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A proposito di Kavarna

...la passione per la libertà è più forte d'ogni autorità...

Una lettera di Carla dal carcere di Fresnes (Parigi) ricevuta da alcuni compagni prima che fosse estrada in Italia.

Fresnes, 19 agosto 2020

Ciao,

dopo 536 giorni di latitanza sono stata arrestata il 26 luglio scorso vicino St. Etienne. Ho vissuto il mio arresto come la prima messa in scena di una rappresentazione ripetuta mille volte nella mia testa, o meglio 536 volte… Mi è sembrato che tutto andasse al rallentatore: gli sbirri col passamontagna che mi puntano contro i loro fucili, mi sbattono a terra e mi chiedono il nome che così spesso ho taciuto in questi ultimi tempi e che mi ha fatto strano pronunciare. In seguito la SDAT (reparto antiterrorista della polizia francese, ndt) mi ha portato a Parigi: quattro ore di viaggio con le manette dietro la schiena in compagnia dei loro passamontagna. Pochi chilometri prima di arrivare nella loro sede a Levallois-Perret mi hanno bendato gli occhi. Sempre loro, due giorni dopo il mio arresto, mi hanno condotto prima in tribunale e poi nella prigione di Fresnes.

Durante l’udienza che ha convalidato il mio arresto, ho accettato senza esitare la mia estradizione. Avevo seguito con attenzione ciò che era capitato a Vincenzo Vecchi (che approfitto per salutare) che invece aveva preferito rifiutare l’estradizione dandosi una possibilità di rimanere libero in Francia. Per quanto mi riguarda questo avrebbe significato attendere il processo in Francia invece che in Italia dove si trovano gli altri accusati nell’operazione Scintilla, al momento tutti liberi ad eccezione di Silvia, sottoposta tuttora a divieto di dimora dal comune di Torino.

Sembra che negli ultimi tempi l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo e l’estradizione che ne consegue, costituiscano per la giustizia europea delle semplici formalità burocratiche da espletare. Lo abbiamo visto recentemente in Italia in diverse riprese, ma anche in occasione della repressione seguita alle rivolte di Amburgo o in Grecia e in Spagna. Le polizie europee affinano le proprie armi e le loro collaborazioni sembrano essere sempre più strette, con scambi di soffiate e favori. Alla luce di questi ultimi avvenimenti penso che stia a noi interessarci alla questione e studiarne i meccanismi.

Scopro la prigione al tempo del coronavirus: la quarantena regolamentare ai nuovi giunti, la mascherina per ogni spostamento e per tutta la durata dell’aria, la sospensione di ogni attività e cella chiusa 22 ore su 24. Al termine della mia quarantena e alla vigilia della data prevista per la mia estradizione, io e tutte le altre detenute presenti nella sezione delle nuove giunte siamo state messe per la seconda volta in isolamento sanitario con la scusa che avevamo condiviso l’ora d’aria con una nuova giunta risultata positiva al covid.

I test ai quali siamo state sottoposte dopo questo conclamato caso, e che all’inizio ci era stato detto non fossero possibili per tutte le detenute, ora sono prassi per tutte le nuove giunte. Non sorprende vedere come l’amministrazione penitenziaria arrivi perennemente in ritardo.

Durante la primavera scorsa le misure adottate dall’amministrazione penitenziaria in risposta al diffondersi del Covid19 hanno causato delle rivolte e una forte solidarietà nelle prigioni. Sfortunatamente, almeno qui, sembra che convivere con il virus sia diventato la norma, e al timore che una nuova giunta sia positiva e possa contagiare le altre si aggiunge la paura di vedersi sospendere i colloqui, come è successo a noi quest’ultima settimana. I magri palliativi concessi in primavera dall’amministrazione penitenziaria sotto forma di crediti telefonici fanno ormai parte del passato e un piccolo gruppo di nuove giunte non può essere all’altezza delle grosse mobilitazioni dello scorso marzo. Aspetto l’estradizione da un momento all’altro e so che molto probabilmente quando arriverò in Italia mi aspetterà un terzo periodo di isolamento sanitario.

Per il momento mi godo tutte le dimostrazioni di solidarietà dopo tanto silenzio. Malgrado le pubblicazioni sul tema, sicuramente preziose, la latitanza viene considerata ancora troppo spesso come un’avventura romantica e si pensa di solito ai/alle compagni/e come liberi/e. In quest’anno e mezzo non mi sono mai mancati né la solidarietà né un sostegno caloroso, non mi è mai mancato nulla, ma non si è liberi quando si è privati della propria vita.

Avrei voluto essere in strada assieme ai/lle miei compagni/e durante le manifestazioni in risposta allo sgombero dell’Asilo, ho accompagnato con il pensiero lo sciopero della fame lanciato da Silvia, Anna e Natascia, ho pensato ogni giorno ai/lle compagni/e arrestati/e nelle ondate successive. Avrei voluto essere al fianco dei miei familiari quando hanno conosciuto dei momenti difficili e avere loro notizie durante il lock-down.

Oggi sono pronta e determinata ad affrontare i prossimi mesi, ma il mio pensiero va a coloro che sono ancora in giro, spesso lontani dalle persone care. Spero possano rimanere in giro fin tanto che lo vorranno e che gli incontri che faranno diano loro il calore e la forza per continuare a lottare.

Carla

Per scriverle:

Carla Tubeuf

Casa Circondariale di Vigevano

Via Gravellona 240

27029 Vigevano (PV)

«Non ho versato una lacrima. Ho smesso di piangere tanto tempo fa. Sono anni che vedo uccidere la mia gente dalla polizia. Le persone mi dicono di essere dispiaciute. Beh, non lo siate. Perché quello che è successo, succede da lungo tempo a chi ho attorno.Tutti gli uccisi dalla polizia sono miei fratelli e sorelle. Io non sono triste, non sono dispiaciuta. Sono arrabbiata».

