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A proposito di Kavarna

...la passione per la libertà è più forte d'ogni autorità...

Porre la questione relativa ad «Etica e tecnica» significa porre una questione fondamentale per chi ritiene che l'etica, i valori morali e un certo futuro dell'uomo siano importanti, ma questa non mi sembra affatto una ovvietà universale! Penso che in ogni caso ci sia un modo sbagliato di porre il problema, una maniera tradizionale, ovvero: «Nelle sue applicazioni concrete, la tecnica solleva un certo numero di problemi morali a cui si deve cercare di rispondere». Quindi vi è l’eutanasia, la logica elettronica, il linguaggio non umano, la sopravvivenza artificiale, le manipolazioni psicologiche e genetiche e così via. In altre parole, quando si solleva il problema in questo modo si mantiene una doppia stabilità. Una prima stabilità: il nostro mondo è quello che è sempre stato, semplicemente c'è in più anche la tecnica che si è aggiunta e che bisogna quindi considerare a parte; e poi vi è una seconda stabilità: anche la morale resta la stessa di prima, con le sue strutture tradizionali, un'etica generale e un'etica speciale (da un lato i fondamenti dell’etica, i valori, e dall’altro le questioni concrete della ricerca di una soluzione per queste questioni concrete). Il dibattito comincia a partire dalla diversità dei sistemi etici: etica tradizionale o non tradizionale, laica o cristiana, marxista o borghese, ecc. Si pongono allora i problemi della tecnica sotto forma di casus: si può procedere all'aborto oppure no? Si può praticare l'eutanasia oppure no? Questi sono casi considerati di volta in volta. Si cerca di rispondervi attraverso principi etici considerati permanenti, considerati immutati, secondo una situazione rimasta stabile. Ora, io penso che sia avvenuto uno sconvolgimento molto più profondo. La tecnica è diventata qualcosa di molto diverso dalla semplice macchina e dalla somma di macchine, vale a dire che anzitutto non è più un elemento semplicemente materializzato in un certo numero di oggetti. Essa può essere astratta, può essere non concreta, e d'altra parte non è un fattore secondario integrato in una civiltà, una società identica a se stessa. È diventata un fattore determinante per l’insieme dei problemi. Nel diciannovesimo secolo, il fattore determinante era l'economia; attualmente, penso che il fattore determinante sia la tecnica. È diventata anche la mediazione generalizzata. Qualsiasi tecnica è ovviamente una mediazione nei confronti dell'ambiente, ma il mondo tecnico in cui viviamo è un'altra cosa: è una mediazione generalizzata, vale a dire che non possiamo più avere una qualsivoglia relazione senza che, per esempio, vi sia tra noi e l’ambiente una tecnica.  

La tecnica è autonoma

Era questo il dibattito sulle «relazioni lunghe» o «relazioni vicine», ad esempio, ma anche le relazioni vicine sono alla fine mediate dalla tecnica. Inoltre, la tecnica è diventata anche un ambiente, vale a dire che non viviamo più nell'ambiente naturale, viviamo nell'ambiente tecnico. Lo dimostra il fatto che viviamo essenzialmente in una città, e nella città è tutto rigorosamente tecnico. O prodotto dalla tecnica, o tecnicamente in movimento. È il nostro ambiente di vita adesso, con la propria legge di organizzazione, la propria autonomia (e so che dire che la tecnica è autonoma provoca spesso qualche reazione), con la sua razionalità indipendente, un’attitudine ad uno sviluppo specifico; ciò significa, ad esempio (dovrò tornare su questo), che la tecnica procede in modo causale e mai finalistico. In altre parole: non c'è mai un fine che viene assegnato ad uno sviluppo tecnico. La tecnica progredisce perché semplicemente precedenti tecniche esistono, si combinano e permettono di avanzare di un passo. E non si fa mai che un passo in più. È un meccanismo totalmente diverso da quello consueto con cui, tradizionalmente, poniamo dei fini e poi cerchiamo i mezzi per raggiungere quei fini, e così via. La tecnica non progredisce più in questo modo. E questo insieme tecnico è caratterizzato da una ambivalenza. Non si può dire: «La tecnica fa del bene, la tecnica fa del male». Essa fa entrambe le cose, allo stesso tempo e in maniera indissolubile ed inseparabile. Vale a dire che man mano che, ad esempio, riuscirete a risolvere un problema grazie ad una tecnica, solleverete un'intera serie di altri problemi per il fatto stesso di aver fatto ricorso a quella tecnica. In altre parole siamo in presenza, con l’insieme di tecniche messe in relazione le une con le altre, di quello che chiamerò sistema, il «sistema tecnico», adottando il significato abbastanza preciso e rigoroso della parola «sistema». Di conseguenza, il problema etico può essere considerato solo in relazione a tale sistema preso nel suo insieme, e non in relazione a questo o a quell'oggetto. Non esiste un problema etico e poi un altro problema, una questione qui ed una là.  

