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A proposito di Kavarna

...la passione per la libertà è più forte d'ogni autorità...

Dalla quarta di copertina: “In partenza, vi era il mondo della vita, nel senso banale e ingenuo che i non-scienziati danno all’espressione. Un mondo a volte allegro a volte triste, in cui gli uomini provano dei sentimenti e delle emozioni, dove cercano la loro strada, amano, lottano, ecc. Poi arriva la “scienza”, neutrale e oggettiva: non restano che atomi, ancora atomi, soltanto atomi. Ed esperti di atomi, che ci insegnano, sempre neutrali e oggettivi, che noi dobbiamo vivere “scientificamente”; vale a dire come dei conglomerati di atomi, come dei grossi edifici molecolari di cui sono i soli a conoscere la vera natura. Curiosamente i nuovi maestri spirituali ci fanno tornare alla vecchia affermazione biblica: l’uomo è polvere e tornerà polvere…”

Una copia singola cinque di vile denaro (quattro sopra le 5 copie).

Per ricevere copie e per spunti critici: s-edizioni@logorroici.org

Dall'introduzione del libro:

Un incontro inaspettato

Il nome di Pierre Thuillier, filosofo, epistemologo della scienza, di cui viene qui proposto il saggio breve “Contro lo scientismo” (1980), per la prima volta tradotto in italiano, risulterà sconosciuto ai più, anche a quelle lettrici e a quei lettori familiari con le opere di altri grandi critici della tecnica come Lewis Mumford, Jacques Ellul e Günther Anders. Eppure quella proposta da Thuillier, in questo come in altri suoi scritti (l’unico libro pubblicato finora in Italia è “La grande implosione. Rapporto sul crollo dell’Occidente 1999-2002”, introvabile da tempo), è una critica spietata alla traiettoria della civiltà occidentale e alle conseguenze disastrose verso cui ci sta portando. Se ne “La grande implosione” Thuillier affonda il coltello nelle radici culturali dell’odierno sistema di dominio tecno-scientifico, andando a ripercorrere i processi di urbanizzazione, lo sviluppo tecnico, l’ascesa dell’economia capitalista e il cambio di visione portato dalla scienza moderna che ne sono i prodromi, in “Contro lo scientismo” l’accusa è in particolare contro quest’ultima, la scienza, di cui vengono analizzati il percorso storicamente condizionato e l’ideologia mortifera di cui si fa portatrice. Spesso si tende a considerare scienza e tecnologia come due sfere distinte: se la tecnologia, in particolare nelle sue applicazioni più nefaste, è talvolta sottoposta a critica (ma più spesso la colpa dei suoi mali è imputata ai suoi cattivi usi), la scienza ancora di più tende a conservare nell’immaginario comune un’aura di purezza, di neutralità. La scienza non rappresenta d’altronde l’amore per il sapere fine a sé stesso, il nobile compito di svelare i segreti della natura per il puro amore della conoscenza? Il pregio principale del libro di Thuillier sta nella forza con cui distrugge questa retorica così radicata, questo mito della neutralità della scienza, mostrando come essa in realtà sia sempre stata, sia e non possa che essere connivente con il potere; anzi, come essa stessa sia diventata nella società odierna un vero e proprio totalitarismo: nella sua pretesa di essere l’unica forma legittima di produzione della verità, nella pervasività con cui la sua logica sta invadendo ogni campo dell’esistenza, e negli strumenti tecnologici sempre più devastanti che vengono prodotti grazie alle conoscenze da essa fornite. La scienza moderna – ovvero ciò che si intende comunemente per “scienza”, poiché tutti i saperi elaborati da altre culture sono stati relegati al rango di superstizioni – è sempre stata, allo stesso tempo, anche tecnica, non contemplazione estatica della natura ma volontà di potenza. “Sapere è potere”: Bacone, all’alba della nuova era scientifica, aveva espresso quello che è il progetto della scienza in maniera cristallina. Andando a braccetto con lo sviluppo tecnologico e con l’ascesa della classe dei mercanti e degli imprenditori, la scienza moderna in tutte le sue caratteristiche (dall’orientamento delle ricerche ai presupposti sul mondo su cui si fonda il suo metodo) riflette gli interessi e la visione di questi ultimi: utilitarista, meccanicista, riduzionista, orientata alla pratica, integrata al complesso economico-militare-industriale, il suo progetto è sempre stato quello di renderci “padroni e possessori della natura”. Il suo metodo sperimentale, il suo modo di guardare al mondo, sfrondandolo dei suoi aspetti qualitativi, di ciò che costituisce la ricchezza e la bellezza delle esperienze, delle relazioni, delle emozioni, consiste nel liquidare la poesia, le passioni, l’inafferrabile complessità e unicità degli individui e tutti gli aspetti irrazionali della vita, in favore soltanto di ciò che è misurabile, ponderabile, quantificabile, classificabile, elencabile, numerabile. E’ questa la logica dei tecnocrati, degli economisti, dei politici, dei tecnici e degli esperti di ogni tipo, che con le loro “scienze” fisiche o sociali (perfino “rivoluzionarie”) invadono sempre di più ogni aspetto delle nostre vite e pretendono di porsi a guida (anche morale) della società, di determinare quello che dovrebbe essere il funzionamento corretto dei singoli e della loro somma. La stessa produzione della conoscenza scientifica è un’impresa tecnica: non si tratta di posare uno sguardo attento sulla natura per interrogarla e trarne un sapere, ma di isolare e riprodurre i fenomeni naturali in laboratorio tramite l’uso di apparecchiature tecniche, di imparare a smontarli e rimontarli, allo scopo di rifare la natura, di sostituire tutto ciò che di organico esiste con dei surrogati artificiali o degli ibridi, dei meccanismi. Il primato della logica razionalista promosso dall’Età dei Lumi e condotto all’estremo dallo scientismo ha portato a considerare il mondo intero come un meccanismo regolato da leggi matematiche: e come un meccanismo, grazie alle conoscenze offerte dalla scienza e agli strumenti prodotti dalla tecnica, esso può essere manovrato e manipolato a piacimento da chi detiene le redini del potere. L’universo-macchina di Galileo, l’animale-macchina di Descartes, la mente-macchina di Hobbes, l’uomo-macchina di La Mettrie, per finire con la società-macchina, sono tutte tappe di un unico processo di scientifizzazione riduzionista del mondo. Gli organismi viventi (umano compreso, nonostante l’antropocentrismo dominante) vengono considerati dalla biologia alla stregua di complessi macchinari molecolari composti da geni, atomi, particelle, “tubi, pompe, molle, congegni” - niente di così diverso da quanto aveva descritto Descartes diversi secoli fa – assemblabili, modificabili e ricomponibili attraverso il taglia-incolla dei geni, l’inserimento di nanorobot nel sangue, l’ingestione di psicofarmaci che vanno ad agire sulle connessioni neuronali, la fusione di gameti in provetta, la clonazione cellulare, la produzione di fabbriche di batteri sintetici, i trapianti interspecie e l’innesto di protesi tecnologiche di ogni tipo fuori e dentro i corpi. Anche i comportamenti animali, umani e non umani, trovano una spiegazione “scientifica” e un conseguente tentativo di normalizzazione grazie agli sforzi delle cosiddette scienze sociali, come la psicologia e la sociologia. Allo stesso tempo, siamo nell’epoca della società-macchina: sistemi di sorveglianza sempre più sofisticati, raccolta dei dati, software di gestione, modelli predittivi di comportamento, oggettistica e urbanistica smart forniscono preziose istruzioni ai governanti su come gestire la macchina sociale e fare in modo che i suoi ingranaggi scorrano ben lubrificati, efficienti, produttivi e senza intoppi. Thuillier ci mette in guardia con senso di urgenza sulla natura totalitaria della scienza, sul suo progetto di dominio totale, sulla sempre maggiore presa di potere della tecnoscienza sulla società, processo che sta avvenendo sotto gli occhi di un’umanità sempre più cieca, priva di immaginazione e assuefatta ai sacerdoti in camice bianco, un’umanità che non riesce nemmeno più a vedere le proprie stesse catene. Pensare di produrre conoscenza rispetto a cos’è un essere vivente facendo correre dei ratti in un labirinto o dissezionando un coniglio, come immagine, mi pare riflettere bene quella che è l’ideologia scientista e la sua idea carceraria di mondo, la miseria esistenziale ed emotiva di cui si fa portavoce, l’oggettivazione e la mercificazione di ogni elemento del pianeta che logicamente ne conseguono. Un’ideologia di potere che Thuillier ci invita a contrastare e arrestare al più presto, senza ulteriori tentennamenti.