Leletra Widman, sorella di Jacob Blake  

Tre notti fa, nel Wisconsin, un giovane afroamericano è incappato nel solito incontro con sbirri americani. Durante quello che i bravi cittadini definirebbero un normale controllo di polizia, nasce un diverbio. Il giovane, Jacob Blake, viene colpito alla schiena per ben sette volte. Portato in ospedale, i medici sentenziano l'atrocità: non potrà più camminare. L'ennesima vita devastata dall'autorità. Rapidamente circola un video in rete, dove nel corso del «normale controllo di polizia» si manifesta in tutta la sua brutalità la solita attitudine sbirresca. Nella piccola cittadina di Kenosha, dove è avvenuto il tragico normale evento, si scatena subito la rabbia che ancora va avanti in queste ore. Negozi saccheggiati, commissariati della polizia attaccati, strade bloccate dal fuoco e dal furore sovversivo di chi è sceso in strada. Purtroppo ancora due morti e diversi feriti fra i manifestanti. Si sa, non servono grossi manuali per capire dove stia il nemico. Scovarlo e attaccarlo in fondo è alla portata di tutti. Meno alla portata è la rabbia che si materializza, cioè quando l'idea diviene pratica. Di solito, dopo questi eventi, per calmare le acque del fiume in piena, media, autorità e politici cercano di intrattenersi con i famigliari che subiscono l'ennesima violenza del potere, cercando parole cristianamente autorevoli da diffondere, per far ritornare i bollenti spiriti di ribellione nella fredda indifferenza abitudinaria. Questa volta, come è capitato altre volte, ai servi del potere è andata male. Le parole della sorella di Jacob non saranno un manifesto altisonante fatto con quattro slogan mal assemblati e sicuramente non promettono un roseo futuro. Ma quelle parole riportate qui sopra possono essere una forza sotterranea e negativa, che fa a pezzi l'inconsistenza delle frasi che parlano di razzismo dimenticando sempre che chi difende le divisioni e la segregazione della povertà dei molti per difendere la ricchezza dei pochi è sempre chi vuole mantenere i propri privilegi, che coincidono sempre con i propri conti in banca. Se la vita di chiunque conta, conta anche e soprattutto uno sguardo altro che dia forza a queste ribellioni. Non c'è da perdere tempo. Tutti noi potremmo incappare in un normale controllo di polizia e venirne fuori paralizzati o dentro una bara. A Minneapolis si diceva «inferno o utopia?». E allora provocare l'inferno e il terrore per gli oppressori potrebbe aprire le porte a quella meravigliosa idea di utopia. Essa sta nel cuore solo di chi sente che per vivere una vita altra, vale la pena di mettere a rischio questa esistenza infestata da controllo, divise e sfruttamento. Davvero vogliamo farci sopraffare dalla mite tristezza? Non è più invitante darsi all'incontenibile rabbia?

26 agosto 2020, tratto da Finimondo

«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi»

Tancredi, Il gattopardo (1958)

Come rendere la società industriale eterna? Ecco una domanda che i dirigenti del mondo sono ormai costretti a porsi in maniera diversa. Costretti, nel senso che certi modelli di sfruttamento rischiano di avvitarsi su se stessi qualora le società continuino a seguire lo stesso schema. Ogni estate le foreste vanno in fiamme in proporzioni sempre più apocalittiche, e fino al circolo artico. Le terre si inaridiscono. Le acque del mare salgono. Gli oceani si svuotano di pesci. L’inquinamento uccide irrimediabilmente la fauna e la flora, rendendo l’essere umano ancora più dipendente dall’industria farmaceutica per far fronte a ciò malgrado tutto. Più la devastazione avanza, e più l’artificializzazione del vivente viene accolta come la sola ed unica soluzione.

E in effetti è davvero la sola soluzione. In ogni caso per continuare sulla stessa strada. Regolare ancor più i territori, modificare geneticamente gli organismi, erigere dighe, riorganizzare foreste, fertilizzare il suolo con l’ausilio di prodotti industriali…: ecco le sole possibilità per dare un barlume di vita a ciò che è già morto. In nome della salvaguardia del pianeta, si distrugge quanto rimane ancora del pianeta per costruirne un simulacro. Qualcosa che ci assomiglia, ma non lo è. Essere o apparire, ecco la domanda, avrebbe potuto dire il famoso poeta inglese. La nostra epoca è votata ad essere quella dell’apparire e dei fantasmi. Ovunque, questa «derealizzazione» è in corso e diventa palpabile, inclusi i rapporti umani, fin nel più intimo dell’individuo sottomesso a questa corsa in avanti che lo mutila, lo adatta, lo rende artificiale, copia impoverita di ciò che, un tempo, avrebbe potuto essere.

Qualche decennio fa la Francia scelse fieramente l’onni-nucleare. Ormai installate dappertutto, le centrali erano promesse di un bell’avvenire quali garanti della famosa «indipendenza energetica» del paese. In effetti si è rivelato più «facile» tenere un pugno di ferro su un paese come il Niger, principale fornitore dell’uranio francese e anche uno dei paesi più poveri del mondo, che preservare posizioni strategiche sullo scacchiere petrolifero in Medio Oriente. Oggi il «ciclo francese» della produzione nucleare non è chiuso. Restano molte centrali sempre più vetuste — il cui smantellamento sarà solo un grande esperimento a cielo aperto senza garanzia di successo —, una irradiazione duratura di certe zone, e soprattutto le famigerate scorie, per cui attualmente non esiste alcuna soluzione, salvo sotterrarle e vedere nel tempo cosa accade. Il progetto di sotterramento delle scorie nucleari a Bure è quindi una delle chiavi di volta di tutto il progetto nucleare francese; ed è subito evidente perché la resistenza locale si scontri con una repressione che non intende risparmiare colpi. Una lotta particolarmente importante, come avrebbe dovuto essere quella contro quest’altra «perla» dell’atomo francese, lanciata nel 2006: il progetto ITER nella campagna provenzale, probabilmente uno dei progetti più ambiziosi nell’ambito energetico, sostenuto da 35 paesi, al fine di condurre delle ricerche, col 2035 come nuovo orizzonte pratico, sulla fusione nucleare (una tecnica sperimentale che cerca di imitare il sole fondendo piccoli nuclei atomici per liberare una gigantesca energia, cosa differente dalla fissione attualmente attuata nelle centrali, che «rompe» grossi atomi per recuperarne l’energia).