Non esiste strumento neutro

Non ha importanza, per esempio, imparare ad usare bene una tecnica, o usare una tecnica per il bene; nessuna importanza, dato che ogni tecnica e ogni oggetto tecnico non esiste mai di per sé e in modo separato o autonomo. Se così fosse, ci sarebbero più opzioni in ogni caso, ma un oggetto tecnico è sempre integrato in un insieme, in un sistema. La tecnica ha la sua legge d'uso: non è uno strumento neutro. È l'errore che si fa sempre quando si dice: «Dopotutto, la tecnica non è altro che un coltello. Con un coltello, potete tagliare il pane oppure uccidere il vostro vicino, è semplice, è questione di come si usa». Ma tra un missile interplanetario e un coltello vi è una differenza di potenza che comporta una differenza qualitativa. Ogni elemento della tecnica è integrato in questo insieme che dà la sua portata e il suo significato. È per questo che non si può mai dire, in nessun momento, che uno strumento tecnico è uno strumento neutro che posso usare a mio piacimento. Inoltre, ciò che bisogna anche capire quando proviamo a porre questo primo insieme di relazione, è che nei confronti della tecnica — ed era già presente nell'esempio dato del coltello — noi siamo irrimediabilmente convinti che l'uomo rimanga pur sempre il padrone: «Dopo tutto, siamo noi ad aver fatto la tecnica». E come si dice di solito, il computer non produce mai nulla se non quello che vi abbiamo messo dentro. È chiaro come il giorno. Sono «io» che programmo il computer ed il computer alla fine fa quello che gli ho chiesto. Ma se noi consideriamo l’insieme, invece di prendere prima uno strumento e poi un altro, vorrei porre due domande.  

Il politico senza potere

Quando si dice: «L’uomo resta pur sempre il padrone», di che uomo si tratta? Chi padroneggia? Per logica io, io posso padroneggiare un registratore, posso padroneggiare la televisione — non utilizzandola, per esempio. Ma la tecnologia in sé, il sistema globale, le interrelazioni, i collegamenti tra tutti gli elementi della tecnologia, chi li padroneggia? Non sono né il politico né il tecnico stesso. Il tecnico è sempre specializzato. Nessuno padroneggia il sistema tecnico. Nessuno ha potere sull’insieme. Il politico non ha alcun tipo di potere. È completamente «doppiato», direi, dalla tecnica. Quando prende decisioni in apparenza libere, queste decisioni sono sempre preparate da tecnici e verranno applicate da tecnici. In definitiva, il politico è il davanti del palco, il davanti dello spettacolo. Questa è la prima domanda: «Chi padroneggia?» E inoltre, qual è l'uomo in questione? Pensiamo sempre in termini antichi, dicendoci: «L’uomo è sempre lo stesso, è il greco dell’epoca di Pericle, ed è a quest'uomo che mi riferisco, è quest'uomo a padroneggiare la tecnica». Ma no! I nostri figli, i nostri nipoti, che sono abituati all’universo tecnico, vivono in questo universo. Sono condizionati dai loro giocattoli che li indirizzano verso la tecnica. A scuola, cosa imparano? Imparano la matematica in una forma nuova che li prepara esattamente ad una funzione tecnica. In altre parole, sono già adattati prima di entrare nel sistema tecnico. Pertanto, dobbiamo notare che questo «uomo che padroneggia» è un uomo già modellato dalla tecnica. In funzione di ciò, le abituali posizioni morali sono completamente superate. Non ha più importanza parlare di etica individuale, di etica sociale o cercare di operare una distinzione. Per un po' ce la siamo cavata con la famosa teoria degli adiaphora (cioè, per i non-tecnici dell’etica, le questioni neutre o quelle che non concernono il bene ed il male). I teologi se la sono cavata molto bene. C'erano i problemi del bene, c'erano i problemi del male, e poi, nel mezzo, un sacco di cose né buone né cattive. Quindi non c'era nessun problema etico. Rimane il ricorso alla realtà, vale a dire l’etica insidiosa dell'adattamento, che consiste nel dichiarare che la tecnica è un fatto e che l'uomo deve adattarsi alla realtà. Di conseguenza, si tratta di eliminare ciò che impedisce il corretto funzionamento della tecnica. Al punto che l'adattamento diventa il criterio morale. Ciò porta alla constatazione che questa tecnica alla fine ha fatto nascere, attorno a noi, un’autentica nuova morale — la morale tecnica — che presenta, a mio avviso, le due seguenti caratteristiche: è una morale del comportamento, cioè elimina completamente le intenzioni, le motivazioni. Basta avere una pratica corretta. D’altra parte, è una morale che esclude la tradizionale problematica morale. Ad esempio, per riprenderne una che è stata molto importante: la moralità dell'ambiguità.  

