a questi interrogativi, consentendoci di affrontare qui alcune tracce sulle possibilità di afferrare l'occasione. Lungi dal costituire un inventario esaustivo, si tratta solo di esempi, tracce banali se si vuole, più o meno condivisibili, ma che dicono qualcosa per alimentare l'immaginazione. Il 24 novembre sugli Champs-Élysées, mentre non era ancora evidente che i sabati successivi avrebbero assunto forme tumultuose al di là dei dispositivi polizieschi, alcuni ignoti hanno iniziato ad allontanare la morsa del salariato organizzandosi per saccheggiare la boutique Dior. Quasi 500.000 euro in gioielli e altri gingilli sono così passati di mano in pochi minuti, accanto gli scontri. Oltre all'esproprio di una vasta gamma di beni di consumo comune, dai negozi sportivi o di abbigliamento ai supermercati, dai telefoni cellulari ai computer portatili (Parigi, Marsiglia, La Réunion, Tolosa, Saint-Etienne, Le Havre, Bordeaux, Charleville-Mézières, Saint-Avold, Le Mans, Bourg-en-Bresse), diverse altre gioiellerie e negozi di lusso sono stati ugualmente spogliati qua e là. In generale, solo nella capitale, la Camera di Commercio e Industria ha recensito durante la sommossa di Parigi dell'1 dicembre 142 negozi vandalizzati o saccheggiati (più 95 con la vetrina appena danneggiata), oltre a 144 negozi vandalizzati o saccheggiati (più 102 con la vetrina appena danneggiata) in quella dell'8 dicembre.Nello stesso ordine di idee, ci si potrebbe chiedere quali altre possibilità offra il fatto di tenere una rotatoria, oltre a bloccare e frenare la circolazione di merci e creare delle complicità nell'azione. A questo titolo, l'esempio di quanto accaduto in Belgio può essere piuttosto eloquente. Non contenti di aver dato fuoco a un camion-cisterna a Feluy (20 novembre) e di essersi là scontrati duramente con la polizia per diversi giorni, sono stati bloccati ed alleggeriti del loro carico anche cinque Tir nei giorni seguenti (21-22 novembre). Dopo che il movimento dei gilet gialli è stato raggiunto da centinaia di altre persone spostando il punto del conflitto dall'autostrada verso la città di Charleroi, superando la questione dell'origine sociale o geografica, la pratica del saccheggio è continuata. Oltre al tradizionale supermercato, è un bancomat della BNP ad essere stato non semplicemente distrutto, ma prima sradicato dalla sua base e poi svuotato (23 novembre).In un analogo rapporto all'inizio del movimento, un camion carico di 900 pneumatici è stato rapidamente immobilizzato a Le Havre in una rotatoria tenuta dai gilet gialli (20 novembre). Una volta disattivato il suo sistema di sicurezza, alcuni individui hanno iniziato a svuotarlo e non meno di 250 pneumatici nuovi si sono volatilizzati, nonostante l'opposizione dei più legalitari. Un'ora dopo, incoraggiati da nuove possibilità, è un negozio di informatica situato vicino alla rotatoria a venire completamente saccheggiato (così come il ristorante della zona commerciale).Saccheggi di gioiellerie, di Tir, di bancomat — quante altre possibilità ancora quando un movimento come quello dei gilet gialli apre spazi a tutti ed a ciascuno senza leader né servizio d'ordine né percorsi concordati con gli sbirri? Il primo dicembre ad Avignone, mentre come in molte altre città i manifestanti si concentravano davanti al municipio o alla prefettura per tentare di invaderli (quello di Puy-en-Velay è stato parzialmente bruciato l'1 dicembre al grido di «Arrostirete come polli»), un piccolo gruppo ha nel frattempo deciso di occuparsi del Palazzo di Giustizia: quasi 30 metri delle sue spesse vetrate sono andati in frantumi. Anche a Charleroi, durante le sommosse il tribunale è stato colpito da molotov. A Tolosa l'8 dicembre durante la devastante sommossa durata per ore, un gruppo allo stesso modo ha deciso di visitare il centro di gestione della videosorveglianza della città, situato nel quartiere di Saint-Cyprien. Mentre i ficcanaso comunali erano all'interno, le sue vetrate hanno cominciato ad essere infrante e la sua telecamera presa a sassate. Sebbene l'assalto sia stato troppo breve, i sindacati hanno comunque richiesto il trasferimento del computer della videosorveglianza di Tolosa, che era scampato al pericolo. A Blagnac il 4 dicembre, invece di bloccare semplicemente il liceo Saint-Exupéry, alcuni