Ma senza attendere la realizzazione dei progetti a lungo termine dei nucleocrati, altri progressi tecnologici hanno fin d’ora permesso l’esplorazione di massa di «nuove» fonti energetiche, di cui quelle più emblematiche sono senza dubbio l’eolico, il fotovoltaico e ciò che è conosciuto con l’ingannevole nome di «biomassa», ovvero il buon vecchio procedimento di bruciare materiali organici per produrre calore (ed eventualmente elettricità). Nel bel mezzo del confinamento deciso per gestire la pandemia del Covid 19, lo Stato francese ha presentato la sua «programmazione pluriannuale dell’energia», una sorta di foglio stradale per lo sviluppo del settore energetico. Esibito come la dimostrazione degli sforzi dello Stato per andare verso una «transizione energetica» (ossia, ridurre le emissioni di CO2), questo progetto è soprattutto un indicatore per ciò che si dovrebbe, in gran parte, fare nei prossimi anni. Per cogliere l’ampiezza di questa «programmazione» (alla quale lo Stato nella sua migliore tradizione burocratica ha concesso un bell’acronimo che rischia di ritornare sovente nel discorso: PPE), sfortunatamente è inevitabile dare un’occhiata alle cifre dell’evoluzione proiettata fra il 2018 ed il 2028. Quando il progetto si riferisce all’energia, ciò include sia la produzione di calore e di elettricità che l’uso di idrocarburi (principalmente il petrolio). Così spesso vengono paragonati limoni e pere, ma sorvoliamo.

Concretamente, il «PPE» prevede un calo dei consumi d’energia del 15,4% all’orizzonte del 2028. Per ridurre questo consumo, prevede di produrre più che mai: l’industria dovrà produrre auto meno energivore, costruire edifici meglio isolati, installare reti di calore, sostituire camion e bus a diesel con veicoli a gas, ecc. Tutta questa produzione industriale 2.0 e 3.0 comporta ovviamente un importante uso di energia, e nessuno si sente di calcolare quanta energia sarà, in fin dei conti, veramente «economizzata» se si include la produzione di questi nuovi prodotti meno energivori. Ma se questo problema non viene mai discusso, esso rimane nondimeno fondamentale e impone una sola conclusione: quando si considera il sistema industriale nel suo insieme, non esiste nessuna maniera dolce di ridurre il consumo energetico. La sola maniera sarebbe fermare le macchine, abbandonare i bisogni indotti, rinunciare al modello di vita industriale, e un simile «avvenire» non viene ovviamente preso in considerazione, né nei gabinetti dei ministeri, né nella stragrande maggioranza delle case.

Continuiamo coi dati, perché di un certo interesse e un po’ più «palpabile» delle solite abituali chiacchiere sulla «decarbonizzazione» e sulla «transizione».

Nel 2018, con certi territori ormai completamente sacrificati, come il nord della Francia, il parco eolico che produce 15 Gigawatt. L’obiettivo per il 2028, ossia fra meno di dieci anni, è raddoppiare questa produzione passando a 33 Gw. Per avere una misura, il parco nucleare francese produce oggi circa 60 Gw. Dalle 8000 pale eoliche oggi installate, si passerà quindi nel 2028 a 14.500, ossia quasi il doppio, di cui una piccola parte (5 Gw) installata sul mare, soprattutto sulle coste bretoni.

Continuiamo. Nel 2018 la produzione fotovoltaica in Francia (sia i «parchi solari» che i pannelli solari installati sui tetti di aziende e case private) raggiungeva i 10 Gw; nel 2028, dovrà aumentare fino a 44 Gw, ossia quadruplicare. Infine, per rimanere nelle cosiddette «energie rinnovabili», c’è la filiera delle biomasse (il bio non si riferisce a una produzione «biologica», ma al fatto che si tratta di materie organiche). Dedicata soprattutto alla produzione di calore, questa filiera produce tuttavia anche elettricità. La metà di quanto viene bruciato sono rifiuti domestici, seguiti da combustibili solidi (legno, mais, colza) e infine biogas (metanizzazione dei rifiuti mediante fermentazione). Nel 2018, per 42 centrali in funzione, la filiera delle biomasse produceva meno di 1 Gw e aumenterà di poco da qui al 2028, sull’esempio dell’idroelettricità (22 Gw oggi, 26 Gw nel 2023 specialmente grazie ad una ottimizzazione delle dighe esistenti sul Rodano).

Conclusione del «PPE»: lo Stato punta sull’eolico ed il fotovoltaico, al fine di poter «chiudere» entro il 2028 quattro o sei reattori nucleari. Tuttavia, lo Stato è consapevole che «il consenso attorno all’eolico si indebolisce». Sulla scia della campagna di propaganda lanciata per promuovere il 5G, il PPE prevede quindi una grande campagna di «sensibilizzazione» per far accettare la costruzione eoliche un po’ dappertutto. Sapendo che tre progetti su quattro sono oggi oggetto di contestazioni diverse e varie (che comportano qualche ritardo, sebbene il 90% delle procedure giuridiche che contestano i parchi non giungano a termine — riservato ai maniaci del legalismo), è facile prevedere che la futura installazione di sempre più eoliche potrà provocare nuove resistenze. Esistono già un po’ dovunque collettivi e comitati, spesso di tendenza fastidiosamente cittadinista, che protestano contro tali progetti, siano essi nuovi o esistenti. Ma ancor più interessante è che un po’ dovunque vengono effettuati anche sabotaggi contro i pali che misurano il vento (indispensabili per installare un futuro parco eolico), contro le eoliche stesse, e contro i cantieri in corso. Tuttavia, vista la valanga di «critiche» anti-eoliche che sostengono al tempo stesso il nucleare, sembra importante immettere in questa resistenza un rifiuto netto di queste strutture… come del mondo conseguente. Opporsi alle eoliche senza criticare l’industrialismo e il modo di vita che ha generato, può condurre solo alla ricerca di altre strutture ancora, forse meno orribili da vedere, meno rumorose o meno sterminatrici di uccelli e di vegetazione, ma che avranno sempre l’obiettivo di garantire un avvenire alla società tecno-industriale. È la stessa trappola in cui sono caduti un buon numero di ecologisti ferocemente antinuclearisti, preconizzando lo sfruttamento del vento e del sole piuttosto che dell’atomo: oggi possono raccogliere ciò che hanno seminato.