Ogni tecnica è funzione di potenza

Ciò è inaccettabile nel mondo tecnico. La stessa tecnica è diventata virtù — dando un senso alla vita — ed ora, facendo una piccola digressione dalla parte della scienza, si vedono scienziati provare a basare la morale sulla virtù scientifica. Ma per la tecnica non è stato fatto un lavoro del genere. Sarebbe meno bello di quanto fatto da Monod. Per la tecnica le virtù che appaiono sono la normalità, l'efficienza, il lavoro, la coscienza professionale, la devozione all’opera collettiva. In ogni caso si tratta di subordinare tutto all'efficacia, funzionale all'adattamento. Tale etica tecnica favorisce il libero gioco della tecnica e, se si parla ancora dei valori tradizionali, se si evocano ancora le morali tradizionali, in genere ciò avviene per giustificare il primato della tecnica — escludendo del resto (come si fa ormai comunemente) valori tradizionali come la libertà e la dignità. Ricordo il famoso libro di Skinner, che è perfettamente in carattere con un'etica dell'era tecnica. Nello stesso tempo in cui si escludono i valori tradizionali di libertà e dignità, si svalutano gli altri comportamenti. Ad esempio, è ovvio che con la morale tecnica la pigrizia sia inaccettabile, lo spreco sia scandaloso e il gioco vada bene per i bambini. Ora, se cerchiamo un denominatore comune ai valori della tecnica, ai comportamenti che richiede, ci accorgeremo che i problemi sollevati sono in definitiva problemi relativi alla potenza. Ogni tecnica è funzione della potenza. In realtà, anche se pensiamo ai «casus», ai casi tecnici, alle ipotesi, ai casi particolari, ci accorgeremo che appunto perché l'uomo può praticamente tutto che vengono sollevati i problemi frammentari. Ma questa potenza non è la potenza dell'uomo, essendo estrinseca all'uomo. Riguarda esclusivamente i mezzi. È la dismisura dei mezzi che alla fine provoca la crisi della nostra civiltà e la crisi dell'etica. Questa è stata tradizionalmente formulata per un uomo senza mezzi, quindi tutti i problemi erano quelli relativi ai comportamenti diretti ed alle intenzioni. Attualmente, è un problema di mezzi e di potenza. A livello di potenza, il primo fattore essenziale è la constatazione della contraddizione tra la potenza ed i valori. Ogni accrescimento di potenza sfocia in una messa in discussione o in una regressione dei valori (il che è una proposta d’ordine pragmatico). Ma se i valori sono messi in discussione, non ci sono più limiti concepibili né parametri che permettano di valutare il comportamento: l'uomo diventa incapace di giudicare. Giacché giudica solo in base a dei valori. La sola regola che sussiste è: «Tutto ciò che può essere fatto deve essere fatto». La potenza implica un sempre di più, un sempre «oltre»: per porre, accettare e rispettare dei limiti, sono necessari valori comunemente accettati. Ma il problema della potenza non attiene solo ad un certo «spirito di potenza»: non esiste in quanto tale. La potenza dei nostri giorni esiste solo grazie a dei mezzi, rientra nell’universo dei mezzi. Ora, è perfettamente impossibile oggi separare i fini dai mezzi. Il fine è sempre contenuto nei mezzi. E i fini sono sempre definiti dai mezzi. Ma questi mezzi ce li fornisce pur sempre la tecnica. La potenza e la portata dei mezzi ricoprono completamente l'attuale campo del pensiero e della vita. Quindi, possiamo valutare correttamente il problema etico e cercare di porre le direzioni di una ricerca etica solo in relazione a tale sviluppo di potenza e a tale universo di mezzi. È qui che bisogna situarsi e non saltare in un universo di fini ipotetici, come si fa ora un po’ troppo facilmente. La passione per le utopie è precisamente la rinuncia di fronte ad una situazione creata dalla tecnica. Noi salteremo ciò che sta in mezzo, il periodo intermedio, e punteremo molto lontano. Mirando al periodo 2250 si potranno risolvere tutti i problemi. Ma a me interessa il periodo tra il 1978 ed il 2000. È questo il periodo che ritengo importante. E in tal caso, allora, non c'è utopia. Si tratta di situarsi nel problema dei mezzi e di considerare, in questa società tecnica, un'etica che svolga il ruolo tradizionale dell'etica. Infatti, perché porre il problema se si comincia a dire che ciò che l'uomo per millenni ha ritenuto fosse la morale, è stata cancellata, non conta più: si parte da zero? In quel momento entriamo nella morale tecnica, la questione è chiusa. C'era un ruolo tradizionale dell'etica: mantenere l'autorità dell'uomo in relazione alla vita, fornire la possibilità che esistesse un corpo sociale e dei rapporti inter-umani, ad esempio. Allora, se manteniamo questi due orientamenti dell’etica, credo che un orientamento, una riflessione, una ricerca per l'etica attuale debba porsi in relazione alla tecnica, ma non come una anti-tecnica, che non avrebbe senso. Non si può pretendere di essere anti-tecnici; non esiste, ci siamo dentro e non possiamo farci nulla. Dobbiamo fare con ciò che abbiamo, basta non esserne subordinati. Dobbiamo quindi accettare il fatto che questa tecnica sia una sorta di sfida che ci viene fatta, invece di essere semplicemente un mezzo fedele, semplice, tra le nostre mani.  