«Non andartene docile in quella buona notte
Infuriati, infuriati contro il morire della luce»
Dylan Thomas

No, questa volta no. L'ennesimo omicidio di un nero da parte della polizia, avvenuto lo scorso lunedì 25 maggio a Minneapolis (Minnesota), nel «paese più libero del mondo», non passerà inosservato, non finirà anch'esso a fare numero in qualche statistica. Schiacciato sotto il peso di tre poliziotti, uno dei quali col ginocchio premuto sul suo collo, George Floyd ha inutilmente invocato pietà. Le sue ultime parole sono state: «non riesco a respirare, non riesco a respirare, per favore, signore, per favore, per favore, per favore, non riesco a respirare». Ma ai signori che compongono il braccio armato dello Stato, di qualsiasi Stato, è inutile chiedere favori. È il loro lavoro non fare respirare, calpestare e soffocare ogni slancio vitale. Si arruolano appositamente per questo, per godere del potere di togliere il respiro a chi sta sotto di loro. Vengono addestrati e pagati appositamente per questo, per impedire ogni movimento di chi sta sotto di loro. E poi, se una tale richiesta proviene per di più da un poveraccio nero ed è rivolta a sbirri bianchi, allora l'esito finale è quasi sempre scontato. Talmente scontato che l'omicidio da parte della polizia è un fatto quotidiano negli Stati Uniti, considerato quasi endemico (secondo alcune statistiche, sarebbero almeno 400 le persone finora uccise dalla polizia statunitense nel 2020). È un fatto assodato, deplorato, criticato, con la stessa prontezza con cui viene metabolizzato e dimenticato. No, questa volta no. Non è stato possibile. Se la morte di George Floyd ha suscitato ben più delle abituali polemiche sulle «tensioni razziali» che allignano negli Stati Uniti o sul razzismo dilagante fra le forze dell'ordine, se ha provocato il più ampio sollevamento che si ricordi nel paese, ciò è dovuto fondamentalmente a due motivi. Il primo è quasi banale: questo atroce omicidio è stato ripreso e il video ha fatto immediatamente il giro del mondo (proprio come accadde nel 1991 a Los Angeles con il pestaggio di Rodney King). Davanti a quelle immagini che rimbalzavano ovunque, sbattute in faccia nella loro brutalità, non è stato possibile limitarsi a scuotere la testa, a bestemmiare, a sospirare, a stringere i pugni... e rassegnarsi.  È questa la differenza fra la morte di George Floyd e quella di Breonna Taylor, crivellata di pallottole lo scorso 13 marzo nel suo appartamento di Louisville (Kentucky) da tre agenti in borghese che vi avevano fatto irruzione senza mandato, o quella di Mike Ramos, ucciso da un poliziotto ad Austin (Texas) lo scorso 24 aprile mentre si trovava in un parcheggio a bordo della sua macchina. Lontani dagli occhi, è stato più facile tenere i loro omicidi lontani dal cuore. Già, terrificante tautologia — nella società dell'immagine è l'immagine a fare la differenza. Lo scorso 23 febbraio, mentre stava facendo jogging in un sobborgo di Brunswick (Georgia), Ahmaud Arbery è stato ucciso da un ex-poliziotto da poco andato in pensione e da suo figlio, che lo avevano inseguito scambiandolo per un ladro. Per oltre due mesi i due responsabili di quell'omicidio non sono stati infastiditi finché il 5 maggio è stato diffuso un video che riprendeva la loro prodezza; padre e figlio sono stati arrestati 48 ore dopo. Gli uomini dell'ordine possono ben uccidere chi non ha santi in paradiso, difficilmente verranno perseguiti, ma è meglio che prestino qualche attenzione a non farsi riprendere. Il secondo motivo che ha impedito al fatto di cronaca avvenuto a Minneapolis di venire archiviato in una triste contabilità ordinaria, rendendolo viceversa dirompente, è del tutto casuale. Non c'è nulla che si assomigli più di due gocce d'acqua, ma è solo l'ultima a far traboccare il vaso. Anche se non era diverso da altri che l'hanno preceduto, l'omicidio di George Floyd  — quest'uomo qualunque, che aveva appena perso il lavoro e che cercava solo di sopravvivere, in cui è così facile riconoscersi — ha fatto da evento catalizzatore in grado di scatenare una serie di reazioni a catena che fino ad ora niente è riuscito a fermare e che stanno rendendo sempre più incandescente la situazione sociale negli Stati Uniti.

Dunque, cosa è successo? Nella notte di quel tragico lunedì 25 maggio è stato postato su Facebook un video ripreso da una passante che mostra gli ultimi minuti di vita di George Floyd. Si odono i suoi lamenti, si vede lo sguardo vuoto e indifferente del suo carnefice in uniforme. Sono bastate poche ore perché quel video diventasse assai più «virale» del Covid-19, indignando milioni di persone e facendo precipitare nell'imbarazzo le autorità locali. Il sindaco della città Jacob Frey, membro del DFL (un partito vicino al Partito Democratico, ma su posizioni ancora più «liberal»), esprime il proprio cordoglio alla famiglia di George Floyd e licenzia in tronco i quattro poliziotti coinvolti nella sua morte. Un provvedimento urgente più che raro, reso necessario per allontanare dall'amministrazione ogni sospetto di complicità ed abbassare così la tensione in vista delle manifestazioni di protesta previste per quel martedì 26 maggio. Per tutto il giorno in molte zone della città si terranno infatti iniziative per denunciare quanto accaduto. L'incrocio dove è morto Floyd diventa punto di ritrovo, di discussione, ed il traffico viene più volte interrotto. Cortei partono da vari quartieri della città per confluire tutti davanti al commissariato del terzo distretto, quello a cui appartenevano i poliziotti licenziati, che viene circondato da migliaia di manifestanti in preda ad una rabbia crescente. La vetrata d'ingresso va in frantumi mentre c'è chi traccia scritte sulle volanti e sui muri, e chi lancia uova e sassi contro l'edificio. Quando alcuni manifestanti cercano di infrangere le finestre del commissariato scatta la reazione dei poliziotti che si trovano all'interno, i quali respingono la pressione della folla usando gas urticanti. Ne nascono tafferugli che si spostano nel parcheggio del commissariato, i cui mezzi vengono danneggiati. Inferocita, la polizia carica i manifestanti sommergendoli di gas lacrimogeni e sparando proiettili di gomma, ma i manifestanti si difendono e daranno battaglia per tutta la notte (saccheggiando un negozio di liquori per rifornirsi di spirito). Sempre nel corso di quel martedì altri manifestanti stanno tenendo un presidio davanti alla casa di Derek Chauvin, l'ormai ex-poliziotto che nel video preme il proprio ginocchio sul collo di George Floyd.

La mattina di mercoledì 27 maggio la notizia del giorno in tutto il paese è la violenza impiegata dalla polizia di Minneapolis contro i manifestanti. Qua e là cominciano a venire organizzate le prime iniziative di solidarietà. A Portland (Oregon) viene occupato il Justice Center, mentre le strade di Los Angeles sono invase da un corteo che blocca la superstrada. Una volante della polizia investe la folla dei manifestanti, che reagiscono attaccandola prima di andare a presidiare il quartier generale della polizia. L'indignazione generale è tale che lo stesso presidente degli Stati Uniti tenta di cavalcarla, scagliandosi contro il sindaco di Minneapolis accusandolo di essere un «estremista di sinistra» che reprime giuste proteste. Intanto nella città del Minnesota viene eretto un recinto di protezione attorno al commissariato del terzo distretto, mentre altre manifestazioni e presidi di protesta prendono il via. Sebbene all'inizio sia la calma a prevalere, col passare delle ore la rabbia monta, aumenta, fino a dilagare incontrollabile. Il commissariato del terzo distretto viene nuovamente attaccato e, dopo essersi scontrati con la polizia disposta anche sui tetti, i manifestanti si disperdono per la città. Decine e decine di negozi vengono saccheggiati, palazzi interi dati alle fiamme. Un manifestante sorpreso all'interno di una gioielleria viene abbattuto dal proprietario.