Bisogna ancora insistere su quanto la produzione energetica sia fondamentale e «critica» per lo Stato e il capitale? Nel mondo intero, gli Stati corrono dietro alle sue fonti, conducono guerre, colonizzano territori allo scopo di assicurarsele. Oramai la corsa è comunque intrapresa per trovare delle «alternative» (o piuttosto dei complementi) al fine di rispondere a una domanda di energia sempre più crescente: gas di scisto, sabbie bituminose, olio di colza e di mais geneticamente modificati, centrali marine, eoliche, centrali solari fotovoltaiche, nanostrutturazione dei materiali conduttori… la ricerca è sfrenata e la competizione feroce. Dall’altro lato, gli Stati che possono permetterselo sviluppano in parallelo dei progetti per accrescere la resilienza delle loro reti energetiche, mettendo in guardia sulla vulnerabilità dell’economia e del dominio statale, molto dipendenti da una rete in fin dei conti troppo fragile considerati gli interessi che rappresenta.

Senza alcuna pretesa, cosa potrebbe fare allora un individuo, un pugno di individui, contro il mostro industriale? Magari non granché di decisivo da soli, e in ogni caso non abbatterlo. Ma molestarlo sì, ritardarne i progetti sì, disturbarlo all’eccesso sì — tutto ciò lo possono fare. Con mezzi semplici, molta immaginazione e un pizzico di coraggio. Quando il sole e il vento vengono messi al servizio del dominio, sono l’oscurità della notte e la calma dei cieli stellati a richiamarci. Si tratta più che mai di restare liberi e vivi in un mondo mortifero, di vivere risolutamente in un mondo in piena decomposizione…

Traduzione (dal francese): Finimondo

Per leggere il nuovo numero: Avis de Tempêtes Numero 31/32 PDF

Un anno e tre mesi sono passati dal giorno del nostro arresto, il 21 maggio 2019, e, forse un po’ in ritardo, è sorta per me la necessità di scrivere due righe pubbliche, dopo le migliaia di pagine private, su tutta questa faccenda.

Per prima cosa mi preme ringraziare le decine di compagni che, in un modo o nell’altro, sono stati per me (lontani ma) presenti durante questi mesi, foss’anche solo con una cartolina: la consapevolezza che fuori da queste mura continui ad esistere il mondo che ho lasciato, con le sue contraddizioni ma anche con il suo carico di slanci e passioni, mantiene in vita, se non organicamente, sicuramente dal punto di vista emotivo e intellettuale. Purtroppo non è stato (e non è) un percorso detentivo “facile” (se mai ne esistano), tra l’estradizione, L’Aquila e l’AS3, ma in nessun momento ho sentito di perdere contatto con il mondo esterno, i dibattiti, la lotta, e di questo posso solo ringraziare i compagni che si sbattono e le persone che mi amano (spesso le due cose coincidono). GRAZIE.

Detto ciò, va ammesso che l’aver scelto di non espormi “pubblicamente” attraverso nessun mezzo, perché non è mia abitudine e perché reputo che in certe circostanze siano i fatti a parlare meglio di qualunque comunicato, per certi versi abbia creato un po’ di confusione, anche e soprattutto in merito all’aspetto tecnico e processuale. Cercherò di rimediare.

- OPERAZIONE PROMETEO

Il capo d’accusa che ci viene contestato è il 280 del codice penale: “attentato con finalità di terrorismo”, più una sequela di aggravanti come il concorso e, di nuovo, la finalità di terrorismo (come si applichi l’aggravante di terrorismo ad un reato con finalità di terrorismo è un’astrazione giuridica che ancora non mi è chiara). Niente associazione, niente porto d’armi da guerra, ma l’attentato viene definito “micidiale”, ovvero si qualifica come “attentato alla vita”; la pena parte dai 20 anni, aumentati di un terzo perché “rivolto contro persone che esercitano funzioni giudiziarie o penitenziarie”.

Il teorema inquisitorio ha ben poco di concreto: gli inquirenti sostengono di aver localizzato il negozio cinese nel quale sarebbero state vendute le buste utilizzate per il confezionamento degli ordigni (nonostante i saggi grafici cui sono stati sottoposti tutti i dipendenti non collimino con la scrittura che compare sui plichi ricevuti) e possiedono una ripresa di una telecamera di sorveglianza della piazza antistante il negozio in cui Beppe ed io siamo ripresi a uscire dal medesimo. Tutto qua. Usciamo dal negozio senza avere in mano gli acquisti contestati, nessuno scontrino emesso in quell’orario coincide con i prezzi del materiale che si vorrebbe acquistato, nessuna traccia di impronte digitali o DNA, nessuna confessione rubata con intercettazioni ambientali o telefoniche. Ma si sa, due anarchici che fanno compere in un negozio cinese, a due passi dall’abitazione di uno dei due, nella città in cui SI IPOTIZZA e nel momento in cui SI IPOTIZZA che siano stati confezionati gli ordigni… è più che sufficiente.
Per concludere, una ricerca informatica effettuata a Genova sugli indirizzi dei destinatari dev’essere opera del terzo compagno che trascorreva il weekend in quella città con loro, Robert. Quest’è, né più, né meno.
Ora, che le procure di mezza italia amino fare castelli in aria è risaputo, questa volta in aggiunta alla solita mancanza di concretezza hanno sfoderato la vena epica e letteraria. Il mito di Prometeo è noto ai più: ruba il fuoco (la conoscenza) agli dei per farne dono agli uomini, e perciò viene punito. Chi in questa rappresentazione si appropri della e si autoassegni la parte di dio, è evidente. E se su certi sacri ruoli non va posato nemmeno lo sguardo, figuriamoci l’impudicizia di far loro arrivare un messaggio così chiaro come una busta farcita di polvere pirica. Stereotipica di Prometeo è l’IRRIVERENZA. Egli profana un monopolio, in questo caso quello della giustizia, che non compete agli uomini, e la prometeica punizione è più che severa, è fatidica. E dunque, a prescindere dall’inconcretezza degli indizi, qualcuno va punito, e se sono degli anarchici tanto meglio.
Ad oggi, nessun legislatore ha osato scalfire il sovradimensionamento né l’inconsistenza dell’accusa, d’altronde è nientemeno che dagli dei che arrivano le direttive, e Prometeo è di monito a tutti, servi compresi.

