Porre la questione relativa ad «Etica e tecnica» significa porre una questione fondamentale per chi ritiene che l'etica, i valori morali e un certo futuro dell'uomo siano importanti, ma questa non mi sembra affatto una ovvietà universale! Penso che in ogni caso ci sia un modo sbagliato di porre il problema, una maniera tradizionale, ovvero: «Nelle sue applicazioni concrete, la tecnica solleva un certo numero di problemi morali a cui si deve cercare di rispondere». Quindi vi è l’eutanasia, la logica elettronica, il linguaggio non umano, la sopravvivenza artificiale, le manipolazioni psicologiche e genetiche e così via. In altre parole, quando si solleva il problema in questo modo si mantiene una doppia stabilità. Una prima stabilità: il nostro mondo è quello che è sempre stato, semplicemente c'è in più anche la tecnica che si è aggiunta e che bisogna quindi considerare a parte; e poi vi è una seconda stabilità: anche la morale resta la stessa di prima, con le sue strutture tradizionali, un'etica generale e un'etica speciale (da un lato i fondamenti dell’etica, i valori, e dall’altro le questioni concrete della ricerca di una soluzione per queste questioni concrete). Il dibattito comincia a partire dalla diversità dei sistemi etici: etica tradizionale o non tradizionale, laica o cristiana, marxista o borghese, ecc. Si pongono allora i problemi della tecnica sotto forma di casus: si può procedere all'aborto oppure no? Si può praticare l'eutanasia oppure no? Questi sono casi considerati di volta in volta. Si cerca di rispondervi attraverso principi etici considerati permanenti, considerati immutati, secondo una situazione rimasta stabile. Ora, io penso che sia avvenuto uno sconvolgimento molto più profondo. La tecnica è diventata qualcosa di molto diverso dalla semplice macchina e dalla somma di macchine, vale a dire che anzitutto non è più un elemento semplicemente materializzato in un certo numero di oggetti. Essa può essere astratta, può essere non concreta, e d'altra parte non è un fattore secondario integrato in una civiltà, una società identica a se stessa. È diventata un fattore determinante per l’insieme dei problemi. Nel diciannovesimo secolo, il fattore determinante era l'economia; attualmente, penso che il fattore determinante sia la tecnica. È diventata anche la mediazione generalizzata. Qualsiasi tecnica è ovviamente una mediazione nei confronti dell'ambiente, ma il mondo tecnico in cui viviamo è un'altra cosa: è una mediazione generalizzata, vale a dire che non possiamo più avere una qualsivoglia relazione senza che, per esempio, vi sia tra noi e l’ambiente una tecnica.
La tecnica è autonoma
Era questo il dibattito sulle «relazioni lunghe» o «relazioni vicine», ad esempio, ma anche le relazioni vicine sono alla fine mediate dalla tecnica. Inoltre, la tecnica è diventata anche un ambiente, vale a dire che non viviamo più nell'ambiente naturale, viviamo nell'ambiente tecnico. Lo dimostra il fatto che viviamo essenzialmente in una città, e nella città è tutto rigorosamente tecnico. O prodotto dalla tecnica, o tecnicamente in movimento. È il nostro ambiente di vita adesso, con la propria legge di organizzazione, la propria autonomia (e so che dire che la tecnica è autonoma provoca spesso qualche reazione), con la sua razionalità indipendente, un’attitudine ad uno sviluppo specifico; ciò significa, ad esempio (dovrò tornare su questo), che la tecnica procede in modo causale e mai finalistico. In altre parole: non c'è mai un fine che viene assegnato ad uno sviluppo tecnico. La tecnica progredisce perché semplicemente precedenti tecniche esistono, si combinano e permettono di avanzare di un passo. E non si fa mai che un passo in più. È un meccanismo totalmente diverso da quello consueto con cui, tradizionalmente, poniamo dei fini e poi cerchiamo i mezzi per raggiungere quei fini, e così via. La tecnica non progredisce più in questo modo. E questo insieme tecnico è caratterizzato da una ambivalenza. Non si può dire: «La tecnica fa del bene, la tecnica fa del male». Essa fa entrambe le cose, allo stesso tempo e in maniera indissolubile ed inseparabile. Vale a dire che man mano che, ad esempio, riuscirete a risolvere un problema grazie ad una tecnica, solleverete un'intera serie di altri problemi per il fatto stesso di aver fatto ricorso a quella tecnica. In altre parole siamo in presenza, con l’insieme di tecniche messe in relazione le une con le altre, di quello che chiamerò sistema, il «sistema tecnico», adottando il significato abbastanza preciso e rigoroso della parola «sistema». Di conseguenza, il problema etico può essere considerato solo in relazione a tale sistema preso nel suo insieme, e non in relazione a questo o a quell'oggetto. Non esiste un problema etico e poi un altro problema, una questione qui ed una là.