Giovedì 28 maggio gli Stati Uniti si svegliano sotto shock per quanto accaduto. A Minneapolis viene inviata la Guardia Nazionale e sulla città si alzano gli elicotteri della polizia. Se da un lato il sindaco Jacob Frey cerca di calmare i manifestanti invitandoli ad essere «migliori di quanto lo siamo stati noi», dall'altro il procuratore Mike Freeman butta benzina sul fuoco dichiarando di non intendere procedere contro gli agenti licenziati (Freeman è noto per la sua grande comprensione e la mano leggera nei confronti dei poliziotti dal grilletto facile). Le proteste si diffondono in entrambe le «città gemelle» che sorgono sulle sponde contrapposte del fiume Mississippi, Minneapolis e Saint-Paul, dove migliaia e migliaia di persone scendono in strada. Tafferugli fra polizia e manifestanti scoppiano fin dal pomeriggio. Ma è la notte, è soprattutto la notte a scatenare i rivoltosi, i quali sanno bene dove darsi appuntamento per dare battaglia. Il commissariato del terzo distretto viene nuovamente attaccato e questa volta i manifestanti riescono a penetrarvi all'interno. Davanti alla pressione di una folla furibonda, i poliziotti capiscono di avere un'unica via d'uscita e sono lieti di obbedire ad un ordine senza precedenti: abbandonano l'edificio e scappano via a bordo delle loro volanti. Il commissariato è ora vuoto, alla mercé dei rivoltosi. Prima viene saccheggiato e devastato, poi viene dato alle fiamme, da cima a fondo. Un rogo che durerà per ore, salutato da urla di gioia in una vera e propria festa di liberazione. Non soddisfatti, i manifestanti devastano, saccheggiano e incendiano negozi di ogni genere: di elettrodomestici, di alcolici, di abbigliamento, di ristorazione, di telefonia mobile, supermercati... anche qualche banca e molti uffici postali finiscono in fiamme. Secondo la polizia di Saint-Paul sarebbero oltre 170 i negozi attaccati a partire dall'inizio delle sommosse. La stessa sera alcuni autisti di autobus rifiutano di guidare i propri mezzi per trasportare poliziotti o manifestanti arrestati, esempio di non-collaborazionismo che nei giorni seguenti si estenderà ad altre categorie di lavoratori. Non pare un'esagerazione affermare che la notte fra giovedì 28 e venerdì 29 maggio resterà nella storia. La brutale e iper-equipaggiata forza di sicurezza del paese più ricco e potente del pianeta, barricata in una sua sede, è stata letteralmente sbaragliata da migliaia di manifestanti, neri incazzati ed incazzati neri, armati con mezzi di fortuna, per lo più giovani, privi di una consapevolezza politica, provenienti dalle fasce più povere della popolazione, ma tutti uniti dall'odio per il nemico più comune, più palese e più onnipresente: la polizia. Non solo, ma proprio mentre nell'epicentro raggiunge il suo culmine, la rivolta contro la polizia e la società che difende inizierà a divampare in altri punti del paese. Quello stesso giovedì 28 vengono infatti organizzate iniziative in solidarietà a Portland (Oregon) ed Olympia (Washington). A Phoenix (Arizona) un corteo selvaggio finisce con una sassaiola contro il commissariato locale. In California, ad Oakland viene bloccato l'ingresso di una superstrada, a Sacramento le strade vengono bloccate dai cortei, a Fontana un presidio nei pressi di un commissariato si trasforma in un blocco stradale prima di terminare con danneggiamenti e lanci di pietre contro il municipio. A Denver (Colorado) viene occupata una superstrada e scoppiano scontri fra polizia e manifestanti. A Columbus (Ohio) i tafferugli sfociano in atti di vandalismo contro il palazzo del governatore. Scontri fra manifestanti e polizia avvengono anche a Louisville (Kentucky) ed a New York.

L'alba di venerdì 29 maggio spunta su un paese che non sembra essere più lo stesso. Qualcosa sta accadendo, qualcosa di imprevisto fino a pochi giorni prima e che nessuno sa dove potrebbe portare. E di questo i politici si rendono ben conto, tant'è che al risveglio si ode subito il cinguettio notturno di Trump, che da simpatizzante non può che diventare avversario della protesta. Preoccupato per la fine del rispetto verso la proprietà privata, annuncia la mobilitazione della Guardia Nazionale e lancia il suo avvertimento ai rivoltosi: «quando iniziano i saccheggi, si inizia a sparare». Parole che non otterranno l'effetto desiderato, al contrario — più che scoraggiare, ecciteranno gli animi. Il procuratore di Minneapolis, travolto dagli avvenimenti, gioca il suo asso nella manica per tentare di spegnere i disordini che si stanno diffondendo incontrollabili. Dopo aver visto bruciare un commissariato di polizia della sua città assieme a decine di altri edifici, dopo che il suo ufficio è stato bombardato da migliaia di quotidiane telefonate ed e-mail di protesta, dopo che la scintilla scaturita nella sua città ha attecchito in altre parti della nazione, ordina l'arresto immediato di Derek Chauvin con l'accusa di omicidio di terzo grado (è il primo caso di un poliziotto bianco incriminato per la morte di un cittadino nero nella storia del Minnesota). Forse, se fosse stato preso subito, questo provvedimento avrebbe dato i risultati disinnescanti sperati. Ma dopo quattro giorni di sangue agli occhi, si rivela del tutto inutile. Anzi, in un certo senso peggiora pure la situazione. Perché è evidente che si tratta di un'ipocrita pezza da esibire (assieme ai risultati dell'autopsia di George Floyd, secondo i quali l'uomo non sarebbe affatto morto per asfissia ma per proprie patologie pregresse) nel disperato tentativo di coprire le vergogne istituzionali (per altro, proprio quella mattina la polizia di Minneapolis aveva arrestato in diretta un giornalista della CNN reo di avere la pelle troppo scura). La tensione non si spegne affatto, tutt'altro, è destinata ad esplodere in maniera incontrollabile ovunque quel venerdì 29, primo giorno del week-end. In tutti gli Stati Uniti sono innumerevoli le persone che scendono in strada per protestare contro la violenza poliziesca, sfidando il coprifuoco notturno. A Minneapolis vengono erette barricate in alcuni incroci stradali per bloccare la circolazione del traffico. È la quarta notte consecutiva di scontri (almeno quattro i poliziotti rimasti feriti), saccheggi ed incendi (di una banca e di esercizi commerciali). Un altro commissariato di polizia viene assaltato e devastato, su un muro viene lasciata un'ironica domanda: «ci ascoltate adesso?». A Washington si verifica l'incredibile: i manifestanti circondano la Casa Bianca e tentano di assaltarla. L'edificio viene chiuso in stato di massima allerta, il suo celebre inquilino viene trasferito in un bunker sotterraneo, ed il servizio di sicurezza (composto da agenti dei servizi segreti) respinge i manifestanti ricorrendo al gas urticante. Ad Atlanta (Georgia) si apre una specie di caccia allo sbirro, diverse pattuglie della polizia vengono attaccate. Le volanti sono danneggiate e incendiate. La sede della CNN viene presa di mira dai manifestanti, che ne sfondano le vetrate. A New York hanno luogo violenti scontri durante i quali vengono feriti almeno una decina di poliziotti. Un loro furgone viene dato alle fiamme, e si registrano centinaia di arresti. Fra questi, una manifestante accusata di tentato omicidio ai danni di quattro poliziotti per il lancio di una molotov contro il furgoncino sul quale si trovavano. La molotov non è esplosa e la ragazza viene arrestata, assieme alla sorella, dagli stessi agenti presi di mira (uno dei quali viene accolto a morsi). A Los Angeles alcuni manifestanti attaccano un poliziotto, che riesce a fuggire. In serata viene bloccato il traffico nel centro della città e saccheggiato uno Starbucks. A San Jose (sempre in California) i manifestanti erigono barricate con cassonetti della spazzatura poi dati alle fiamme, si scontrano con la polizia e infrangono diverse vetrine dei negozi. A Portland (Oregon) i manifestanti danno l'assalto alla prigione e al commissariato centrale. Una galleria commerciale è saccheggiata e incendiata. Scontri e disordini si verificano anche a Dallas (Texas), Houston (Texas), Las Vegas (Nevada), Denver (Colorado), Memphis (Tennessee)... Ma è in altre due città che avviene l'irreparabile, ciò che contribuisce ad alimentare ed estendere ulteriormente le sommosse in corso. Ad Oakland (California) è stata una giornata di manifestazioni di protesta. In serata migliaia di persone invadono l'autostrada, bloccando il traffico. Alle 21.45 la polizia annuncia il divieto della manifestazione. I manifestanti si disperdono per la città; c'è chi incendia cassonetti della spazzatura, chi devasta e saccheggia negozi, chi penetra dentro una banca per appiccarvi il fuoco, chi fa una rude visita a qualche concessionario d'auto... davanti al municipio si può leggere la scritta «non abbiamo nulla da perdere, solo le nostre catene». Ma proprio poco dopo le 21.45, da un'auto che transita davanti al tribunale federale vengono esplosi alcuni colpi d'arma da fuoco che raggiungono due agenti di guardia, uno dei quali muore. Che il modo migliore di «stop killing black people» sia quello di «start killing white pigs»? Questa notizia viene data solo il giorno dopo e all'inizio le autorità ne enfatizzano i toni, annunciando che si tratta di un atto di «terrorismo domestico». Poche ore dopo, forse accortisi che così rischiano di indicare il cattivo esempio, gli inquirenti si affrettano a negare che ci siano collegamenti con le proteste in corso. Invece a Detroit (Michigan) una manifestazione di protesta contro la brutalità poliziesca, iniziata nel pomeriggio nella maniera più pacifica, finisce con scontri notturni fra manifestanti e forze dell'ordine. In mezzo alla baraonda, verso le 23.30, anche qui alcuni colpi di arma da fuoco vengono sparati da un Suv. Ma questa volta contro i manifestanti, ed un ragazzo di 19 anni viene colpito a morte.  