studenti hanno dato fuoco alla montagna di immondizia accatastata con cura all'ingresso: l'incendio ha distrutto la portineria e l'atrio, mentre le sale dei professori, il CDI [Centro di Documentazione e Informazione], i locali dell'amministrazione e le aule di scienze sono state gravemente danneggiate (1 milione di euro di danni) e il collegio chiuso per una buona settimana. Il casello autostradale di Narbonne-Sud, bloccato dai gilet gialli la notte del 2 dicembre, non solo è stato saccheggiato (come a Virsac, Perpignan, Bollène, La Ciotat, Sète, Muy, Carcassonne), ma soprattutto sono state bruciate sia le infrastrutture di Vinci che quelle della gendarmeria: oltre ai suoi 800 mq di locali e al computer della sicurezza, Vinci ha perso una trentina di veicoli, mentre l'esercito ha perso due camionette oltre ai locali e a vario materiale (computer, strumenti radiofonici, uniformi).Attacco del tribunale, del centro di videosorveglianza, della gendarmeria o della scuola — quante altre possibilità ancora quando un movimento come quello dei gilet gialli apre spazi a tutti ed a ciascuno senza leader né servizio d'ordine né percorsi concordati con gli sbirri? Infine, più lontano dalle folle, sia approfittando del fatto che le forze repressive erano troppo occupate altrove, sia per alimentare il conflitto in corso con i propri obiettivi, alcuni nottambuli sono andati a fare una passeggiata al chiaro di luna. Da un lato, diversi centri delle imposte o dell’URSSAF [Inps francese] sono stati attaccati in vari modi (con pneumatici incendiati a Venissieux il 2 dicembre, a Riom il 4 dicembre ed a Semur-en-Auxois il 14 dicembre, con taniche di carburante e molotov a Privas l'8 dicembre, con idranti per allagarli a Nyons l'8 dicembre, con molotov a Saint-Andiol il 4 dicembre ed a Saint-Avold il 14 dicembre, con cassonetti dell’immondizia in fiamme a Chalon-sur-Saône il 27 novembre). D'altro canto, colpendo il traffico ferroviario in un periodo in cui per bloccare i flussi non c’è motivo di limitarsi alle strade: una centrale elettrica di segnalazione della SNCF è stata incendiata a Castellas il 30 novembre, mentre quattro giovani gilet gialli che si erano incontrati in una rotatoria in Lorena si sono lanciati in un giro notturno il 28 novembre. Hanno sabotato 9 passaggi a livello tra Saint-Dié e Nancy, rompendo col piede di porco le scatole di comando per costringere il meccanismo ad abbassare le barriere, bloccando così tutta la circolazione stradale. Altrove ancora, una sede elettorale della deputata LREM [En marche] ha perso le sue vetrate a Vernon (Eure) il 29 novembre e idem a Nantes il 6 dicembre, dove le abitazioni di altri due sono state direttamente prese di mira: a Vézac (Dordogne) il 10 dicembre, l'auto della deputata e quella del marito sono andate in fumo; a Bourgtheroulde (Eure), il 15 dicembre, i gilet gialli hanno indicato con 20 cartelli la strada che conduce alla casa del deputato, la cui porta è stata colpita con sei fucilate.Distruzione dei luoghi dl potere, sabotaggio degli assi di trasporto ferroviario, visite di sedi e case di deputati — quante altre possibilità ancora quando un movimento come quello dei gilet gialli apre spazi a tutti ed a ciascuno senza leader né servizio d'ordine né percorsi concordati con gli sbirri? Quando un'antenna di telefonia Orange viene sabotata, come il 12 novembre a Villeparisis, noi non pensiamo immediatamente che ciò vada nel senso di una lotta impantanata nelle gabbie tecnologiche. E quindi? Quando tre siti di Enedis vengono dati alle fiamme, come a Foix il 6 dicembre, noi non pensiamo che ciò vada immediatamente nel senso di una lotta che chiede più Stato e servizi pubblici nelle vicinanze. E quindi?Esistono tante possibilità di alimentare la guerra sociale quanto individui. Dentro, fuori o vicino ad un movimento, a contatto con esso o molto alla larga. Da soli o in molti. Di giorno come di notte. Finché lo si fa con le nostre idee, pratiche e prospettive, lontano dalla politica, dal gregarismo e dalla composizione. Con questo movimento dei gilet gialli oppure in modo più generale, uno dei nodi della questione è senz’altro questo: di fatto, qual è la nostra prospettiva? E quali mezzi ci diamo per raggiungerla, a freddo come a caldo? Un po' di immaginazione, che diavolo!