Non esiste strumento neutro
Non ha importanza, per esempio, imparare ad usare bene una tecnica, o usare una tecnica per il bene; nessuna importanza, dato che ogni tecnica e ogni oggetto tecnico non esiste mai di per sé e in modo separato o autonomo. Se così fosse, ci sarebbero più opzioni in ogni caso, ma un oggetto tecnico è sempre integrato in un insieme, in un sistema. La tecnica ha la sua legge d'uso: non è uno strumento neutro. È l'errore che si fa sempre quando si dice: «Dopotutto, la tecnica non è altro che un coltello. Con un coltello, potete tagliare il pane oppure uccidere il vostro vicino, è semplice, è questione di come si usa». Ma tra un missile interplanetario e un coltello vi è una differenza di potenza che comporta una differenza qualitativa. Ogni elemento della tecnica è integrato in questo insieme che dà la sua portata e il suo significato. È per questo che non si può mai dire, in nessun momento, che uno strumento tecnico è uno strumento neutro che posso usare a mio piacimento. Inoltre, ciò che bisogna anche capire quando proviamo a porre questo primo insieme di relazione, è che nei confronti della tecnica — ed era già presente nell'esempio dato del coltello — noi siamo irrimediabilmente convinti che l'uomo rimanga pur sempre il padrone: «Dopo tutto, siamo noi ad aver fatto la tecnica». E come si dice di solito, il computer non produce mai nulla se non quello che vi abbiamo messo dentro. È chiaro come il giorno. Sono «io» che programmo il computer ed il computer alla fine fa quello che gli ho chiesto. Ma se noi consideriamo l’insieme, invece di prendere prima uno strumento e poi un altro, vorrei porre due domande.
Il politico senza potere
Quando si dice: «L’uomo resta pur sempre il padrone», di che uomo si tratta? Chi padroneggia? Per logica io, io posso padroneggiare un registratore, posso padroneggiare la televisione — non utilizzandola, per esempio. Ma la tecnologia in sé, il sistema globale, le interrelazioni, i collegamenti tra tutti gli elementi della tecnologia, chi li padroneggia? Non sono né il politico né il tecnico stesso. Il tecnico è sempre specializzato. Nessuno padroneggia il sistema tecnico. Nessuno ha potere sull’insieme. Il politico non ha alcun tipo di potere. È completamente «doppiato», direi, dalla tecnica. Quando prende decisioni in apparenza libere, queste decisioni sono sempre preparate da tecnici e verranno applicate da tecnici. In definitiva, il politico è il davanti del palco, il davanti dello spettacolo. Questa è la prima domanda: «Chi padroneggia?» E inoltre, qual è l'uomo in questione? Pensiamo sempre in termini antichi, dicendoci: «L’uomo è sempre lo stesso, è il greco dell’epoca di Pericle, ed è a quest'uomo che mi riferisco, è quest'uomo a padroneggiare la tecnica». Ma no! I nostri figli, i nostri nipoti, che sono abituati all’universo tecnico, vivono in questo universo. Sono condizionati dai loro giocattoli che li indirizzano verso la tecnica. A scuola, cosa imparano? Imparano la matematica in una forma nuova che li prepara esattamente ad una funzione tecnica. In altre parole, sono già adattati prima di entrare nel sistema tecnico. Pertanto, dobbiamo notare che questo «uomo che padroneggia» è un uomo già modellato dalla tecnica. In funzione di ciò, le abituali posizioni morali sono completamente superate. Non ha più importanza parlare di etica individuale, di etica sociale o cercare di operare una distinzione. Per un po' ce la siamo cavata con la famosa teoria degli adiaphora (cioè, per i non-tecnici dell’etica, le questioni neutre o quelle che non concernono il bene ed il male). I teologi se la sono cavata molto bene. C'erano i problemi del bene, c'erano i problemi del male, e poi, nel mezzo, un sacco di cose né buone né cattive. Quindi non c'era nessun problema etico. Rimane il ricorso alla realtà, vale a dire l’etica insidiosa dell'adattamento, che consiste nel dichiarare che la tecnica è un fatto e che l'uomo deve adattarsi alla realtà. Di conseguenza, si tratta di eliminare ciò che impedisce il corretto funzionamento della tecnica. Al punto che l'adattamento diventa il criterio morale. Ciò porta alla constatazione che questa tecnica alla fine ha fatto nascere, attorno a noi, un’autentica nuova morale — la morale tecnica — che presenta, a mio avviso, le due seguenti caratteristiche: è una morale del comportamento, cioè elimina completamente le intenzioni, le motivazioni. Basta avere una pratica corretta. D’altra parte, è una morale che esclude la tradizionale problematica morale. Ad esempio, per riprenderne una che è stata molto importante: la moralità dell'ambiguità.