Con simili presupposti, è inevitabile che anche sabato 30 maggio sia una giornata infuocata in una nazione dove in almeno 25 città di 16 Stati è stato imposto il coprifuoco, e la Guardia Nazionale mobilitata in una decina di Stati. Il ministero della Difesa ordina all'esercito di prepararsi a schierare in tutto il paese le unità di polizia militare. Nel corso della giornata hanno luogo manifestazioni pacifiche (a Eureka, Des Moines, Tacoma e Geneva, dove viene chiusa la superstrada, Santa Rosa, Modesto, Houston, Bloomington, Louisville, Miami, Durham, Montgomery, Atlanta, davanti alla casa del governatore, Burlington), altre che generano scontri fra manifestanti e forze dell'ordine (a Salem, Portland, dove il sindaco ha decretato il coprifuoco dalle 20 alle 6, Salt Lake City, Oakland, Phoenix, Denver, Dallas, Oklahoma City, Columbus, Milwaukee, Tampa, Jacksonville, Little Rock, Boston, Pittsburgh). Nell'epicentro della rivolta, Minneapolis, il governatore Tim Waltz lancia un appello ai manifestanti: «Capisco la rabbia ma tutto questo non riguarda la morte di George Floyd, né le disuguaglianze, che sono reali. Questo è il caos». Le sue parole non devono apparire molto convincenti, considerato che migliaia di manifestanti sfideranno ancora il coprifuoco e la Guardia Nazionale per andare a devastare la casa di Derek Chauvin, incendiare banche, uffici postali, ristoranti e una pompa di benzina, prima di cercare purtroppo inutilmente di bruciare il commissariato di un altro distretto. A Washington ennesima manifestazione davanti alla Casa Bianca, protetta dalla Guardia Nazionale e — a detta del fulvo settantaquattrenne bimbominkia che vi risiede — da cani cattivissimi. Un sempre più massiccio servizio d'ordine usa nuovamente il gas urticante per disperdere la folla, ma questa volta i manifestanti resistono ed alcuni di essi riescono perfino a contrattaccare con una sassaiola. Un'auto dei servizi di sicurezza parcheggiata all'esterno viene danneggiata, così come il Ronald Regan Presidential Foundation and Institute. A New York scoppiano ancora violenti scontri, il cui bilancio ufficiale parla chiaro: 350 manifestanti arrestati (fra cui la figlia del sindaco della città, la quale stava partecipando ad un blocco stradale), 33 agenti feriti, 47 mezzi della polizia danneggiati. Un Suv della polizia investe una barricata, ferendo alcuni manifestanti. A Seattle (Washington), oltre a scontri con la polizia durante i quali vengono date alle fiamme alcune volanti, si verificano dei saccheggi e viene chiusa una strada interstatale. A Reno (Nevada) la polizia fa uso di gas lacrimogeni scatenando l'ira dei manifestanti che assaltano e devastano un commissariato. A Las Vegas (Nevada) i poliziotti vengono attaccati con bottiglie molotov mentre vengono danneggiate automobili e saccheggiati negozi. A Jackson (Florida) durante gli scontri restano feriti diversi poliziotti, uno dei quali pugnalato al collo. A Sacramento (California) ci sono saccheggi e scontri con la polizia. Nel pomeriggio molti manifestanti attaccano il carcere della contea, infrangendone i vetri. Ad Emeryville (California) vengono saccheggiati grandi magazzini in diverse aree. A San Francisco sono bloccate strade e saccheggiati negozi. Il sindaco invoca la Guardia Nazionale. A Los Angeles scoppia una vera rivolta di massa, con negozi saccheggiati a Berverly Hills e sulla Rodeo Drive al grido di «Eat the rich!», volanti attaccate, commissariati incendiati. Viene decretato lo stato d'emergenza e mobilitate tutte le forze di polizia.  A La Mesa (California) si verificano saccheggi e incendi di banche. A Scottsdale (Arizona) un centro commerciale è saccheggiato. Ad Austin (Texas) viene chiusa un'autostrada, si saccheggiano negozi, si vandalizzano i commissariati. A San Antonio (Texas) dopo un pacifico corteo viene attaccato ed incendiato l'ufficio della libertà vigilata. A Lincoln (Nebraska) in mezzo a proteste, blocchi stradali, scontri con la polizia, viene dato alle fiamme l'edificio delle Poste. A Madison (Wisconsin) la protesta sfocia in scontri e saccheggi. A Grand Rapids (Michigan) e a Kansas City (Missouri) i manifestanti riscaldano l'aria con numerosi roghi. A Rockford (Illinois) hanno luogo scontri e saccheggi. A Chicago i poliziotti vengono bersagliati con oggetti di ogni genere e le loro volanti fracassate. A Cleveland (Ohio) si verificano scontri, saccheggi e molte volanti sono date alle fiamme. A Charleston (West Virginia), Columbia (South Carolina) e Raleigh (North Carolina) le manifestazioni terminano con scontri e saccheggi, alcune volanti prendono fuoco. A Richmond (Virginia) molti negozi vengono saccheggiati, la sede delle Daughters of the Confederacy viene incendiata. Si inizia a vandalizzare i monumenti confederali, celebrazione dello schiavismo. A Ferguson (Missouri) viene danneggiato e fatto evacuare un commissariato, dopo che i suoi agenti sono subissati dal lancio di petardi, mattoni, sassi, bottiglie. A Nashville (Tennessee) i manifestanti, dopo essersi scontrati con la polizia, riescono ad incendiare il tribunale. A Syracuse (New York) viene attaccato il commissariato centrale di polizia. A Philadelphia (Pennsylvania), dopo scontri con la polizia e incendi di volanti, alcuni manifestanti si arrampicano sulla statua di Frank Rizzo (commissario di polizia nel 1968 e successivamente sindaco della città) e le danno fuoco. Ad Indianapolis (Indiana) viene ucciso un altro manifestante, il terzo dall'inizio delle sommosse.