Tratto da Avis de Tempêtes, n. 12, 15 dicembre 2018 (traduzione di Finimondo)


Svanito nel nulla il fantasma collettivo di classe che per un secolo e mezzo si è aggirato per l'Europa (il proletariato), a fare da protagonista delle narrazioni ideologiche odierne è rimasto quello collettivo di nazione: il Popolo. Un Popolo che — come sostenuto da tutte le parti, nessuna esclusa — si sente sempre più oppresso ed umiliato, perennemente sull'orlo di una crisi di nervi. I suoi amici più reazionari si agitano perché lo vedono angariato nel suo lavoro dalle tasse, impedito nel suo benessere dal costo della vita, rovinato nella sua identità dagli immigrati, minacciato nella sua sicurezza dalla criminalità, ostacolato nella sua carriera dalla burocrazia. I suoi amici meno reazionari si agitano perché lo vedono privato del suo lavoro dalle logiche di mercato, impedito nel suo benessere dal costo della vita, colpito nella sua sensibilità dal razzismo, minacciato nel suo ambiente dalle grandi opere, ostacolato nella sua quotidianità dalla burocrazia. Se i suoi amici più reazionari se la prendono con il governo (quando è meno reazionario) ed i suoi amici meno reazionari se la prendono con il governo (quando è più reazionario), da parte sua ogni governo se la prende con chi — preferibilmente dall'esterno: l'Unione Europea, la Banca Mondiale, la Grande Finanza — trama contro l'amato Popolo che lo ha eletto.Di tanto in tanto, una goccia fa traboccare il vaso della sopportazione ed il Popolo scende in piazza. Non sa bene cosa voglia, non sa bene cosa fare, non sa bene nemmeno perché sia arrivato a quel punto. Sa solo che la misura è colma, quindi va in escandescenze. In quest'epoca caratterizzata dal dilagare della servitù volontaria, la fine della rassegnazione sociale è diventata un evento talmente raro che, quando si verifica, fa entrare in fibrillazione tutti gli amici del Popolo. Non solo quelli che si trovano più vicini al rubinetto da cui è caduta la goccia fatale, ma anche quelli più lontani. Se il rubinetto che perde sta a valle, accorre anche chi sta a monte (ciò spiega il motivo per cui durante i primi scontri in Val Susa contro il Tav, nel 2005, erano presenti anche dei fascisti: ovviamente in pochi e capirono presto di non essere graditi). Se il rubinetto che perde sta a monte, si precipita anche chi sta a valle. Perché, quando il Popolo si muove, i suoi sedicenti amici (più che altro, aspiranti tutori) si eccitano. Per costoro non ha grande importanza chi o cosa gli abbia dato il via — è assai più importante chi gli dà il ritmo e la direzione.Ecco perché quattro anni fa qui in Italia, allorquando il movimento dei Forconi invase molte strade del Belpaese, all'interno del ceto politico sovversivo si aprì un grande dibattito teorico-pratico: si va o si fischia? In un simile contesto del tutto sprovvisto dei consueti punti di riferimento, il Movimento si deve muovere? «Un Movimento che non si muove, che Movimento è?», si chiedevano gli uni. «Un Movimento che si muove per correre dietro a piccoli imprenditori, che Movimento è?», si chiedevano gli altri. Ora, se simili crucci hanno travagliato le riflessioni di molti kompagni doc qui in Italia, paese il cui Popolo fa fatica anche solo ad indignarsi quel tanto che basta per fare un blocco stradale, figurarsi gli interrogativi sollevati in questo ultimo mese in Francia dalla rabbia espressa nel corso delle manifestazioni dei “gilet-gialli”. Nate per protestare contro l'aumento del prezzo dei carburanti, queste manifestazioni hanno cominciato ad invadere i rondò di mezza Francia ed hanno continuato mettendo a ferro e a fuoco il centro di Parigi e di altre città. E più gli eventi si sono susseguiti nel corso di queste ultime settimane — quattro morti, centinaia e centinaia di arresti, violenti scontri, incendi, ed un massiccio terrorismo psicologico-mediatico che è arrivato a paventare possibili golpe ed imminenti bagni di sangue nelle strade — più questo dibattito ha assunto tratti a dir poco grotteschi. Da una parte, chi se la prende con questi reazionari che difendono la civiltà dell'automobile, dall'altra chi liscia loro il pelo annunciando che sono a un passo dall’inceppare la macchina governativa. I primi, pessimisti ad oltranza, già pregustano il recupero da parte dello Stato che verrà a confermare la loro lungimiranza politica. I secondi, più ottimisti, già pregustano l'insurrezione da parte del Popolo che verrà a premiare la loro scommessa opportunista.Quattro anni fa ci bastò esprimere il nostro scarso interesse per il dibattito in corso sulla natura dei Forconi, preferendo evocare attraverso la metafora della Mesa Verde l'occasione di giocarsi in questi momenti altre possibilità, per far infuriare certi kompagni dalle mani sporche (di merda politica). Quanto sta oggi accadendo in Francia ripropone nuovamente la questione, mostrando per altro in profondità molti dei suoi contorni. Ci è sembrato fosse il caso di tornarci sopra. Chi avverte ancora un simile desiderio, come si immagina lo scoppio di una