Ogni tecnica è funzione di potenza
Ciò è inaccettabile nel mondo tecnico. La stessa tecnica è diventata virtù — dando un senso alla vita — ed ora, facendo una piccola digressione dalla parte della scienza, si vedono scienziati provare a basare la morale sulla virtù scientifica. Ma per la tecnica non è stato fatto un lavoro del genere. Sarebbe meno bello di quanto fatto da Monod. Per la tecnica le virtù che appaiono sono la normalità, l'efficienza, il lavoro, la coscienza professionale, la devozione all’opera collettiva. In ogni caso si tratta di subordinare tutto all'efficacia, funzionale all'adattamento. Tale etica tecnica favorisce il libero gioco della tecnica e, se si parla ancora dei valori tradizionali, se si evocano ancora le morali tradizionali, in genere ciò avviene per giustificare il primato della tecnica — escludendo del resto (come si fa ormai comunemente) valori tradizionali come la libertà e la dignità. Ricordo il famoso libro di Skinner, che è perfettamente in carattere con un'etica dell'era tecnica. Nello stesso tempo in cui si escludono i valori tradizionali di libertà e dignità, si svalutano gli altri comportamenti. Ad esempio, è ovvio che con la morale tecnica la pigrizia sia inaccettabile, lo spreco sia scandaloso e il gioco vada bene per i bambini. Ora, se cerchiamo un denominatore comune ai valori della tecnica, ai comportamenti che richiede, ci accorgeremo che i problemi sollevati sono in definitiva problemi relativi alla potenza. Ogni tecnica è funzione della potenza. In realtà, anche se pensiamo ai «casus», ai casi tecnici, alle ipotesi, ai casi particolari, ci accorgeremo che appunto perché l'uomo può praticamente tutto che vengono sollevati i problemi frammentari. Ma questa potenza non è la potenza dell'uomo, essendo estrinseca all'uomo. Riguarda esclusivamente i mezzi. È la dismisura dei mezzi che alla fine provoca la crisi della nostra civiltà e la crisi dell'etica. Questa è stata tradizionalmente formulata per un uomo senza mezzi, quindi tutti i problemi erano quelli relativi ai comportamenti diretti ed alle intenzioni. Attualmente, è un problema di mezzi e di potenza. A livello di potenza, il primo fattore essenziale è la constatazione della contraddizione tra la potenza ed i valori. Ogni accrescimento di potenza sfocia in una messa in discussione o in una regressione dei valori (il che è una proposta d’ordine pragmatico). Ma se i valori sono messi in discussione, non ci sono più limiti concepibili né parametri che permettano di valutare il comportamento: l'uomo diventa incapace di giudicare. Giacché giudica solo in base a dei valori. La sola regola che sussiste è: «Tutto ciò che può essere fatto deve essere fatto». La potenza implica un sempre di più, un sempre «oltre»: per porre, accettare e rispettare dei limiti, sono necessari valori comunemente accettati. Ma il problema della potenza non attiene solo ad un certo «spirito di potenza»: non esiste in quanto tale. La potenza dei nostri giorni esiste solo grazie a dei mezzi, rientra nell’universo dei mezzi. Ora, è perfettamente impossibile oggi separare i fini dai mezzi. Il fine è sempre contenuto nei mezzi. E i fini sono sempre definiti dai mezzi. Ma questi mezzi ce li fornisce pur sempre la tecnica. La potenza e la portata dei mezzi ricoprono completamente l'attuale campo del pensiero e della vita. Quindi, possiamo valutare correttamente il problema etico e cercare di porre le direzioni di una ricerca etica solo in relazione a tale sviluppo di potenza e a tale universo di mezzi. È qui che bisogna situarsi e non saltare in un universo di fini ipotetici, come si fa ora un po’ troppo facilmente. La passione per le utopie è precisamente la rinuncia di fronte ad una situazione creata dalla tecnica. Noi salteremo ciò che sta in mezzo, il