Domenica 31 maggio la protesta contro la polizia si internazionalizza. A Rio de Janeiro si tiene una grande manifestazione contro la polizia che solo lo scorso anno in quella città ha commesso circa 1800 omicidi — una media di 5 al giorno. Sfidando le norme antipandemia, diverse manifestazioni di protesta sono organizzate anche a Londra (dove si registrano arresti), Berlino, dove l'ambasciata statunitense viene circondata dai manifestanti, Toronto e Auckland (Nuova Zelanda). Nel frattempo le agitazioni continuano inarrestabili anche negli Stati Uniti. In una Minneapolis blindatissima tutto sembra procedere nella calma, quando un'autocisterna cerca di investire la folla di manifestanti su un ponte. Un atto che per fortuna non provocherà nessun ferito (a parte l'autista del mezzo, che viene quasi linciato sul posto). A Washington per tutta la giornata nei pressi della Casa Bianca, soprattutto nel parco antistante, scoppiano violenti e ripetuti scontri, durante i quali rimangono feriti una cinquantina di agenti dei servizi di sicurezza. Lo scantinato della chiesa di Saint-John (chiamata «Chiesa dei Presidenti»), che si trova all'ingresso del parco, viene dato alle fiamme. Ancora una volta all'interno del palazzo governativo viene decretato lo stato di allerta e il Presidente condotto in un bunker. Altrove per la città alle manifestazioni si risponde con gas lacrimogeni e granate stordenti. La sede dell'AFL-CIO, la più potente organizzazione sindacale del paese, viene devastata e incendiata. Sul suo muro viene lasciata la scritta «il silenzio è complice». Banche e gioiellerie vengono attaccate. Molti monumenti sono vandalizzati. A Los Angeles la polizia fa uso di gas lacrimogeni contro i manifestanti che bloccano una via commerciale nel quartiere di Santa Monica. Numerosi palazzi commerciali e negozi sono saccheggiati. Sono oltre 20 le città della California in cui avvengono saccheggi. A New York migliaia di manifestanti invadono le strade di Manhattan per raggiungere Union Square. Scoppiano nuovamente scontri con le forze dell'ordine, sulla Broadway. In cinque quartieri della città si verificano saccheggi. A Boston (Massachusetts) centinaia di manifestanti si scontrano con la polizia, danneggiando ed incendiando volanti. Si saccheggiano alcuni negozi. Anche ad Atlanta (Georgia) la polizia ricorre ai lacrimogeni. Viene dato l'annuncio che due poliziotti sono stati licenziati e altri tre sospesi per «uso eccessivo della forza» durante le manifestazioni del giorno precedente. A Philadelphia (Pennsylvania) molte volanti della polizia vengono attaccate e distrutte, e alcuni negozi saccheggiati. Poco dopo mezzanotte un manifestante viene ucciso dalla Guardia Nazionale a Louisville (Kentucky), città che in tutto il week-end è stata teatro di violenti scontri anche perché brucia ancora il ricordo della morte di Breonna Taylor. Altri due manifestanti rimangono uccisi a Davenport (Iowa). Il capo della polizia di questa città dichiara che anche tre agenti hanno subito un agguato, e che uno di loro è rimasto ferito.

Oggi è lunedì 1 giugno. È trascorsa una settimana dalla morte di George Floyd e tutta l'opinione pubblica statunitense è concorde nel ritenere di trovarsi di fronte «ai peggiori disordini civili dai tempi dell'assassinio di Martin Luther King». Il che è un elegante modo di fare buon viso a cattivo gioco. È infatti evidente che non è più la «questione razziale» a scaldare gli animi, come dimostra non solo la componente multietnica dei rivoltosi (Samantha Shader, la ragazza newyorkese arrestata venerdì notte per il lancio di una molotov contro la polizia, non è nera, né nativa americana, e nemmeno latina; è bianca, il colore della pelle giusto per essere lasciati in pace dal razzismo poliziesco, cosa che non le ha impedito di rischiare oggi l'ergastolo per aver cercato di vendicare George Floyd e tutte le altre vittime degli assassini in divisa), ma anche gli stessi slogan che scandiscono le manifestazioni in corso. L'appello alle Vite nere che contano ha lasciato sempre più spazio agli universali Nessuna pace senza giustizia e Non riesco a respirare. Da sgherri quali sono, i poliziotti non fanno altro che difendere il mondo dei loro padroni. Ed è proprio questo mondo che da Los Angeles a New York, passando per Minneapolis, viene dato alle fiamme. Un incendio divampato quasi con naturalezza, con rapidità impressionante, che ha sorpreso gli abituali pompieri-recuperatori lasciandoli attoniti davanti al fatto compiuto, senza più molte possibilità di intervenire. Quando un'attivista nera avvocata dei diritti civili difende apertamente i saccheggi, quando una celebre pop-star si dichiara pronta a fare qualsiasi cosa pur di buttare fuori l'inquilino dalla Casa Bianca, significa che le classiche riluttanze stanno venendo meno. Fra le autorità cosiddette «responsabili», quelle più attente a non far precipitare la situazione, non si sa più cosa fare per calmare le acque (agitate anche dalla nuova autopsia sul cadavere di George Floyd, che ha indicato nell'asfissia provocata dalla pressione sul collo la causa effettiva della morte). Ecco quindi salire oggi alla ribalta niente meno che i poliziotti buoni, come quelli che a New York, Washington, Miami (Florida) e Santa Cruz (California) si sono messi in ginocchio in solidarietà con i manifestanti, o quelli che a Genesee (Michigan) e Norfolk (Virginia) si sono uniti ai cortei di protesta. Spettacolo mediatico più che reale defezione, senz'altro, ma avvenimento comunque indicativo e destinato ad essere presto sovrastato dall'arroganza di un governo che sputa sul fuoco nella certezza di riuscire a spegnerlo. Questa mattina l'ex-sindaco di New York, nonché consigliere di Trump sulla sicurezza, Rudolph Giuliani, ha dichiarato: «sono 7 giorni che la teppa comanda nelle città con i sindaci più democratici, è ovvio che questi sindaci sono incapaci di proteggere i loro cittadini. Danno forza ai rivoltosi abbandonando commissariati e ordinando alla polizia di stare ferma e di farsi aggredire senza procedere ad arresti» (sebbene siano migliaia gli arrestati nel corso delle sommosse). Poche ore dopo, il suo tracotante superiore, stanco di venire rinchiuso nel bunker di una Casa Bianca da giorni sotto assedio, ha annunciato che considererà «terroristi» i militanti Antifa (che considera i fomentatori dei disordini) e sollecitato governatori, sindaci e commissari a riportare Legge & Ordine usando le maniere forti contro i manifestanti: «Se non dominate le vostre città e i vostri Stati, vi spazzeranno via... A Washington stiamo per fare qualcosa che la gente non ha mai visto». Appellandosi all'Insurrection Act del 1807, vuole inviare l'esercito nelle strade. Successe già nel 1967 o nel 1992, dopo le rivolte di Detroit e Los Angeles. Ma quelle rivolte erano circoscritte ad una singola aerea, qui è tutta la nazione che andrebbe pattugliata militarmente. Una simile decisione cosa può provocare? Riporterà la pace sociale o scatenerà la guerra civile? Trattare da insurrezione una protesta generalizzata costellata da sommosse non è forse il modo migliore per materializzare ciò che si è evocato? Senza dimenticare che con somma ipocrisia è la stessa Dichiarazione d'Indipendenza degli Stati Uniti a proclamare il diritto, anzi, il dovere di rovesciare un governo dispotico. Tanto più che — qualora politici e miliardari non se ne siano ancora accorti — in tutti gli Stati Uniti sta già accadendo qualcosa che alla Casa Bianca di Washington non avevano mai visto: la diffusione della consapevolezza che sotto il peso dell'autorità non si riesce né a muoversi né a respirare, ovvero a vivere. Che è inutile chiedere favori a chi ci tiene, più o meno premuto, il piede sul collo. Che quando la sola scelta lasciata da questa società è quella fra obbedire in silenzio o venire schiacciati, non resta che rifiutare entrambe le alternative e armare questa consapevolezza con la rivolta. Sfidando coprifuoco e forze dell'ordine, gas urticanti e pallottole. Sfidando la paura e la rassegnazione, il senso di impotenza ed il realismo. Scendere in strada e battersi, con furia, senza moderazione, scoprendo che non si è affatto soli, che non si è affatto deboli, e che è possibile, è sempre possibile rovesciare la situazione. Cominciare a respirare, nella sola maniera possibile: non facendo più respirare l'autorità.