- 2 PICCIONI CON 1 FAVA

L’anarchico, inutile dirlo, ha il fisique du rôle: nel disegno iperbolico degli inquirenti capita a fagiuolo. E infatti, il 90% delle cartacce cui ho avuto accesso (inutile dire che gli atti completi mi sono preclusi, visto che si tratta di più di 200.000 pagine e il carcere dimmerda in cui sono capitata non è attrezzato per consentirmi l’accesso al formato digitale) è la solita solfa su cui imperniano TUTTE le operazioni in chiave antianarchica degli ultimi anni: criminalizzazione della solidarietà, dei rapporti affettivi, travisamento delle opinioni, fantasie morbose da incasellamento questurino.
Lungi da me volermi lanciare in un afflato vittimistico: l’anarchico dello stato è nemico, con l’autorità in guerra e, si sa, in amore e in guerra tutto vale. Non mi aspetto tenerezza, e sono profondamente convinta che l’espressione “un giusto processo” non sia altro che una circonvoluzione a metà tra l’ossimoro e la sinestesia. Ma è bene, a fini d’analisi, parlare anche di questo. Sulla base delle sparate di Sparagna estrapolate direttamente dagli atti del processo Scripta Manent, i ROS dedicano non poche pagine a quello che vorrebbe essere un diagramma linneano della storia dell’anarchismo, cercando a tutti i costi di inquadrare ciò che inquadrabile non è (e partono nientemeno che da Bakunin… che onore!), e di comprendere ciò che, inutile dirlo, compreso non verrà mai dentro alle mura di una questura.
Allo stesso modo viene trattata la solidarietà ai prigionieri, che in questo caso assurge direttamente a movente, essendo uno dei riceventi le buste incriminate Santi Consolo, ex direttore del DAP. E così interessarsi alle sorti di un compagno, o addirittura di un amico, incappato nelle maglie della giustizia, è fattore incriminante; persino inviare una cartolina (firmata) a chi è detenuto assume l’aura del sospetto.

Altro capitolo intero, se non pensassi di starmi già dilungando troppo, si potrebbe dedicare a quella che viene definita “l’analisi della personalità degli indagati”: i toni passano da fantasiosi a paradossali, letteralmente. La partecipazione a un dibattito acceso e attuale (e non solo in seno al “movimento”) come quello sulle tecniche forensi e d’indagine, in particolare sull’utilizzo del DNA e sulla creazione di una banca dati genetica nazionale e internazionale, si trasforma come per magia nell’ossessione del colpevole, assillato dalla costante paranoia di venire arrestato; ogni parola catturata dai microfoni viene letta come criptica (si sa, sono furbi questi anarchici! Quando dicono “Prendiamoci un caffè” in realtà vogliono dire: “Chi porta il C-4?”); svarioni filosofico-esistenziali senza capo né coda, cui nemmeno i diretti interessati saprebbero dare un senso, offrono lo spunto per interpretazioni di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. E qui mi fermo perché, letteralmente, potrei andare avanti ore, ma dal paradosso non ci sono conclusioni logiche da trarre.

Infine:

- SUI TERMINI DI CUSTODIA CAUTELARE

Parecchie volte, ultimamente, mi è stato domandato per corrispondenza: “Ma come? E i tuoi termini non scadono più? Non esci?”. Giusto per chiarire: il termine indicato dal codice penale per questo tipo di reato è di 1 anno, ovvero avrebbe dovuto scadere il 21 maggio 2020. Ma poi, a marzo, il covid. A quel punto escono, a distanza di circa un mese, due Decreti Presidenziali che prorogano di poco più di 30 giorni ciascuno TUTTE le scadenze e le prescrizioni. La GIP di Milano, ad oggi non saprei spiegare il perché, tiene in considerazione solo la prima proroga, e fissa allo scadere del 90° l’udienza preliminare, che congela definitivamente i termini, il 22 giugno.
Nel corso dell’udienza si sentenzia l’incompetenza territoriale della procura milanese in favore di quella di Genova, tutti gli atti vengono inviati a nuovo giudice e… sorpresa! Il conteggio dei termini di custodia cautelare riparte da zero!
Si è poi svolta una prima udienza preliminare a Genova il 29 luglio, con rinvio all’11 novembre. Il ché significa che quando avremo fatto 18 mesi di carcere preventivo sapremo, forse, quanto tempo passerà ancora prima che inizi il processo. Quest’è. Vi rimando alle considerazioni di cui sopra in merito al “giusto processo”.

E su questi tecnicismi chiudo questa lunga ma doverosa disquisizione, con l’idea di renderla “pubblica” attraverso i soliti canali. Molte altre cose vorrei aggiungere, ma non è questa la sede.

Un abbraccio fraterno a tutti i compagni, compreso mio padre, uno più stretto a quelli rinchiusi.

In ogni caso, nessun rimorso.