periodo intermedio, e punteremo molto lontano. Mirando al periodo 2250 si potranno risolvere tutti i problemi. Ma a me interessa il periodo tra il 1978 ed il 2000. È questo il periodo che ritengo importante. E in tal caso, allora, non c'è utopia. Si tratta di situarsi nel problema dei mezzi e di considerare, in questa società tecnica, un'etica che svolga il ruolo tradizionale dell'etica. Infatti, perché porre il problema se si comincia a dire che ciò che l'uomo per millenni ha ritenuto fosse la morale, è stata cancellata, non conta più: si parte da zero? In quel momento entriamo nella morale tecnica, la questione è chiusa. C'era un ruolo tradizionale dell'etica: mantenere l'autorità dell'uomo in relazione alla vita, fornire la possibilità che esistesse un corpo sociale e dei rapporti inter-umani, ad esempio. Allora, se manteniamo questi due orientamenti dell’etica, credo che un orientamento, una riflessione, una ricerca per l'etica attuale debba porsi in relazione alla tecnica, ma non come una anti-tecnica, che non avrebbe senso. Non si può pretendere di essere anti-tecnici; non esiste, ci siamo dentro e non possiamo farci nulla. Dobbiamo fare con ciò che abbiamo, basta non esserne subordinati. Dobbiamo quindi accettare il fatto che questa tecnica sia una sorta di sfida che ci viene fatta, invece di essere semplicemente un mezzo fedele, semplice, tra le nostre mani.
La disciplina personale
Considero quindi quattro caratteri, quattro orientamenti per questa etica: un'etica della non-potenza, un'etica della libertà, un'etica del conflitto e un'etica della trasgressione. E nel dire questo, non sono originale. Difatti, è in questa linea di ricerca che si pongono molti di coloro che da tempo riflettono sul problema della tecnica. Quando Jouvenel ci parla di amenità, quando Illich ci parla di convivialità, quando Friedman ci parla di saggezza, quando lo stesso Fourastié ci parla della necessità di disciplina personale — e potrei citare Rougemont, e potrei citare Domenach — vanno tutti nella stessa direzione ed ogni volta è una sorta di riduzione della potenza. Vale a dire che l'uomo accetta di non fare tutto ciò che potrebbe fare. Ora, la logica tecnica insegna che tutto ciò che si può fare, lo si deve fare. Solo, quando dico un'etica della non-potenza, non parlo di impotenza. Non è la stessa cosa. Non è rinunciare. È scegliere di non fare. Avere cioè, in un dato momento, questa possibilità e decidere di no. Pertanto, non è nemmeno un fatalismo che afferma: «le cose vanno, allora le lascio andare». Questa etica si registra a tutti i livelli, sia nell'uso personale — perché non escludo l'uso personale delle tecniche e la nostra attitudine nei confronti degli oggetti che ci circondano: è la non-potenza quando si è automobilisti, è la non-potenza quando si ha un transistor che infastidisce il vicino, ecc., è una decisione permanente — ma è anche una decisione istituzionale, perché è la ricusazione di ogni manipolazione, è la messa in discussione della crescita automatica, è il rifiuto della concorrenza, è entrare in una pedagogia differente, non competitiva. Ciò mette in discussione le olimpiadi, le gare automobilistiche, ecc. ma vale anche per la ricerca scientifica. E comporta l’instaurazione di limiti. Per schematizzare e semplificare, direi che mi sembra ci sia una specie di principio che dovrebbe essere davvero centrale in tutte le nostre riflessioni, dato che la potenza quasi illimitata dei mezzi che abbiamo consente quasi ogni azione. Ciò implica a priori la scelta del non intervento ogni qualvolta non si sia del tutto certi degli effetti globali e a lungo termine delle azioni intraprese. Cioè, se non ne siamo del tutto sicuri, a livello globale e nel lungo periodo, di ciò che stiamo iniziando a fare, non dobbiamo farlo.