rivoluzione? Pensa che sarà opera di una convergenza di movimenti sociali, tutti dotati della loro giusta rivendicazione, mossi da decisioni prese all'unanimità nel corso di assemblee in cui prevale l'idea più radicale? Quindi: nasce un movimento dalla causa impeccabile, alla sua testa ci sono i militanti più illuminati che lo guidano di battaglia in battaglia ottenendo vittorie entusiasmanti, le sue file si ingrossano, la sua fama cresce, il suo esempio si diffonde contagioso, altri movimenti simili sorgono, la loro potenza si incontra, alimenta e moltiplica reciprocamente, fino ad arrivare allo scontro finale durante il quale lo Stato viene infine piegato... Bella questa narrazione! Chi l’ha prodotta, Netflix? A quale puntata siamo arrivati?Se poi non si vuole buttarla sul ridere, si può sempre rimanere seri. Di più, si può analizzare scientificamente. Come quei lungimiranti bordighisti che già nell'agosto del 1936 sapevano che non c'era alcuna rivoluzione in corso in Spagna. Il motivo era ovvio, un'evidenza sotto gli occhi di tutti, fastidioso anche solo ricordarlo: senza teoria rivoluzionaria niente rivoluzione, senza partito rivoluzionario niente teoria rivoluzionaria. In Spagna c'era il partito rivoluzionario (il loro, ovviamente)? No? E allora, di cosa si poteva parlare?Poiché nel corso della storia la scintilla di sommosse, insurrezioni e rivoluzioni è quasi sempre scaturita non da profonde ragioni, ma da semplici pretesti (alcuni esempi: lo spostamento di una batteria di cannoni ha scatenato la Comune di Parigi, una protesta contro il rancio della marina militare ha innescato la rivoluzione spartakista, il suicidio di un ambulante ha avviato la cosiddetta Primavera araba, l'abbattimento di alcuni alberi ha originato la rivolta di Gezi Park in Turchia), troviamo invero imbarazzante chi, davanti a quanto sta accadendo oggi in Francia con i gilet-gialli (o ieri in Spagna con gli autonomisti catalani), aguzza lo sguardo solamente per scovarvi tracce del programma comunista, o del pensiero anarchico, o della teoria radicale, o della critica anti-industriale, o... Dopo di che, in mezzo alla delusione per non aver scorto in piazza contenuti sufficientemente sovversivi, per non aver contato masse sufficientemente numerose, per non aver notato origini sufficientemente proletarie, per non aver constatato presenze femminili sufficientemente paritarie, per non aver udito un linguaggio sufficientemente corretto — la lista potrebbe allungarsi all'infinito —  non gli resta che inorridire e chiedere a chi possa mai giovare tutta questa agitazione sociale. Cui prodest?Se c'è chi attribuì le rivolte che scossero la Francia nel novembre 2005 ad una mossa pre-elettorale di Sarkozy, il quale avrebbe intenzionalmente sparso benzina su una piccola fiamma facile da spegnere (una delle tante bavure della polizia) per venire poi premiato in quanto efficiente capo-pompiere, allo stesso modo oggi sarebbe facile vedere lo zampino della Le Pen dietro la richiesta popolare di dimissioni di Macron. Ora che spira forte in tutta Europa un vento favorevole alla destra, perché dover attendere la prossima scadenza elettorale quando con qualche strattone è possibile anticiparla? Si tratta di una ipotesi più o meno dietrologica che, pur nella sua logicità, è del tutto idiota formulare. Ma certo che Sarkozy-il-domatore o la Le Pen-aspirante-direttrice-del-circo potrebbero aver liberato di nascosto le fiere per seminare il panico e, dopo la fine dell'emergenza, venire chiamati a sostituire l'incompetente che non ha saputo proteggere la società. Ma se anche così fosse... e allora? Quelle fiere siamo tutti noi ed è proprio nei momenti di libertà di movimento che aumentano le nostre possibilità di sbarazzarci per sempre delle gabbie di questo mondo. Finché siamo chiusi al loro interno siamo impotenti, capaci solo di ruggire e mostrare denti sempre più malandati. Ma in quei giorni di libertà, per quanto si possa essere braccati, tutto ridiventa possibile — anche l'impossibile. La nostra libertà è previsto sia solo provvisoria, effimero frutto di un calcolo preciso, breve clausola di un investimento a medio o lungo termine? E sia, sta a noi far sì che diventi definitiva, mandando all’aria i piani di chi era certo di poter comandare il demone della rivolta dopo averlo evocato. Se qualcuno ci lascia la gabbia aperta, non ha senso perdersi in elucubrazioni sulle sue reali intenzioni e rimaner fermi dentro pur di non servire trame oscure. Meglio precipitarsi fuori e cercare in tutti i modi di non essere ripresi. Ciò detto, chi avverte ancora un simile desiderio, come si immagina lo scoppio di una rivoluzione? Consapevole che probabilmente potrà scaturire solo da una situazione eterogenea, in mezzo ad interessi contrastanti, espressi in maniera confusa e contraddittoria, si metterà per questo a sostenere interessi contrastanti, espressi in maniera confusa e contraddittoria? Il fatto che il pretesto di sommosse, insurrezioni e rivoluzioni sia quasi sempre banale significa che bisogna ripetere banalità?