Salud y Anarquìa

Nat

È l'acronimo della polizia francese che svolge uno dei tanti lavori infami che fanno le polizie di tutto il mondo al confine fra Italia e Francia: respingere le persone indesiderate con la retorica dei confini nazionali. Ma confini nazionali vuol dire guerra e ogni città basa la propria costruzione sulla difesa dei propri interessi, ovvero la difesa dei privilegi dei pochi a discapito dei molti altri. In questo momento dove in città è presente un festival che esibisce la cultura supina al potere, dove rivoluzionari come Danilo Montaldi diventano letterari (si sa i rivoluzionari sono di parte, i letterati possono andare bene per tutte le stagioni), proponiamo un testo che ci potrebbe fare ragionare sulla genealogia delle porte chiuse, altro che aperte, di qualunque città.
Dispiace vedere come le partecipanti a questo festival sembrano (auspichiamo che non sia così...) non interrogarsi sulla proposta del PAF di una cultura da oratorio che bandisce ogni spinta ribelle allo stravolgimento del mondo, dove il negativo viene bandito dalla frivolezza del positivo e come un festival che si definisce aperto possa transennare ogni suo evento per 3 giorni con vere e proprie guardie senza divisa a controllare anche gli insetti che girano attorno. Che ognuno si senta libero di esprimere il proprio corpo autogestendo la propria salute, invece che evocare ancora più controllo sulle vite degli individui, perché la propagazione di un virus è lo specchio di questo mondo abbruttito e fortificato sull'autorità.
Sugli organizzatori dell'evento, niente da dire. Parlano tutti i fogli di via e i giorni di galera dispensati da chi gestisce questa città agli individui che ritiene indesiderabili perché senza documenti o perché disturbatori della quiete del commercio cittadino. Altro che città accogliente…
Sembra proprio che l'ipocrisia non abbia fine, ma le porte si possono sempre tentare di distruggere per vivere senza chiavistelli. E le chiusure non sono solo quelle visibili, ma anche quelle che si incagliano nella mente.
Buona lettura.

La guerra quale costruttrice di città

Lo sviluppo intensivo dell'arte delle fortificazioni trasferì l'energia costruttiva dal piano dell'architettura a quello dell'ingegneria, dall'estetica del disegno a calcoli materiali di peso, numero e posizione: preludio alla più ampia tecnica della macchina. In special modo essa trasformò il quadro urbano dal mondo ristretto della città medievale con i suoi itinerari pedonali, le sue vedute chiuse, il suo spazio a mosaico, all'ampio mondo della politica barocca con il suo fuoco di artiglieria a lunga portata, i suoi veicoli a ruote, il suo crescente desiderio di conquistare spazio e di estendere la propria influenza.

Una buona parte del nuovo sistema di vita ebbe origine in un impulso verso la distruzione: distruzione a largo raggio. La fede cristiana e la cupidigia capitalistica si allearono per lanciare i nuovi conquistadores attraverso i mari a saccheggiare l'India, il Messico, il Perù: mentre il nuovo tipo di fortificazione, il nuovo tipo di esercito, il nuovo tipo di officina industriale, di cui troviamo il miglior esempio nei vasti arsenali e nelle fabbriche d'armi, congiurarono per sconvolgere i sistemi su base relativamente cooperativistica della città protetta. La protezione si mutò in sfruttamento spietato: invece di sicurezza gli uomini cercarono espansione avventurosa e conquista. E il proletariato era sottoposto in patria a una forma di governo non meno spietata e autocratica di quella che distrusse le civiltà indigene del Nord e del Sud America.

La guerra affrettò tutte queste trasformazioni; fu essa a determinare il ritmo di tutte le altre istituzioni. I nuovi eserciti permanenti, numerosi, potenti, temibili non meno in pace che in guerra, trasformarono la stessa guerra da un'attività spasmodica in una normale. La necessità di più costosi strumenti di guerra mise le città nelle mani di oligarchie usuraie che finanziavano la funesta politica dei governanti, vivevano lussuosamente dei profitti e del saccheggio, e cercavano di rinforzare le loro posizioni spalleggiando il dispotismo che ne derivava. In una crisi economica i fucili della soldatesca mercenaria potevano essere girati contro i miserabili sudditi ai primi segni di ribellione.

Nel Medioevo il soldato era stato costretto a dividere il potere con l'artigiano, il mercante, il prete: ora nel sistema politico degli Stati assoluti ogni legge era in realtà divenuta una legge marziale. Chiunque potesse finanziare l'esercito e l'arsenale era in grado di diventare il padrone della città. Sparare significò l'arte di governo: era una via spiccia per chiudere una discussione imbarazzante. Invece di accettare gli accomodamenti abituali che assicurarono la salutare espressione delle diversità di temperamento, interesse e fede, le classi dirigenti potevano fare a meno di tali metodi di «do ut des»: il loro linguaggio non conosceva il verbo dare che in seconda persona. Il fucile, il cannone, l'esercito permanente contribuirono a formare una razza di governanti che non riconosceva altra legge se non quella della propria volontà e del proprio capriccio, quella bella razza di tiranni talvolta sciocchi, talvolta intelligenti, che sublimarono i sospetti e le delusioni di uno Stato paranoico in un rituale politico. I loro imitatori totalitari, seguendo Ivan il Terribile e Pietro il Grande, se non Federico e Bismarck, con delusioni non minori, ma con maggiori capacità distruttive, ora minacciano l'esistenza stessa della civiltà mondiale. Ancor adesso i veleni ch'essi iniettarono sono sempre attivi nel corpo semiparalizzato della nostra civiltà, proprio come il machiavellismo politico dei principi assoluti rimase efficiente, corrompendo le relazioni internazionali, attraverso l'Ottocento.

La trasformazione dell'arte della guerra diede ai governanti assoluti un notevole vantaggio sulle corporazioni e sui gruppi che costituiscono una comunità. Essa contribuì più di ogni altra forza singola a modificare la costituzione della città. Il potere divenne sinonimo di numero. «Grandezza di città», osserva Botero, «si chiama non lo spazio del sito o il giro delle mura, ma la moltitudine degli abitanti e la possanza loro». L'esercito assoldato per un servizio militare permanente divenne un nuovo elemento nello Stato, e nella vita della capitale. A Parigi e Berlino, ed in altri centri minori, questi eserciti permanenti crearono il bisogno di speciali tipi di alloggio, poiché i soldati non potevano essere sempre alloggiati dai civili senza suscitare un sentimento di protesta; l'effetto di un tale esperimento si poté osservare nelle colonie inglesi del Nord-America. Le caserme hanno nell'ordinamento barocco press'a poco lo stesso posto che il convento occupava in quello medievale, e le piazze d'armi — per esempio il nuovo Champs-de-Mars a Parigi — erano messe in evidenza nelle nuove città come Marte stesso nella pittura del Rinascimento. Il cambio della guardia, gli esercizi, le parate divennero uno dei grandi spettacoli di massa per la plebe, il cui servilismo continuava a crescere: lo squillo del corno e il rullo del tamburo erano voci caratteristiche di questa nuova fase della vita urbana quanto i rintocchi delle campane nella città medievale. Il tracciato di grandi Viae Triumphales, corsi dove un'armata vittoriosa potesse marciare producendo il massimo effetto sullo spettatore, fu un elemento d'obbligo nei piani di trasformazione delle nuove capitali: specialmente a Parigi e Berlino.