Gli effetti irreversibili
È questo l'argomento centrale attorno ai problemi atomici. Non si sa cosa, alla lunga, ciò provocherà. Non conosciamo l'effetto globale che comporta. Allora, in tali condizioni, non bisogna farlo. Perché quando ci sarà un incidente (ce ne sarà magari uno su un milione), sarà troppo tardi. È irreversibile. Ciò che mi sembra drammatico in questa quantità di imprese tecniche, adesso, in particolare nella cementificazione delle spiagge, è che siamo in presenza di azioni irreversibili. In altre parole, non bisogna impegnarsi in azioni che possono avere effetti irreversibili. Questa etica, questa decisione della non-potenza, mi sembra sia fondamentale e (poiché è inevitabilmente la preoccupazione di tutti coloro che si impegnano in una riflessione sull'etica) non è impossibile. È inutile formulare un'etica ideale che nessuno realizzerà. Non è impossibile perché è legata al significato. L'esperienza dell'uomo nella potenza della tecnica, è la scoperta dell'assenza del significato. La malattia dell'uomo moderno è che non sa più se la sua vita abbia un senso. La riscoperta del senso è legata, rigorosamente legata, alla scelta della non-potenza. Seconda caratteristica, un'etica della libertà. La potenza dei mezzi non garantisce la libertà. Credo al contrario che la tecnica sia diventata per l'uomo attuale il volto della sua fatalità, il volto delle necessità. Per riacquisire il suo essere etico, deve riprendere la sua lotta per la libertà. Nessun malinteso. Non sostengo affatto che l'uomo sia libero. Sostengo costantemente che l'uomo è determinato, ma che si pretende libero, che si vuole libero, che si afferma libero e che lotta per essere libero. Ora, ci sono state tre fasi. Egli è stato pesantemente determinato dalla natura, ha lottato con la natura per liberarsi da queste determinazioni. Ha vinto. Ha vinto grazie alla tecnica. Ha vinto sulla natura. È immensamente libero nei confronti della natura. Seconda fase: egli era, in quel momento — quando ha iniziato a vincere sulla natura — fortemente determinato dalla società. L'uomo ha voluto affermarsi anche contro la determinazione sociale, ed è tutto qui il problema delle rivoluzioni.
Con Hitler, era facile
Ora c'è un terzo atto di queste determinazioni: [l’uomo odierno] è determinato dalla tecnica. Non penso che il sistema tecnico sia più forte, più rigoroso, più pericoloso di quanto lo fosse la natura per l'uomo preistorico. Certamente no. L'uomo preistorico se l’è cavata bene. Adesso è nostro compito in questo ambiente tecnico rifare, penso, ciò che ha fatto l'uomo preistorico. Ma, ovviamente, non è la stessa cosa. Egli aveva trovato quello strumento di elaborazione dei valori, di rappresentazione del mondo, ecc., allora estremamente utile. Credo che in definitiva l'etica sia uno strumento estremamente utile anche per la liberazione, ma occorre sceglierlo. In altre parole, bisogna decidere — e questo può avere enormi conseguenze — che non è la tecnica a liberarci, ma che dobbiamo liberarcene. Anche in questo caso mi sembra ci sia un fondamento di realtà e possibilità. È soprattutto l'esperienza dei giovani, ma era già la nostra esperienza quando eravamo giovani. Stiamo morendo di non-libertà. Ma non sappiamo esattamente contro chi lottare. Direi che quando si aveva Hitler davanti, era facile. Si sapeva chi combattere. Nel mondo attuale, sono punti diffusi, sono forze che conosciamo male, che non abbiamo analizzato, ecc. È il lavoro che consiste, ad esempio, nell'analisi del sistema tecnico. Allora, si lotta un po’ alla cieca, ma sono più che convinto che ci sarà una presa di coscienza. Poi c'è un'etica del conflitto, e questo è il terzo fattore. Poiché l'etica della non-potenza e della libertà è necessariamente creatrice di conflitto e tensione. Vale a dire che si tratta di reintrodurre dei conflitti, dei giochi, degli interstizi in un tessuto che la tecnica vorrebbe assolutamente coerente, rigoroso, monolitico. La tecnica è unificatrice e totalizzante. Ma un gruppo umano può esistere solo nel conflitto e nella trattativa. In pratica, se giungeremo al gruppo umano perfettamente omogeneizzato, non esisteremo più, né come persone, né come gruppo. Un gruppo umano esiste solo attraverso la conflittualità che c’è tra i suoi membri. Tale conflittualità non dovrebbe sfociare nella disgregazione e nella distruzione del gruppo, ma è attraverso successivi conflitti che il gruppo vivrà e si evolverà pian piano. Pertanto, uno dei valori fondamentali dell'etica è il conflitto, e la tensione. Siamo molto lontani dalle morali abituali e tradizionali.