È quello che in effetti pensano tutti gli aspiranti Machiavelli della rivoluzione, questi piccoli e grandi stronzi della strategia politica che non la smettono di invitare tutti non ad eccedere, ma ad adeguarsi alla situazione. Imbattibili campioni transalpini di surf sono i neoblanquisti del Partito sempre meno Immaginario, i quali per ribadire la propria invisibilità stanno sventolando a più non posso banderuole gialle fosforescenti con l’intento di accreditarsi quale Verbo dell’ala sovversiva della rivolta. Da qui, una torrenziale produzione di analisi, resoconti, narrazioni, tutti all'insegna della mitopoiesi, che vorrebbero dimostrare la ragione per cui non si può fare a meno di unirsi ai gilet-gialli.Siamo qui di fronte ad un robusto determinismo, quello che giura sull'ineluttabilità di certi incontri che avvengono all'interno dei meccanismi storici oggettivi (quelli pratici Molotov-Ribbentrop o Mao-Chiang Kai Shek, per intenderci, ma pure quelli teorici Foucault-Khomeini o Badiou-Pol Pot). In effetti, in questa maniera è più facile far digerire qualsiasi cosa, pure la merda. Per chi considera l'avvento della destra al potere in Brasile una «occasione di ricredersi, di maturare e fare un po' meglio in avvenire», cosa volete che siano le bandiere tricolori in mezzo ai gilet-gialli? Come ha riconosciuto l'editore preferito dei neoblanquisti, la presenza dei fascisti al proprio fianco non è un problema perché «il nemico del mio nemico non è veramente mio amico, ma comunque un po' sì».Inoltre, qualsiasi acrobazia è permessa a chi sa aggrapparsi ad un bispensiero che alterna con disinvoltura alleanze e conflitti con Oceania, Eurasia ed Estasia. Gli aspiranti generali dell'insurrezione di Stato sono così passati nel giro di pochi mesi dal sostenere i negoziati col governo in difesa della Zad (e sprangate su chi si oppone!) al tuonare che «tutti quelli che nei prossimi giorni si porranno da mediatori tra il popolo ed il governo saranno scorticati: nessuno vuole più essere rappresentato, siamo tutti abbastanza grandi per esprimerci, per vedere chi cerca di adularci, e chi di recuperarci. Ed anche se il governo indietreggiasse di un passo, proverebbe con ciò che abbiamo ragione di fare ciò che abbiamo fatto, che i nostri metodi sono buoni». Dopo aver concesso interviste ai giornalisti e partecipato a confronti televisivi con politici e poliziotti, oggi sostengono che bisogna «parlare fra di noi, non col potere. È molto importante smettere di credere che le possibilità reali siano dalla parte del potere, dalla parte di ciò che si è sempre fatto. Bisogna resistere alla logica del male necessario, al ricatto sociale». Con un paio di deretani già assisi sugli scranni istituzionali locali, ora puntualizzano che «concretamente la rivoluzione ha un solo scopo: uscire dalle strutture esistenti per costruire altro». (Qui in Italia, un mancato parlamentare di Potere al Popolo ha salutato i gilet-gialli criticando chi non riesce «a capire che la rottura con l’esistente è la pre-condizione affinché qualcosa di nuovo possa sorgere»).Questo linguaggio refrattario al significato delle parole, perché attento solo all'indice di gradimento della loro effimera performance, non si fa scrupoli a giurare sulla virtù insurrezionale della destituzione sebbene in realtà essa sia la versione politica del licenziamento, ovvero una rimozione dall'incarico decisa dall'alto (e per questo facilmente accettabile dai gilet-gialli). La destituzione invocata dai neoblanquisti, quella che «ovviamente non significa eleggere nuovi rappresentanti» bensì «riprendere in mano localmente, cantone per cantone, tutta l'organizzazione materiale e simbolica della vita» (come dice un compagno di consiglieri comunali), è verosimile quanto… una prostituzione che «ovviamente» non significhi fare sesso in cambio di denaro, bensì sperimentare l'amore in piena autonomia e gratuitamente; oppure una polizia che «ovviamente» non significhi apparato repressivo dello Stato, bensì autodifesa dai possibili pericoli che incombono sulla propria esistenza (come direbbero un cliente di qualche pappone o un amico degli sbirri).Se il rischio del linguaggio della rivolta è quello di non essere compreso dai nostri potenziali complici, quello della grammatica dello Stato è di essere fin troppo ben compreso e condiviso dai nostri sicuri nemici. Capiamo che ciò non costituisca un problema per chi vuole ottenere una mera riconfigurazione dell'esistente, ma chi aspira a tutt'altra esistenza umana non ha dubbi su cosa scegliere, fra la poesia dell'ignoto e la propaganda del luogo comune. La prima porta altrove rispetto al regno dell'autorità e del denaro, la seconda al massimo gironzola nei suoi paraggi. Non si tratta di un vezzo formale, ma di una attenzione sostanziale. Non si può nascondere che in sé l'adrenalina delle esplosioni sociali non basta ad impedire il ritorno alla normalità. Il carnevale dove tutto vale è una parentesi, chiusa la quale si torna alla disciplina. L'ebbrezza dell'attimo deve essere accompagnata dalla lucidità