La disciplina personale

Considero quindi quattro caratteri, quattro orientamenti per questa etica: un'etica della non-potenza, un'etica della libertà, un'etica del conflitto e un'etica della trasgressione. E nel dire questo, non sono originale. Difatti, è in questa linea di ricerca che si pongono molti di coloro che da tempo riflettono sul problema della tecnica. Quando Jouvenel ci parla di amenità, quando Illich ci parla di convivialità, quando Friedman ci parla di saggezza, quando lo stesso Fourastié ci parla della necessità di disciplina personale — e potrei citare Rougemont, e potrei citare Domenach — vanno tutti nella stessa direzione ed ogni volta è una sorta di riduzione della potenza. Vale a dire che l'uomo accetta di non fare tutto ciò che potrebbe fare. Ora, la logica tecnica insegna che tutto ciò che si può fare, lo si deve fare. Solo, quando dico un'etica della non-potenza, non parlo di impotenza. Non è la stessa cosa. Non è rinunciare. È scegliere di non fare. Avere cioè, in un dato momento, questa possibilità e decidere di no. Pertanto, non è nemmeno un fatalismo che afferma: «le cose vanno, allora le lascio andare». Questa etica si registra a tutti i livelli, sia nell'uso personale — perché non escludo l'uso personale delle tecniche e la nostra attitudine nei confronti degli oggetti che ci circondano: è la non-potenza quando si è automobilisti, è la non-potenza quando si ha un transistor che infastidisce il vicino, ecc., è una decisione permanente — ma è anche una decisione istituzionale, perché è la ricusazione di ogni manipolazione, è la messa in discussione della crescita automatica, è il rifiuto della concorrenza, è entrare in una pedagogia differente, non competitiva. Ciò mette in discussione le olimpiadi, le gare automobilistiche, ecc. ma vale anche per la ricerca scientifica. E comporta l’instaurazione di limiti. Per schematizzare e semplificare, direi che mi sembra ci sia una specie di principio che dovrebbe essere davvero centrale in tutte le nostre riflessioni, dato che la potenza quasi illimitata dei mezzi che abbiamo consente quasi ogni azione. Ciò implica a priori la scelta del non intervento ogni qualvolta non si sia del tutto certi degli effetti globali e a lungo termine delle azioni intraprese. Cioè, se non ne siamo del tutto sicuri, a livello globale e nel lungo periodo, di ciò che stiamo iniziando a fare, non dobbiamo farlo.  