Contemporaneamente alle caserme ed alle piazze d'armi che occupavano aree così vaste nelle grandi capitali, si sviluppano gli arsenali. Nel Cinquecento ne fu costruito un numero eccezionale. Nel 1540 Francesco I aveva già costruito undici arsenali e magazzini; lo stesso sviluppo con un ritmo più o meno rapido continuò in tutte le altre capitali. I soldati, come Sombart ha messo in evidenza, sono dei puri consumatori, ed anzi in combattimento sono dei produttori negativi. Il loro bisogno di alloggiamenti era accompagnato da bisogni di cibi, bevande e abbigliamento in proporzione. Da queste esigenze sorsero le file di osterie e le armate dei sarti attorno alle caserme; praticamente si forma un altro esercito permanente di bottegai, sarti, osti e prostitute; ed i più miserabili di costoro debbono la loro condizione all'effetto della serie ininterrotta di conflitti militari che agitarono l'Europa e raggiunsero il loro apice nel Settecento.

Non bisogna sottovalutare la presenza di una guarnigione quale fattore urbanistico. Nel 1740 la popolazione militare di Berlino contava 21.309 membri su un totale di circa 90.000 abitanti: quasi un quarto. La presenza di questa massa di esseri umani meccanizzati, e costretti all'obbedienza, necessariamente interferì con ogni altro aspetto della vita. L'esercito, colla sua disciplina, servì da modello per altre forme di coercizione politica: la gente prese l'abitudine di tollerare le grida aggressive del sergente istruttore e le arroganti e brutali maniere delle classi superiori: esse furono imitate dai nuovi industriali che dirigevano le loro fabbriche come despoti assoluti. Hutton nella sua storia di Birmingham riferisce come il padrone del castello «nel 1728... si impadronì di un edificio pubblico chiamato mercato delle pelli e lo adibì ai suoi usi personali... L'ufficiale giudiziario convocò gli abitanti per difendere i loro diritti, ma poiché nessuno si fece vivo il signore sorrise della loro indolenza e conservò la proprietà». Sotto i modi superficialmente brillanti della classe superiore barocca, c'è sempre la minaccia di una odiosa disciplina coercitiva. Questi due estremi informano tutti gli aspetti della vita, anche la lussuria e la follia.

L'ideologia del potere

Le due braccia di questo nuovo sistema sono l'esercito e la burocrazia: che sono il sostegno temporale e spirituale di un dispotismo centralizzato. Questi due fattori devono una parte non piccola della loro influenza a una forza più vasta e più diffusa, quella dell'industria capitalistica e della finanza. Bisogna ricordare con Max Weber che la razionale amministrazione dei carichi fiscali fu una realizzazione dei comuni italiani attuata dopo la perdita della loro libertà. La nuova oligarchia italiana fu il primo potere politico che mise ordine nelle sue finanze secondo i principi della contabilità commerciale. Immediatamente dopo, in ogni capitale europea si poté apprezzare l'abilità italiana dello specialista di tasse e di amministrazione finanziaria.

Il passaggio da un'economia di beni ad un'economia di moneta aumentò in modo ragguardevole le risorse dello Stato. Il monopolio dei redditi, il bottino frutto di piraterie e brigantaggi, la preda ricavata dalle conquiste, il monopolio di privilegi speciali di produzione e vendita attraverso patenti concesse dallo Stato, l'applicazione di questo ultimo sistema ad invenzioni tecniche, tutte queste risorse impinguavano le casseforti del sovrano. Allargare i confini dello Stato significava aumentare la popolazione soggetta a tassazione, aumentare la popolazione della capitale significava aumentare il reddito del paese. Queste due forme di aumento si traducevano in definitiva in termini di denaro che affluiva all'erario dello Stato. I governi monarchici non solamente divennero capitalistici nelle loro attività, fondando in proprio industrie di armi, porcellane, arazzi; ma, sotto l'etichetta della «favorevole bilancia commerciale», tentarono di creare un sistema di sfruttamento nel quale ogni Stato sovrano avrebbe ottenuto in cambio, in misura di oro, più di quanto avesse dato.

Il capitalismo a sua volta divenne militaristico: esso faceva assegnamento sulle armi dello Stato quando non era più in grado di continuare con vantaggio i suoi traffici senza di esse: basi del posteriore sfruttamento coloniale e dell'imperialismo. Soprattutto, lo sviluppo del capitalismo introdusse in ogni ramo consuetudini laiche di pensiero, e sistemi realistici di valutazione: questo era l'ordine esatto, preciso, superficialmente efficiente sul quale erano intessuti i complicati e splendidi motivi della vita barocca. Le nuove classi mercantili e bancarie accentuarono il metodo, l'ordine, la pratica, il potere, la mobilità, tutte le abitudini che tendevano ad accrescere l'effettivo potere pratico. Jacob Fugger il vecchio possedeva perfino una fornitura da viaggio disegnata e fatta apposta per lui, che conteneva un bel compatto ed assortito servizio da tavola; nulla era lasciato al caso. L'uniformità del punzone che stampava la moneta nella Zecca Nazionale diventò il simbolo di queste qualità emergenti nel nuovo ordine. Attività che più tardi furono sublimate ed estese nelle scienze fisiche si manifestarono per la prima volta nelle aziende commerciali: l'importanza data dai mercanti alle matematiche e alle lettere, ambedue tanto necessarie a un commercio svolto a distanza, attraverso agenti pagati che operavano su istruzioni scritte, divennero gli elementi fondamentali della nuova istruzione impartita nelle scuole di latino. Non fu un caso se il fisico Newton diventò il direttore della Zecca, e se i mercanti di Londra contribuirono a fondare la Società Reale, e promuovevano esperimenti di fisica. Queste discipline meccaniche erano in realtà interscambiabili.