della prospettiva. È questo l'enorme ostacolo che devono affrontare gli anarchici, una preoccupazione soltanto loro. A differenza dei rivoluzionari autoritari, per cui la barricata serve unicamente da trampolino verso il tavolo di trattative le quali hanno bisogno di ordine per essere portate avanti, gli anarchici non possono permettersi di lasciare in piedi neanche un ciottolo del vecchio mondo. La sua riproduzione deve diventare impensabile. Il guaio di tutti i militanti — disfattisti o entusiasti che siano — è che nelle situazioni di effervescenza sociale il loro cervello è tarato per porsi un unico quesito, ovvero quali rapporti diretti e produttivi instaurare coi movimenti di protesta. Quando il Popolo si muove, scatta automaticamente in loro il riflesso condizionato di trovarsi al suo fianco, gomito a gomito. Respirare la stessa aria, indossare lo stesso abito, mangiare lo stesso pane, scandire lo stesso slogan, esserci. Se non lo si accompagna, se non lo si consiglia, se non si conquista il suo rispetto, come si può pensare di indirizzarlo verso la giusta direzione?Quindi, non appena intravedono il Popolo agitarsi, tutti i militanti gli si precipitano addosso. C'è chi, prima di decidere se abbracciarlo, gli misura il cranio, gli annusa il culo, gli verifica l'albero genealogico, e chi invece è più disponibile a tuffarsi in mezzo a qualsiasi cloaca pur di cavalcare l'onda. Gira e rigira, tutti i dibattiti sul si va o si fischia ruotano attorno a questa differenza.Non fossero militanti, si sarebbero accorti da un pezzo che nessuno ha bisogno di loro per insorgere (gli immigrati che radono al suolo i centri di detenzione, ad esempio, non hanno affatto bisogno degli antirazzisti; sono gli antirazzisti che applaudono ed incitano a quelle rivolte ad aver bisogno degli immigrati). Ma essendo militanti, sono ossessionati dalla ricerca del soggetto rivoluzionario al cui servizio mettersi. Sarà quello giusto? Sarà mica sbagliato? E se fosse quell'altro? Si va coi sudaticci gilet-gialli o si va coi profumati studenti?Per fortuna non tutti sono militanti. Ci sono anche quelli che non si pongono minimamente l'interrogativo di cosa vogliano ottenere davvero gli altri, giacché hanno ben altra questione che li tormenta: cosa vogliamo raggiungere davvero noi? Considerato il disordine che si è venuto a creare, poco importa per quale motivo, come si può trarne vantaggio? In mezzo a quel caos che rallenta l'intervento repressivo e facilita il mordi-e-fuggi, si possono aprire possibilità altrimenti chiuse? Lontano da quel caos su cui si concentra il controllo repressivo, si possono raggiungere obiettivi altrimenti invulnerabili? Ecco che ritorna il riferimento alla Mesa Verde.Se quanto riportato dai giornali è vero, un clamoroso esempio concreto in tal senso è avvenuto nel corso della manifestazione del 24 novembre a Parigi. Mentre gli Champs-Elysées erano teatro di violenti scontri, la boutique Dior che si trova proprio sulla «strada più bella del mondo» è stata assaltata ed avrebbe subito un furto di gioielli per un valore che ammonta a 500.000 euro. Nel compatire profondamente chi pensasse che «un simile atto è del tutto inutile dal punto di vista rivoluzionario», a scanso di interessati equivoci precisiamo che si tratta solo di uno dei tanti possibili interventi in tali contesti, di una fra le tante ipotesi da esplorare. Per farlo non ha senso scrutare con scienza la composizione di classe del movimento in corso, meglio scrutare con fantasia la mappa del territorio.Allo stesso modo, qualora si tentasse non di approfittare della protesta, ma di influenzarla, anche qui c'è una profonda differenza fra l’accompagnare un movimento per prenderne la testa e il farlo precipitare. Due piccoli esempi banali: in sé, non c'è alcun bisogno di rapportarsi con il movimento per manifestare l'odio per lo Stato ed i fascisti nel corso degli scontri, o minacciare i candidati rappresentanti chiamati a trattare. Nel primo come nel secondo caso si va contro le rivendicazioni del movimento e contro le esigenze dello Stato.Lasciamo pure che funzionari del potere e del contropotere esprimano il proprio stupore davanti alla scoperta dell'acqua calda: la rabbia non sa che farsene di partiti e sindacati, quando è senza rappresentazione e rivendicazione diventa irrecuperabile, e difficilmente contenibile quando passa dal centro alla periferia. Chi detiene il potere in Francia, ricordando quel monito secondo cui «la politica non è risolvere i problemi, ma far tacere quelli che li pongono», ha appena pronunciato in televisione un discorso diretto al cuore degli spettatori, ovvero al loro portafoglio. Chi vorrebbe detenere il potere in Francia, rammentando quel precetto secondo cui «la politica non è che una maniera di agitare il popolo prima di servirsene», dovrà ora decidere se accontentarsi di vantare il successo politico ottenuto dalla protesta, oppure proseguirla per puntare ancora più in alto.Ma chi vuole distruggere il potere, in Francia come ovunque, sa bene cosa non deve dimenticare. 