Gli effetti irreversibili

È questo l'argomento centrale attorno ai problemi atomici. Non si sa cosa, alla lunga, ciò provocherà. Non conosciamo l'effetto globale che comporta. Allora, in tali condizioni, non bisogna farlo. Perché quando ci sarà un incidente (ce ne sarà magari uno su un milione), sarà troppo tardi. È irreversibile. Ciò che mi sembra drammatico in questa quantità di imprese tecniche, adesso, in particolare nella cementificazione delle spiagge, è che siamo in presenza di azioni irreversibili. In altre parole, non bisogna impegnarsi in azioni che possono avere effetti irreversibili. Questa etica, questa decisione della non-potenza, mi sembra sia fondamentale e (poiché è inevitabilmente la preoccupazione di tutti coloro che si impegnano in una riflessione sull'etica) non è impossibile. È inutile formulare un'etica ideale che nessuno realizzerà. Non è impossibile perché è legata al significato. L'esperienza dell'uomo nella potenza della tecnica, è la scoperta dell'assenza del significato. La malattia dell'uomo moderno è che non sa più se la sua vita abbia un senso. La riscoperta del senso è legata, rigorosamente legata, alla scelta della non-potenza. Seconda caratteristica, un'etica della libertà. La potenza dei mezzi non garantisce la libertà. Credo al contrario che la tecnica sia diventata per l'uomo attuale il volto della sua fatalità, il volto delle necessità. Per riacquisire il suo essere etico, deve riprendere la sua lotta per la libertà. Nessun malinteso. Non sostengo affatto che l'uomo sia libero. Sostengo costantemente che l'uomo è determinato, ma che si pretende libero, che si vuole libero, che si afferma libero e che lotta per essere libero. Ora, ci sono state tre fasi. Egli è stato pesantemente determinato dalla natura, ha lottato con la natura per liberarsi da queste determinazioni. Ha vinto. Ha vinto grazie alla tecnica. Ha vinto sulla natura. È immensamente libero nei confronti della natura. Seconda fase: egli era, in quel momento — quando ha iniziato a vincere sulla natura — fortemente determinato dalla società. L'uomo ha voluto affermarsi anche contro la determinazione sociale, ed è tutto qui il problema delle rivoluzioni.  

Con Hitler, era facile

Ora c'è un terzo atto di queste determinazioni: [l’uomo odierno] è determinato dalla tecnica. Non penso che il sistema tecnico sia più forte, più rigoroso, più pericoloso di quanto lo fosse la natura per l'uomo preistorico. Certamente no. L'uomo preistorico se l’è cavata bene. Adesso è nostro compito in questo ambiente tecnico rifare, penso, ciò che ha fatto l'uomo preistorico. Ma, ovviamente, non è la stessa cosa. Egli aveva trovato quello strumento di elaborazione dei valori, di rappresentazione del mondo, ecc., allora estremamente utile. Credo che in definitiva l'etica sia uno strumento estremamente utile anche per la liberazione, ma occorre sceglierlo. In altre parole, bisogna decidere — e questo può avere enormi conseguenze — che non è la tecnica a liberarci, ma che dobbiamo liberarcene. Anche in questo caso mi sembra ci sia un fondamento di realtà e possibilità. È soprattutto l'esperienza dei giovani, ma era già la nostra esperienza quando eravamo giovani. Stiamo morendo di non-libertà. Ma non sappiamo esattamente contro chi lottare. Direi che quando si aveva Hitler davanti, era facile. Si sapeva chi combattere. Nel mondo attuale, sono punti diffusi, sono forze che conosciamo male, che non abbiamo analizzato, ecc. È il lavoro che consiste, ad esempio, nell'analisi del sistema tecnico. Allora, si lotta un po’ alla cieca, ma sono più che convinto che ci sarà una presa di coscienza. Poi c'è un'etica del conflitto, e questo è il terzo fattore. Poiché l'etica della non-potenza e della libertà è necessariamente creatrice di conflitto e tensione. Vale a dire che si tratta di reintrodurre dei conflitti, dei giochi, degli interstizi in un tessuto che la tecnica vorrebbe assolutamente coerente, rigoroso, monolitico. La tecnica è unificatrice e totalizzante. Ma un gruppo umano può esistere solo nel conflitto e nella trattativa. In pratica, se giungeremo al gruppo umano perfettamente omogeneizzato, non esisteremo più, né come persone, né come gruppo. Un gruppo umano esiste solo attraverso la conflittualità che c’è tra i suoi membri. Tale conflittualità non dovrebbe sfociare nella disgregazione e nella distruzione del gruppo, ma è attraverso successivi conflitti che il gruppo vivrà e si evolverà pian piano. Pertanto, uno dei valori fondamentali dell'etica è il conflitto, e la tensione. Siamo molto lontani dalle morali abituali e tradizionali.  