Tratto da Finimondo

Quando sono arrivato nel pomeriggio al terzo distretto, l’atmosfera era gioviale, mentre migliaia di persone si rilassavano intorno al fuoco di un’auto in fiamme nel centro commerciale Target, ormai devastato. Sullo sfondo una cascata che sgorgava dallo scheletro carbonizzato di un enorme complesso residenziale a due piani incendiato, la gente festeggiava per ciò che era accaduto e per quanto fosse surreale l’intera situazione. Veicoli stracolmi di gente che si sporgevano dai finestrini attraverso il parcheggio del Target gridando “Fanculo 12!”, e cantando a squarciagola “Fanculo la polizia” di Lil Boosie – una canzone che è diventata comune nella cultura ribelle del Midwest.

Mentre il sole tramontava, è ri-prevalsa la rabbia, ed è iniziato il terzo assedio della stazione di polizia. Alla fine, l’edificio è stato sfondato e i rivoltosi sono entrati. In un ultimo tentativo di tenere il loro territorio, i maiali si sono rintanati vigliaccamente nel retro della stazione di polizia lanciando gas lacrimogeni contro la folla di ribelli inferociti. Esasperata e in vena di combattere, la gente libera del nord ha colpito il nemico (non equipaggiato a sufficienza) alle spalle e ha fatto degli scudi con le protezioni di legno compensato così da sopraffarre lentamente i porci. Con le munizioni che probabilmente si stavano esaurendo e senza opzioni a parte una ritirata strategica, ma in ogni caso patetica, non rimaneva nulla che potesse impedire la conquista. La stazione è stata presa.

Mentre le fiamme di un edificio di due piani a circa un isolato di distanza toccavano il cielo, il terzo distretto è diventata una piñata. Le sue recinzioni sono state abbattute mentre la struttura veniva distrutta; la parte anteriore è stata incendiata, le fiamme di 20 piedi rendevano evidente la vittoria. A questo punto i rivoltosi sono entrati in quella che posso descrivere come una frenesia estatica, poiché un rancore vecchio di decenni è stato cancellato e con questo il dolore che la sua facciata rappresentava. Mentre migliaia di persone si sedevano e guardavano bruciare questo schifo, non potevo fare a meno di pensare alle generazioni di persone tormentate, torturate e/o assassinate dai subumani che camminavano nei corridoi di questo distretto. La precisione di questo atto di giustizia vigilante trasudava dal vetriolo e dalla furia della vendetta ancestrale.

A questo punto, i rivoltosi hanno fatto irruzione nella parte posteriore del distretto che non era in fiamme – è un edificio molto lungo – e hanno iniziato a saccheggiarlo in cerca di armi, giubbotti antiproiettile, munizioni e altri oggetti utili. Si diceva in giro che i rivoltosi stessero cercando di incendiare la metà posteriore dell’edificio, ma sospetto che in realtà si stessero occupando di tutti i beni da saccheggiare. Alcune persone si sono prese la briga di appiccare un bell’incendio di rifiuti nel parcheggio, mentre la gente guardava con ammirazione lo spettacolo. Contemporaneamente, un altro edificio è stato incendiato in fondo alla strada, non posso confermare quale fosse, anche se ho potuto vedere le fiamme in lontananza.

I primi colpi d’arma da fuoco della notte si sono uditi mentre qualche patriota sembrava utilizzare un’arma semi-automatica sparando al cielo mentre blaterava stronzate tipo “blah blah blah 1776… blah blah blah non ci sottometteremo al Nuovo Ordine Mondiale…”. All’inizio questo ha scosso la gente, come fanno solitamente gli spari, ma alla fine è diventato evidente che questi pazzi erano per lo più alla ricerca di un sound-bite fresco e di un gesto simbolico da trasmettere sui social media o qualche cagata simile. Uno dei fottutissimi bastardi sembrava trasmettere le sue azioni ai suoi seguaci. Dopo aver gonfiato il petto per qualche minuto, se ne sono andati.

Più o meno in questa fase la gente ha iniziato a riferire che la Guardia Nazionale si stava muovendo per riprendere il terzo distretto. Questo ha avuto un effetto tangibile sull’umore del 10% della gente (soprattutto per tutti gli spari che si sentivano dai quartieri circostanti), ma tutti gli altri sembravano per lo più tranquilli. Alcuni hanno continuato a costruire barricate di fuoco, altri hanno saccheggiato Arby’s (e alla fine gli hanno dato fuoco), altri hanno ballato sopra e intorno alle auto che sfrecciavano sul Meek Mill, mentre selvaggi motorizzati facevano burnout e trucchi da duri ovunque trovassero lo spazio. Se dovessi dire che sensazione mi ha dato quel momento, direi che era una via di mezzo tra Fast and Furious (senza contare quella merda di Tokyo Drift) e lo spirito di Ferguson.

Anche se posso riportare con maggior precisione gli avvenimenti intorno al 3° distretto, l’intera Twin Cities [Per Twin Cities si intendono Minneapolis e Saint Paul, città distinte anche se adiacenti e costituenti un’unica area metropolitana, ndt] è stata saccheggiata. H&M in Uptown è stato saccheggiato, la gente si è data a riots e saccheggi nel centro di Minneapolis, e dopo una giornata di devastazione del centro commerciale a Midway, i rivoltosi hanno continuato a fare lo stesso in altre zone di Saint Paul. Questo breve resoconto non riporta i racconti dei saccheggi più modesti e l’aumento enorme di azioni criminali in entrambe le città a causa dei molti che probabilmente si sono resi conto che se i maiali non possono proteggere un misero distretto senza chiamare la Guardia Nazionale, la situazione è chiaramente oltre le loro capacità e non possono semplicemente essere ovunque.

Mentre preparavo le cose per la notte, la distruzione sembrava andare avanti veloce con i presunti incendi dolosi in entrambe le Twin Cities e le segnalazioni di persone che si concentravano sul primo e/o sul quarto distretto (o sui quattro), mentre il quinto si diceva che fosse completamente abbandonato. È difficile sintetizzare in pixel l’energia della battaglia per il 3° distretto. Immagino che avreste dovuto esserci. L’attuale paesaggio intorno al lago St. ricorda le scene di Escape from L.A. (Fuga da Los Angeles), con 5-10 isolati di Minneapolis in fiamme o distrutti, quasi senza polizia o la speranza di una tregua dall’insaziabile danza di guerra. Se lo spirito di quella notte è un’indicazione di ciò che verrà, dubito seriamente che gli arresti degli assassini di Floyd o della Guardia Nazionale riusciranno in qualche modo a placare la rabbia della gente. Si tratta di pareggiare i conti in un momento in cui ci sono molti più motivi per pareggiare i conti.

La vittoria spirituale e strategica nel devastare e saccheggiare il terzo distretto è incalcolabile e il potere simbolico scatenato da ciò che sarà possibile fare nelle rivolte future è a dir poco incredibile.

Le stazioni di polizia POSSONO essere conquistate.
Lo Stato PUÒ essere piegato dalla nostra volontà.