«Astieniti da ciò che ha la testa sulle spalle.

Regola il passo su quello delle tempeste» 

[Finimondo, 11/12/18]

Vomito cittadinista

Nessun cittadino può opporsi allo Stato. E su questo, come non essere d’accordo? Cittadino vuol dire essere amministrato, la proiezione del qualunquismo in cosa pubblica. Al cittadino non si evoca la riflessione e l’agire per le proprie idee, ma gli si impone di obbedire e di funzionare, proprio come una cosa. Per questo le lagne dei vari comitati che si oppongono al TAP, per il tradimento dei propri padrini pentastellati, e del movimento No TAV, sulla piazza torinese Sì TAV/Sì Lavoro (come dire Sì devastazione/Sì sfruttamento) dei padroni di Torino, fanno sbellicare dalle risate. Il referente è lo stesso sia per i contrari che per i sostenitori dell’alta velocità e del gasdotto: lo Stato, nella figure della sindaca Appendino o del ministro Lezzi. Risate amare, si intende. Come non vedere nella politica una protesi della costruzione di un gasdotto? Come non capire che ogni sindaco, ogni politicante e ogni essere che aspira ad una poltrona e al consenso di tutti sia ingranaggio di un mondo ad alta velocità? Con sacrilega commozione verso tutti i cittadinisti, nemici mortali di ogni tensione singolare, il TAV e il TAP non sono una svista numerica di costi e benefici dell’attuale organizzazione sociale. No, sono le conseguenze brutali di un mondo basato sul dominio. Ecco perché, anziché contarne e lamentarne gli effetti, cercando affetti politici dai papponi in cerca di voti, si dovrebbe iniziare ad indicarne e criticarne le cause nefaste.

I governi non possono accettare di arretrare sui progetti di dominazione: sanno benissimo che in gioco non c’è solo la costruzione di una galleria o di un gasdotto, ma l’intera credibilità di un intero sistema istituzionale. È per questo che uno stop imposto da un governo avrebbe il medesimo sapore della realizzazione del TAV e del TAP. «Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato», ed ecco che il motto di Mussolini andrebbe avanti. E allora, cosa pensare?

Partire da un dettaglio per mettere in discussione la totalità del nostro modo di sopravvivere. Non adeguarsi alle sceneggiate politiche per poter partecipare alla situazione, ma cercare di fomentare l’eccesso. Per poter sentire l’irreversibilità della distanza fra chi si oppone ad un progetto di morte e chi difende gli interessi dello Stato. Un intervento autonomo che rifiuti l’aspetto quantitativo, per conoscere altri possibili complici nella reciprocità di idee e di sogni. Sabotare le manovre dei leader, per tentare di intralciare i programmi dello Stato e qualunque condivisione politica come soli modi di stare insieme, perché dove esiste leaderismo c’è gerarchia e costruzione dell’autorità, perché nell’alternativa secca fra condivisione o Stato esiste altro.

Darsi alla poesia dell’ignoto piuttosto che ad una dottrina politica perché la diversità di linguaggio non è una semplice divergenza di segni e di musicalità, ma è una differenza esistenziale di come guardare il mondo. Basta politica, che sia di piazza o di Parlamento, di movimento o dei cittadini, ponendo fine anche alla politica autonoma o libertaria. Per incontrarsi verso tutti quei NO che non necessitano di applausi e di consenso, ma che invitano singolarmente e collettivamente ad attaccare con le parole e con gli atti. Tanto alla luce del sole, come al buio della luna.