Desacralizzare la tecnica

Infine, ritengo occorra un'etica della trasgressione e della profanazione. Ma qui bisogna stare attenti, non bisogna sbagliarsi su cosa sia da trasgredire. Ora tutti trasgrediscono: i tabù sessuali, ecc. Ciò non ha più alcun interesse perché è da molto tempo che la morale sessuale viene criticata. Si trasgrediscono i tabù con la droga, ma nemmeno questo ha molto interesse. Quando si dice che la droga è un grido, sono d'accordo. Ma quando si sostiene che è la trasgressione delle costrizioni della società, è tutta una commedia. Ciò che si trasgredisce con mezzi di questo genere, è già finito e liquidato; è un passato. Occorre trasgredire le costrizioni, le regole, i limiti posti dalla tecnica, vale a dire ciò che è reale. Questa trasgressione può essere compiuta solo attraverso la smitizzazione della tecnica, la desacralizzazione della tecnica — perché l’abbiamo tutti sacralizzata. Nel nostro cuore ci crediamo tutti. Dobbiamo desacralizzarla. È terribile quando si desacralizza il ​​dottore, il pilota, l'economista, l'astronauta. Credo che dovremmo distruggere l'illusione del progresso, l'illusione che la tecnica ci faccia marciare di progresso in progresso, l'illusione altrettanto radicata in noi che ci sia una coincidenza tra il materiale e lo spirituale. In altre parole, la tecnica realizza ciò che è basso, piatto, meschino. Essa ci libera da ciò che è materiale, quindi, come un puro spirito, una volta che non dovrò più fare quei volgari compiti, potrò finalmente librarmi in cielo. Ma in tal caso, spiacente, qualora la tecnica mi liberi da qualcosa, mi castrerà nel contempo di qualcos'altro e, in generale, di ciò che è spirituale. Ogni artista sa che deve superare una resistenza e, qualora la tecnica vincesse la resistenza della materia al posto suo, non immaginerebbe più nulla. Io ho bisogno, per negare, di una resistenza che la tecnica non deve togliermi. Non sono liberato, non sono dematerializzato grazie alla tecnica. In altre parole, è necessario ridurre la tecnica a mera produttrice di oggetti. Oggetti utili, ovviamente, perché no? Lo sto usando, ma funziona. Del resto, preferisco che funzioni in generale. Quando mi si dà una tecnica, non ne so nulla, ma mi piace che funzioni. È utile, ma niente di più. Ma allora, è proprio per un insieme di utilità che devo rinunciare a tutto quanto ci è richiesto di rinunciare? Ecco in definitiva la questione che ci sta di fronte. È questa trasgressione dell'ideologia tecnica che è in noi, che consente l’instaurazione di nuovi limiti (di quei limiti richiesti da Illich).   Vorrei concludere con una parola, dicendo che ciò che propongo non è in alcun modo né retrogrado, né distruttore della tecnica, né negatore, ma è semplicemente un confronto al cospetto di un nuovo ambiente che non conosciamo bene. Si tratta di riaffermarci come soggetti. La nostra riaffermazione in questo ambiente e in questo mondo, la contestazione etica, non sono né contro l'uomo né contro la società, ma affinché l'uomo ed il gruppo sociale in cui vivo possano continuare ad essere, possano continuare ad avere un'esistenza reale. È questo il compito etico. Quindi, capite che i valori antichi e tradizionali su cui avevamo convenuto per circa duemila anni non sono più utili. Ma sono insostituibili, perché nulla può sostituire la libertà e la dignità.

Jacques Ellul, 1978

«Decenni di fede nella scolarizzazione hanno tramutato il sapere in una merce, un prodotto commerciabile di tipo speciale. Oggi lo si considera un bene di prima necessità e, contemporaneamente, la moneta più preziosa di una società. (La trasformazione del sapere in merce si rispecchia in una parallela trasformazione del linguaggio. Parole che un tempo avevano funzione di verbi stanno diventando sostantivi che indicano possesso. Sino a non molto tempo fa “abitare”, “imparare”, “guarire” designavano delle attività: oggi si riferiscono di solito a delle merci o a dei servizi da fornire. Parliamo di industria edilizia, di prestazione di assistenza medica; nessuno pensa più che la gente sia in grado di farsi una casa o di guarire per proprio conto. In una società cosiffatta si finisce per credere che i servizi professionali siano più preziosi della cura personale. Invece d'imparare ad assistere la nonna, l'adolescente impara a picchettare l'ospedale che non vuole accoglierla)» 