Dietro gli interessi immediati del nuovo capitalismo, col suo amore astratto per il denaro e il potere, sopravvenne un mutamento in tutta la struttura del pensiero. E anzitutto una nuova concezione dello spazio. Fu uno dei grandi trionfi della mentalità barocca organizzare lo spazio, renderlo continuo, ridurlo a misura ed ordine, estendere i limiti della grandezza, riuscendo ad abbracciare gli elementi estremamente distanti e quelli estremamente minuti: infine, associare lo spazio col movimento.

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Se già prima di Cartesio i pittori diedero una dimostrazione delle matematiche cartesiane, col loro sistema di coordinate, il senso generale del tempo divenne pure più matematico. Dal Cinquecento in poi l'orologio domestico era diffuso nelle case delle classi superiori. Ma, mentre lo spazio barocco invitava al movimento, al viaggio, alla conquista mediante la velocità — osservate i primi carri a vela e velocipedi — il tempo barocco manca di dimensioni: esso era un continuo frammentario. Il tempo non si esprimeva quale cumulativo e continuo, ma quale disgiuntivo: esso cessò di essere un tempo basato sulla vita.

La forma sociale del tempo barocco è la moda che cambia ogni anno: e nel mondo della moda fu inventato un nuovo peccato — quello d'essere fuori di moda. Il suo strumento pratico fu il giornale, che si occupa di avvenimenti sparpagliati senza coerenza logica di giorno in giorno; alla base non c'è alcun nesso altro che la contemporaneità. Se nelle forme spaziali la ripetizione prende un nuovo significato — colonne sulle facciate degli edifici, file di uomini nelle parate — nel tempo l'accento posa sulla novità. Quanto al culto archeologico del passato, era chiaro non trattarsi di un ricupero della storia, ma di una negazione di essa. La storia reale non può essere ricuperata.

Le astrazioni monetarie, la prospettiva spaziale e il tempo meccanico formarono la cornice che racchiudeva la nuova vita. L'esperienza fu progressivamente ridotta proprio a quegli elementi che avevano in sé la possibilità di essere divisi dall'insieme e misurati separatamente: computi convenzionali presero il posto di organismo. Reale era quella parte di esperienza che non lasciava residui oscuri; ciò che non poteva essere espresso in termini di sensazioni visive e di ordine meccanico non valeva la pena di essere espresso. In arte, prospettiva ed anatomia; in morale, la sistematica casuistica dei Gesuiti; in architettura, le proporzioni fisse dei Cinque Ordini; in urbanistica, l'elaborata pianta geometrica. Queste erano le nuove forme.

Non fraintendetemi. Il tempo dell'analisi astratta fu un tempo di brillante chiarificazione intellettuale. Il nuovo sistema di studiare gli addendi matematicamente analizzabili, invece dei totali, diede i primi mezzi collettivi intelligibili per avvicinare quei totali; strumento di ordine, altrettanto utile che i registri a partita doppia in commercio. Nelle scienze naturali il metodo dell'astrazione portò alla scoperta di unità che potevano essere esaminate fino in fondo, appunto perché erano dissociate e frammentarie. Il progresso nella forza sistemica del pensiero, e nell'accurata previsione dei fenomeni fisici, trovò la sua giustificazione nell'Ottocento in una serie di grandi progressi tecnici.

Ma sul piano sociale l'uso di pensare in termini astratti ebbe dei risultati disastrosi. Il nuovo ordine determinato nelle scienze fisiche, era di gran lunga troppo limitato per bastare alla descrizione o alla interpretazione di fatti sociali; e fino all'Ottocento il più naturale sviluppo dell'analisi statistica ebbe piccola parte nel pensiero sociologico. Uomini e donne, corporazioni e città, nella loro realtà concreta erano considerati dalle leggi e dai governi quasi fossero creature immaginarie; mentre artificiose finzioni pragmatiche quali il Diritto Divino, il Governo Assoluto, lo Stato, la Sovranità erano considerati realtà concrete. Liberato dal sentimento di dipendenza dalla corporazione e dal vicinato, l'individuo «emancipato» si trovò isolato e sradicato: un atomo di forza in cerca disperata di qualsiasi forza che potesse esercitare il comando. Con la ricerca di potere finanziario e politico, la nozione dei limiti sparì, limiti di numero, limiti di ricchezza, limiti di sviluppo demografico, limiti di espansione urbana: al contrario l'espansione quantitativa divenne predominante. Il mercante non è mai troppo ricco, lo Stato non ha mai troppo territorio, la città non diventa mai troppo grande.

Botero, contemporaneo a questo sviluppo, ne osservò le conseguenze: «Gli antichi fondatori di città», egli disse, «considerando che le leggi e la disciplina civile non si possono facilmente conservare dove sia gran moltitudine di uomini, perché la moltitudine genera confusione, limitarono il numero dei cittadini oltre il quale stimavano non potersi mantenere l'ordine e la forma ch'essi desideravano nelle loro città: tali furono Licurgo, Solone, Aristotele. Ma i Romani, stimando che la potenza, senza la quale una città non si può lungamente mantenere, consiste in gran parte nella moltitudine della gente, fecero ogni cosa per aggrandire e per appopolar la patria loro».

Nel desiderare più sudditi, cioè più carne da cannone, più mucche lattifere da tassare e far rendere, i desideri del Principe coincisero con quelli dei capitalisti che erano alla ricerca di mercati più vasti e più concentrati. Potere politico e potere economico si rafforzarono vicendevolmente. Le città crebbero: i redditi salirono: le tasse aumentarono. Nessuno di questi risultati era accidentale.

Lewis Mumford, La cultura delle città, 1938