A.L.L.A. Deriva

[Frangenti n. 32, 23/11/18]

L'immacolata concezione del cittadinismo

 L'8 dicembre è una data particolare per molte persone, in tutto il mondo. È al tempo stesso una delle principali festività cattoliche ed un'importante scadenza attivista. Per una straordinaria quanto significativa coincidenza, fedeli del messianesimo sacro e fedeli del messianesimo profano celebrano infatti entrambi questa ricorrenza. L'8 dicembre 1854 papa Pio IX emanò la bolla Ineffabilis Deus, con cui proclamava il dogma dell'Immacolata Concezione. A differenza di ciò che molti credono, questo dogma non si riferisce al concepimento di Gesù, bensì a quello di sua madre Maria. Nel testo pontificio si legge che «La beatissima Vergine Maria nel primo istante della sua concezione, per una grazia ed un privilegio singolare di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, è stata preservata intatta da ogni macchia del peccato originale». Per la Chiesa, il figlio di Dio – sinonimo di somma perfezione e purezza – non poteva prendere forma umana da una donna che nel corso della sua vita avesse commesso il peccato originale, avendo disobbedito a Dio. A Maria-la-prescelta è stata quindi concessa, fin dal suo concepimento, questa innocenza assoluta che le ha permesso di sconfiggere il Maligno sotto forma di serpente e di dare alla luce Gesù pur rimanendo vergine.All'epoca questa narrazione non faceva ridere, tutt'altro, venendo interpretata e accettata come Rivelazione. Non la si metteva in discussione, non veniva passata al setaccio della critica. Un dogma è un dogma. Quello dell'Immacolata Concezione serviva ad uno scopo preciso, doveva contrastare l'idea illuminista secondo cui l’essere umano nasce buono ma viene poi incattivito dalle strutture sociali. Conseguenza di questa convinzione era il ritenere che la soluzione di ogni male non risiedesse nella conversione interiore, ma nella sovversione esteriore: dall'attesa del paradiso in cielo si passava così alla realizzazione di quello sulla terra. Sfrontata utopia, intollerabile per le anime pie. A partire dal 2005, la ricorrenza dell’8 dicembre ha acquisito anche un altro significato, per così dire laico, diventando la Giornata Mondiale contro il Cambiamento Climatico. E ormai dal 2010, almeno qui in Italia, è pure la Giornata Internazionale contro le Grandi Opere Inutili ed Imposte. Ad aver stabilito queste moderne ricorrenze non sono stati i vertici di qualche Chiesa, semmai quelli di qualche ONG o di qualche movimento. Per loro la salvezza del pianeta, sinonimo di giustizia ed uguaglianza, non può essere opera di una politica che nel corso del suo svolgimento abbia commesso l'errore di non proclamare di rappresentare il popolo. A tale politica-strategica è stato quindi concesso, fin dalla sua prima alleanza, questa innocenza assoluta che dovrebbe permetterle di sconfiggere il serpente del Profitto e di dare alla luce un contropotere pur rimanendo virtuosa.Così, il prossimo 8 dicembre si mobiliteranno tutti. Non solo gli amministratori del capitalismo verde o i militanti dell'eco-socialismo, quelli che vogliono ridurre l'inquinamento multando le imprese nocive o spostandosi in bicicletta, quelli che vogliono salvaguardare le risorse naturali razionalizzando il loro sfruttamento o facendo docce brevi, quelli che vogliono risolvere la questione energetica costruendo parchi eolici o sostituendo lampadine desuete... Ma pure i rivoluzionari doc, quelli che per essere adeguati alla situazione da un lato evocano cambi di rotta epocali e dall'altro ripetono in coro di volere governi che tutelano la salute e l'ambiente, grandi opere utili e condivise, denaro pubblico investito per il lavoro, rispetto dei diritti sanciti dalla Costituzione...Nemmeno oggi questa narrazione fa molto ridere, tutt'altro, venendo interpretata e accettata come (premessa di) rivoluzione. Non la si mette in discussione, non viene passata al setaccio della critica. Un dogma è un dogma. Quello del cittadinismo radicale mira a contrastare l'idea insurrezionale secondo cui ogni potere è in sé nocivo, e non viene affatto rovinato da chi lo esercita. Conseguenza di questa convinzione è il ritenere che la salvezza del pianeta non stia nella destituzione delle istituzioni, ma nella loro distruzione: dall'attesa del politico giusto, onesto, competente si passa così alla liquidazione di quelli esistenti e di quelli aspiranti. Sfrontata utopia, intollerabile per le anime pie.   

[Finimondo, 7/12/18]