Viva l’anarchia e il popolo libero del nord!

https://anarchistnews.org/content/battle-3rd-precinct-personal-account

Questa è un'immagine delle rivolte che si stanno scatenando a Minneapolis, dopo l'uccisione di un ragazzo afroamericano da parte delle solite merde della polizia. Commissariati date alle fiamme, supermercati saccheggiati, banche attaccate, scontri con la polizia e strade occupate. Il messaggio è chiaro: per rompere con razzismo e autorità bisogna prendersela con il mondo che le genera.

Poi se il fiume in piena inizia a scorrere in altre città come a Los Angeles, Memphis, Louisville, Denver e New York, allora la rivolta inizia ad avere un respiro più lungo e più per pericoloso per chi comanda. George Floyd non respirava sotto il ginocchio di uno sgherro del potere. Da alcuni ghetti, e non solo, suona forte chiaro un urlo di rivolta nell'epoca del virus: respirare significa tentare di liberarsi da chi ci costringe a vivere una vita con quel ginocchio puntato sul collo ogni giorno, per farla finita con qualsiasi autorità che soffoca ogni nostro desiderio.

Quello che segue è l’ultimo articolo di Ivan Illich (1926-2002), scritto a quattro mani con Silja Samerski. La mattina stessa della sua morte lo aveva rivisto, aggiungendovi alcune note. Nel corso delle settimane precedenti si erano incontrati regolarmente per pensare insieme quale fosse il modo migliore di descrivere la distruzione dell'esperienza concreta e sensuale del presente attraverso l'ossessione per il rischio statistico.  

Circa una trentina di anni fa, il National Institute of Mental Health pubblicava uno studio attestante che un gran numero di consultazioni mediche si concludevano con la prescrizione di un derivato dal valium o di un altro tranquillante. All'epoca, questo articolo provocò un acceso dibattito sui danni iatrogeni di una simile anestesia di massa. Oggi, non è solo la salute dei pazienti a rischiare d’essere danneggiata da terapie avventuristiche, è il loro stesso avvenire ad essere minacciato dalle previsioni statistiche. Sia in caso di prevenzione dal cancro, che di esame prenatale o di test postoperatori a seguito di un tumore allo stomaco, il paziente corre un «rischio» attestato dal punto di vista medico che, come una spada di Damocle, rimarrà sospeso sul suo presente come un pronostico. Questa nuova epidemia di insicurezza, causata dalla confusione fra un profilo di rischi ed una diagnosi medica, è finora sfuggita ad ogni dibattito critico.


Sul buon uso di numeri e statistiche

Il nuovo libro di Gerd Gigerenzer, Quando i numeri ingannano: imparare a vivere con l'incertezza, ha come tema l'influenza delle probabilità statistiche e i malintesi che generano. Comincia chiarendo l'errore costituito dallo scambiare i risultati dei test per delle certezze. Procedimenti come la mammografia, il rilevamento di anticorpi anti-HIV nel sangue o i test genetici sulla propensione all'obesità producono sicuramente una massa di dati, ma non permettono di dedurre cosa ne è di quella specifica persona. Tutto ciò che fanno è allargare il ventaglio di possibilità angoscianti e seppellire ciò che è sotto gli strati di ciò che potrebbe essere. Partendo da un profluvio di dati, gli esperti in statistica calcolano le probabilità che dapprincipio vengono interpretate come rischi dai fondi assicurativi e dagli epidemiologi prima d’essere interiorizzate dai pazienti come se fossero verdetti. Durante la consultazione medica, un «rischio attestato di cancro al seno» o una «probabilità di longevità ridotta» per chi pretende di sottrarsi a un trattamento radiologico sono interpretati come minacce personali, mentre non è che l'espressione numerica della frequenza di determinati eventi all'interno di grandi complessi. Il paziente, che non si rende conto che i «rischi» che il medico gli imputa sono solo le probabilità di insorgenza di determinate caratteristiche in schiere fittizie di pazienti, considera le dichiarazioni del medico come se fossero rivolte in modo particolare alla sua stessa carne. Gigerenzer vorrebbe porre fine a queste ingenuità una volta per tutte. Secondo lui, se il cittadino moderno non vuole più farsi fregare, deve capire che il mondo non ha più una realtà tangibile. Gigerenzer ritiene sia giunto il tempo in cui l'homo educandus non deve più solo familiarizzare con i rudimenti del calcolo delle probabilità, ma anche assimilarne le regole. In quanto direttore dell'Istituto Max Planck per lo sviluppo umano di Berlino, con il suo libro pretende di smaliziare sia gli esperti che i profani iniziandoli agli arcani del calcolo dei rischi. Le conoscenze statistiche acquisite alla sua lettura dovrebbero avere un doppio effetto: anzitutto dovrebbero costituire una salvaguardia dalle acrobazie statistiche ingannevoli, oltre a voler convincere il lettore che una valorizzazione critica del calcolo delle probabilità è la quintessenza del pensiero illuminato. Non si limita a dissipare l'illusione secondo cui un test HIV sarebbe una diagnosi o un'impronta genetica, una prova di colpevolezza, ma intende espellere dalle menti dei suoi allievi ogni sentimento di certezza intuitiva. Ritenendo che l'evoluzione umana sia stata superata dai progressi della tecnica, lo psicologo stima che non vi sia più motivo di affidarsi ai sensi carnali. La stessa fiducia nella realtà è, a suo avviso, un’illusione. Chiunque insista, dopo questa lezione, a basare i propri giudizi sulle proprie intime certezze invece di soppesare possibilità e rischi non è soltanto in ritardo, ma si espone al pericolo. È in nome di questi nuovi Lumi che Gigerenzer annuncia ai suoi lettori che solo il cittadino che ha abiurato la propria intuizione e la propria esperienza possa aspirare al titolo di cittadino adulto.

Calcolo e senso comune

Si tratta dello stesso Gigerenzer che, alla fine degli anni 80, studiava come a partire dalla metà del XX secolo gli psicologi fossero giunti progressivamente a considerare il cervello una macchina calcolatrice. Nei suoi studi sulla storia dell'intelletto umano ritenuto un intuitivo statistico, descriveva come i suoi colleghi pretendessero di verificare l'ipotesi che i loro porcellini d'India erano in grado di valutare concretamente le probabilità. Non essendo il teorema di Bayes programmato nel cervello e non corrispondendo le stime umane ai risultati dei calcoli statistici, gli psicologi che pretendevano di esplorare le capacità del giudizio umano gli imputavano parzialità e impotenza. «Gli psicologi del ventesimo secolo avevano un tale rispetto per la teoria matematica delle probabilità e la statistica da insistere [...] a voler riformare il buon senso umano al fine di renderlo conforme alla matematica». Ma oggi, secondo Gigerenzer, il senso comune è un'entità superata. Nel gioco a dondolo di un mondo tecnogeno, chiunque voglia rimanere in sella non ha altra possibilità che interiorizzare le sue leggi: «Il mio proposito è quello di divulgare le regole di un pensiero chiaro e facile da comprendere al fine di aiutare chiunque ad orientarsi fra le innumerevoli incertezze del nostro mondo moderno, dominato dalla tecnica». La maggior parte degli esempi con cui pretende di illustrare la necessità di un'educazione al pensiero probabilistico per la condotta della vita quotidiana sono tratti dalla medicina e dalla giurisprudenza, e la loro morale è sempre la stessa: molte sventure potrebbero essere evitate se gli esperti e i profani fossero meglio istruiti in fatto di statistica. Il test del DNA conduce parecchi imputati dietro le sbarre senza che i giudici tengano conto del fatto che anche una corrispondenza effettiva tra i profili genetici esaminati può essere una coincidenza statistica. Dopo un test HIV positivo, David è tentato di suicidarsi fin quando non viene a sapere che un tale risultato non è una diagnosi e che in una popolazione normale, su due test positivi, uno è falso. È senza dubbio grottesco come quegli stessi esperti — medici, avvocati, consulenti in materia di Aids — che mettono i risultati dei test sotto gli occhi dei loro clienti prima di intimidirli con batterie di esami di laboratorio e di probabilità, non abbiano la minima idea della portata limitata dei giudizi fondati sulla statistica. Gli esempi di «diagnosi» patogene menzionati da Gigerenzer sono impressionanti: uomini in piena salute che si sottopongono al test per la diagnosi precoce del cancro alla prostata perché credono di sfuggire così alla prospettiva di morte per cancro, e gli effetti di questo screening e dei trattamenti connessi sono spesso l'impotenza e l'incontinenza. O, meno fortunate di David, persone che si suicidano dopo che un test sull'HIV ha fatto loro credere di avere l'Aids. Più o meno ogni anno, circa centomila donne tedesche si sottopongono all'ablazione del seno a seguito di una mammografia errata. I casi di interventi ingiustificati vanno dall'esame di tessuti vitali alle peggiori mutilazioni. Come avvertimento sulle conseguenze pericolose e perfino fatali dell'illusione che la vita possa essere assicurata ed i servizi medici garantiti, il libro di Gigerenzer adempie magnificamente al suo scopo. Se alcuni passaggi critici sono sconvolgenti, è per il loro candore, come ad esempio quelli in cui Gigerenzer parla del «valore predittivo positivo» di tale esame di laboratorio. Dopo aver appreso che su dieci donne disperate per una «mammografia positiva» una sola soffre di cancro al seno, o che in una popolazione normale appena la metà dei test HIV positivi attesta un'infezione effettiva, il lettore si lascerà ancora intimidire da quel «valore di predizione»? La differenza tracciata da Gigerenzer tra il rischio «relativo» e quello «assoluto» ci sembra particolarmente illuminante. Le campagne pubblicitarie a favore della mammografia continuano a predicare che gli esami regolari riducono del 25% la mortalità per cancro al seno. Ciò significa che in dieci anni, nel gruppo controllato con mammografie, tre donne su mille saranno morte per cancro al seno, mentre ce ne saranno quattro nel gruppo senza mammografie. È facile dedurne che lo screening abbia ridotto di un quarto il rischio relativo. Il rischio assoluto, in compenso, è stato ridotto solo da quattro a tre casi su mille, vale a dire dello 0,1%. Ciò significa che 999 donne su mille saranno state orientate inutilmente verso la mammografia e che i risultati falsamente positivi avranno inoltre scatenato un'epidemia di insicurezza fra decine di loro.