Ivan Illich, Descolarizzare la società,1972

In questi giorni segnati dalla pandemia non si è mai parlato così tanto di scuola. Da quando è entrata sulla scena la «didattica a distanza» poi la confusione è esplosa a livelli esponenziali. Docenti e genitori che protestano per la chiusura delle scuole, genitori e docenti che protestano per la riapertura delle scuole senza la dovuta sicurezza, ministri che polemizzano con presidenti di regione che chiudono le scuole, scienziati che affermano che la scuola sia il luogo dove il virus si diffonde più degli altri luoghi, genitori che affermano il contrario, e così via, in un crescendo di grida strozzate da talk-show televisivo. Mentre tutti sono contro tutti, però, su una cosa sono tutti d’accordo: la scuola è un luogo importante, importantissimo, forse è l’istituzione più importante di tutta la nostra società, della nostra democrazia. Il ministro dell’Istruzione, ovviamente, dirà che nel pur necessario lockdown le scuole devono essere le ultime a chiudere e quindi si inventerà un distanziamento tra banchi a rotelle. Il presidente di Confindustria sarà d’accordo e dirà che la scuola deve formare i lavoratori del futuro. E così di seguito tutti i partiti, di destra di centro e di sinistra, diranno che la scuola è un’istituzione centrale, sacra, intoccabile. Chi critica questo coro unanime lo farà soltanto per smascherare un’ipocrisia palese, ovvero che nel mentre tutti i governi hanno proclamato la scuola come centrale per il funzionamento della democrazia, l’hanno contemporaneamente svuotata di finanziamenti, precarizzando il corpo docente e lasciando gli istituti in un degrado crescente, con i soffitti che cadevano in testa agli studenti. Questa critica non fa che rafforzare il coro del governo: sì, il precedente esecutivo poteva fare di più, ma adesso ci siamo noi e dobbiamo puntare tutto sulla scuola. Non se ne esce, in tutto questo dibattito pubblico, in questi mesi di feroci accuse tra scienziati e politici sulla didattica in presenza e a distanza, non si è alzata nemmeno una voce che mettesse in discussione il cuore, il progetto, l’utilità e la funzione di questo baraccone osceno che chiamiamo scuola. Il motivo di questa assenza è semplice ma forse è illuminante rispetto a tanto di quella falsa opposizione che sinistra e movimenti fanno ad un sistema che vorrebbero combattere ma di cui in realtà condividono principi e fondamenti. Come altre istituzioni totali sviluppatesi nel Novecento, come il carcere, l’ospedale o il manicomio, anche la scuola è stata profondamente riadattata nella fase più recente del dominio capitalista. Come le altre istituzioni che un tempo facevano da ausilio ideologico alla grande fabbrica fordista, anche la scuola è diventata più flessibile, i suoi insegnamenti più adatti a formare la mentalità imprenditoriale dei suoi studenti. Così come la polizia e il controllo si sono diffusi e ramificati nella società e così come il lavoro si è reso pervasivo, totalizzante, con gli smartphone che ci attaccano al meccanismo produttivo h24, così la scuola è diventata smart, i suoi insegnanti sono precari che devono formare clienti e futuri lavoratori iper-sfruttati. Cambiato lo scenario, cambiati gli strumenti, resta l’obiettivo di fondo: a scuola si deve insegnare a obbedire. Oggi la ginnastica dell’obbedienza deve essere permanente, così come si suol dire che la formazione non deve finire mai, perché se perdi il lavoro a cinquant’anni ovviamente è per colpa tua che non ti sei adeguatamente aggiornato. Se però durante la fase fordista qualche eretico poteva immaginare la descolarizzazione, la fine della scuola, e si poteva pensare un’alternativa del sapere e dell’apprendere in comunità dislocate fuori dalle logiche del capitalismo, oggi sembra che questo scenario (parimenti con quello della fine del capitalismo) non sia nemmeno immaginabile. Gli unici movimenti che abbiamo visto in questi anni sono stati sempre sulla difensiva, con comitati di base di professori che lottavano contro la trasformazione della scuola da fabbrica fordista ad azienda con produzione just in time. E dunque anche nel dibattito avvenuto durante questa pandemia si è parlato della stabilizzazione dei docenti precari, delle aule pollaio, dei concorsi, della sicurezza e di tanto altro, certo non di «abolizione della cattedra» o altri concetti di quello che viene demonizzato come residuato ideologico degli anni 70. Sarebbe invece il caso di riscoprire quanto hanno detto questi teorici della descolarizzazione, per tracciare almeno qualche idea differente. Ivan Illich nel suo Descolarizzare la società inseriva la scuola tra le istituzioni manipolatorie e non conviviali, un’istituzione fondata sulla confusione tra l’erogazione dell’istruzione e l’assegnazione del ruolo sociale. L’attacco di Illich al sistema istituzionale d’istruzione si può capire soltanto  insieme alla sua critica dell'architettura moderna, della famiglia e del sistema di merci: in questo senso Illich nel 1971 ha forse preconizzato la completa integrazione della scuola con gli strumenti tecnologici del dominio, questa oscena formazione (a distanza o meno) che lo Stato ti eroga attraverso i software di una multinazionale come Google. Per questo motivo pensare la fine della scuola sarà di nuovo possibile solo se riemergerà la voglia di distruggere questo mondo, reinventando così l’arte di costruirne uno nuovo. 