Desacralizzare la tecnica
Infine, ritengo occorra un'etica della trasgressione e della profanazione. Ma qui bisogna stare attenti, non bisogna sbagliarsi su cosa sia da trasgredire. Ora tutti trasgrediscono: i tabù sessuali, ecc. Ciò non ha più alcun interesse perché è da molto tempo che la morale sessuale viene criticata. Si trasgrediscono i tabù con la droga, ma nemmeno questo ha molto interesse. Quando si dice che la droga è un grido, sono d'accordo. Ma quando si sostiene che è la trasgressione delle costrizioni della società, è tutta una commedia. Ciò che si trasgredisce con mezzi di questo genere, è già finito e liquidato; è un passato. Occorre trasgredire le costrizioni, le regole, i limiti posti dalla tecnica, vale a dire ciò che è reale. Questa trasgressione può essere compiuta solo attraverso la smitizzazione della tecnica, la desacralizzazione della tecnica — perché l’abbiamo tutti sacralizzata. Nel nostro cuore ci crediamo tutti. Dobbiamo desacralizzarla. È terribile quando si desacralizza il dottore, il pilota, l'economista, l'astronauta. Credo che dovremmo distruggere l'illusione del progresso, l'illusione che la tecnica ci faccia marciare di progresso in progresso, l'illusione altrettanto radicata in noi che ci sia una coincidenza tra il materiale e lo spirituale. In altre parole, la tecnica realizza ciò che è basso, piatto, meschino. Essa ci libera da ciò che è materiale, quindi, come un puro spirito, una volta che non dovrò più fare quei volgari compiti, potrò finalmente librarmi in cielo. Ma in tal caso, spiacente, qualora la tecnica mi liberi da qualcosa, mi castrerà nel contempo di qualcos'altro e, in generale, di ciò che è spirituale. Ogni artista sa che deve superare una resistenza e, qualora la tecnica vincesse la resistenza della materia al posto suo, non immaginerebbe più nulla. Io ho bisogno, per negare, di una resistenza che la tecnica non deve togliermi. Non sono liberato, non sono dematerializzato grazie alla tecnica. In altre parole, è necessario ridurre la tecnica a mera produttrice di oggetti. Oggetti utili, ovviamente, perché no? Lo sto usando, ma funziona. Del resto, preferisco che funzioni in generale. Quando mi si dà una tecnica, non ne so nulla, ma mi piace che funzioni. È utile, ma niente di più. Ma allora, è proprio per un insieme di utilità che devo rinunciare a tutto quanto ci è richiesto di rinunciare? Ecco in definitiva la questione che ci sta di fronte. È questa trasgressione dell'ideologia tecnica che è in noi, che consente l’instaurazione di nuovi limiti (di quei limiti richiesti da Illich). Vorrei concludere con una parola, dicendo che ciò che propongo non è in alcun modo né retrogrado, né distruttore della tecnica, né negatore, ma è semplicemente un confronto al cospetto di un nuovo ambiente che non conosciamo bene. Si tratta di riaffermarci come soggetti. La nostra riaffermazione in questo ambiente e in questo mondo, la contestazione etica, non sono né contro l'uomo né contro la società, ma affinché l'uomo ed il gruppo sociale in cui vivo possano continuare ad essere, possano continuare ad avere un'esistenza reale. È questo il compito etico. Quindi, capite che i valori antichi e tradizionali su cui avevamo convenuto per circa duemila anni non sono più utili. Ma sono insostituibili, perché nulla può sostituire la libertà e la dignità.
Jacques Ellul, 1978