La statistica e la medicina predittiva

Gigerenzer ha ben compreso che l'impresa medica è l'esempio perfetto dell'irrazionalità di una società dominata dalla fede nella fattibilità tecnica. Il suo sguardo sobrio sui «fatti concreti» è adatto a disilludere permanentemente i suoi lettori. L'«illusione mammografica» gli serve da dimostrazione-tipo della contro-produttività della cosiddetta diagnosi precoce. Quando sottolinea inoltre la relazione tra la paura oggi dilagante del cancro al seno e le fuorvianti statistiche che la alimentano, il tutto appare davvero come un gigantesco gioco di prestigio. Il suo libro contiene potenzialmente le condizioni ideali per una discussione radicale sulle conseguenze patogene della trasformazione tecnica della società e sul suo servilismo nei confronti dei test. La questione di cui discutere è: com’è diventato possibile che oggi dei cittadini in piena salute siano diventati dipendenti dal verdetto di esperti e di apparati tecnici pur di ottenere l'«assicurazione» che probabilmente non hanno niente? Ma Gigerenzer non si spinge oltre. Lungi da chiedersi come un modo di diagnosi patogena possa diventare un bisogno, il ricercatore in sviluppo umano preferisce mettere sul mercato la panacea della sua pedagogia statistica. Come la sua precedente discussione sulla creduloneria popolare di fronte alla medicina, il suo «ABC dello scetticismo» resta superficiale. Si limita a fornire al lettore i rudimenti della valutazione delle «possibilità» e dei «rischi». Quanto al presupposto cognitivo di tali concetti, lo lascia accuratamente nell'ombra, quale forma di pensiero di corte in cui il cittadino concreto subisce una mutazione che lo riduce alla condizione di membro senza volto di una popolazione. Ecco perché l'espressione rischio personale è un ossimoro, una contraddizione in termini. Il fatto che lo psicologo che si occupa da anni della divulgazione di concetti statistici non dia alcuno spazio a questo paradosso costituisce la principale debolezza del suo libro. Le probabilità traducono in cifre la frequenza di un evento in una corte immaginaria, e questo Gigerenzer lo spiega bene. Tuttavia, non trova parole per stigmatizzare il significato limitato di tali probabilità e la loro strana trasformazione in «rischi» minacciosi non appena varcano la soglia della clinica o dell'ambulatorio. Gigerenzer ha perso l'occasione di attirare l'attenzione su un malinteso epidemiologico, cioè sulla supposizione infondata che un «rischio» clinicamente attestato sia la quantificazione di una minaccia che graverebbe su un particolare paziente. Nasconde così sotto il tappeto uno dei maggiori pericoli associati alla vacuità di concetti statistici nel pubblico: oggi, ogni conversazione con un medico, un genetista o un consulente in materia di Aids provoca quasi inevitabilmente paura, perché i calcoli delle probabilità vi si confondono con previsioni o, peggio, con diagnosi. Per definizione, le probabilità non si riferiscono mai a una persona concreta, ma ad un casus costruito; mai a un «io» o un «tu» che potrebbero essere presenti in una conversazione in corso, ma sempre a un «caso» membro di una popolazione statistica. Quando per giunta Gigerenzer mette sullo stesso piatto le probabilità statistiche e i «pericoli» vissuti, cade nella medesima trappola che si era proposto di segnalare: fregia lui stesso la cifra astratta di una frequenza con un’apparente concretezza e la carica in questo modo di significati falsamente comuni, trasformando così un concetto statistico in una pseudo-realtà di cui si presume i pazienti debbano fare esperienza. Gigerenzer riproduce così, a un livello superiore, proprio ciò che pretende di criticare. Invece di chiarire in profondità il pensiero del rischio, lo strofina come un unguento per farlo penetrare sotto la pelle dei suoi lettori. In Quando i numeri ingannano, il «cittadino adulto» viene rattrappito alla dimensione di un «consumatore informato». L'idea che ciò che dovrebbe essere oggetto di un sano scetticismo sia presupposto di un significato concreto di un «rischio attestato di cancro al seno», o di un risultato astratto da laboratorio come «HIV positivo» o «trisomia 21 [sindrome di Down]», non lo sfiora nemmeno. Quando documenta la contro-produttività del sistema medico moderno, non vede che la radice del male è l'ossessione sociale per la salute, ma l’attribuisce all'atavismo della conditio humana, proprio quella che l'ossessione medica pretende di eliminare dal suo cammino. In quanto praticante di scienze cognitive, pensa di essere arrivato al seguente risultato: secondo lui, l'homo sapiens non è sufficientemente adattato al mondo che lui stesso ha creato, lo dimostra il fatto che, invece di fare affidamento sul calcolo dei rischi, l'uomo si affida ancora ai propri sensi. In qualità di esperto di educazione, è qui che vorrebbe dare il suo contributo: dipendesse da lui, già domani in Germania tutti i programmi d’istruzione includerebbero un piano in tre livelli di alfabetizzazione alla statistica. Gigerenzer considera «adulto» solo il cittadino che ha imparato ad informarsi costantemente sui suoi rischi e a valutarli correttamente. Se il calcolo delle probabilità venisse proclamato sulla piazza del Municipio, pensa Gigerenzer, il minimo consumatore normale diventerebbe capace di cavarsela in un mondo in cui tutto viene calcolato. La probabilità di un incidente in autostrada, il valore di previsione positiva di una mammografia, i rischi sanitari di una bevuta con gli amici del quartiere dovrebbero essere oggetto di una educazione che trasformi chi non vede i numeri in uomini e donne della ragione. Per il cittadino adulto di Gigerenzer, il buon senso deve essere dichiarato fuori uso. Avendo decretato che le certezze sensoriali sono illusioni evolutive, non c'è nient'altro su cui basarsi se non una collezione di valori il cui significato dev’essere testato statisticamente. Quando Gigerenzer farà l’appello dei cittadini adulti, potrà rispondere «presente» solo chi avrà sottomesso il suo cuore e la sua mente al calcolo dei rischi.

Tratto da Finimondo