ewart

20 novembre 2020

Fonte: Finimondo

La solitudine nella promiscuità, tale è il destino del proletario. Dorme, mangia, viaggia, lavora e si riposa in massa. Fin dall'infanzia con la camera comune, il letto comune, l'asilo nido, la mensa, la scuola, l'officina, la caserma. E si conclude con la sala comune dell'ospedale o del manicomio, la zuppa in comune coi vecchi, la fossa comune. Molti bambini nelle città non si appartengono mai; prede di un controllo continuo, della presenza inevitabile della massa, non avranno un istante per isolarsi dalla costrizione sociale, per essere se stessi, per conoscere la sicurezza e il possesso di un proprio mondo, non avranno altro rifugio chiuso a chiave che il fetido bugigattolo dei cessi. Riparo precario del sogno, della conversazione con se stessi, di tutta l'inconfessabile intimità dell'essere con se stesso — succedaneo dell'utero materno, in cui si rifugia il timido, l'umiliato, per ritrovarvi silenzio, oscurità e pace. Il buen-retiro è la chiesa di coloro che non ne hanno una, la porta del giardino segreto, l'ultima fortezza dell'uomo.  

Più tardi il bambino del proletario imparerà altre evasioni. Quella dell'alcool innalza un muro tra il miserabile e la sua miseria, lo libera per un attimo dalla vergogna e gli procura un accesso immaginario verso se stesso o il suo simile, fuori dalla città implacabile e feroce. Quella dell'alcova annulla per un istante il suo povero universo o lo trasfigura attraverso la fraternità dei corpi. Esistono anche altre partenze più o meno illusorie, per scoprire l'ignoto, la libertà, l'umanità perduta. Però, man mano che la vita va avanti, diventa più difficile trovare il tempo libero per ritrovarsi o perdersi conquistando lo spazio. Il proverbio inglese conferma che il gin è la via più breve per uscire da Manchester.  

La condizione proletaria ha un altro sbocco oltre alla chiesa o al cabaret. È l'azione sovversiva, la comunità dei ribelli, la rivoluzione. Essa offre all'individuo un'altra possibile fortezza contro i tuguri, la stazione e la fabbrica, che lo riducono a una merda con la sua porta piena di buchi, decorata con disegni surrealisti e arricchita di testi automatici. Questa fortezza è l'orgoglio dell'Ideale anarchico. Tuttavia, per accedere alla pratica e all'ideale rivoluzionario, il proletario deve disporre del suo tempo libero. I governi odierni lo hanno capito perfettamente. Con la disoccupazione totale o parziale e con la riduzione della giornata lavorativa (che, spesso, non riesce a stroncare del tutto il suo uomo ed a farlo cadere inerte fino alla sirena del giorno dopo) si è sviluppata tra le istituzioni capitaliste l'arte più raffinata e più feroce della disumanizzazione governativa: mi riferisco alla militarizzazione del tempo libero.  

In Italia il Dopolavoro Fascista. In Germania la Kraft durch Freude. La società, incarnata nel governo totalitario, esige che l'individuo rinunci anche alle ore lasciate dal capitalismo. Allo sfruttamento organizzato della forza lavoro succede il recupero organizzato di queste stesse forze e così via. La schiavitù non ha più limiti, si estende all'igiene fisica e morale dell'uomo asservito, a tutta la sua vita, all'intero suo essere. L'opera di spersonalizzazione cominciata dal cinema, dalla stampa, dalla radio, dall'invasione universale della politica in tutte le sfere dell'attività, continua con la direzione governativa del tempo libero, che sopprime ogni possibilità di solitudine, di meditazione, di evasione, di conquista o di cultura individuali, esaurisce ogni velleità di indipendenza, stermina ogni indisciplina, stupra perfino l'intimità del sonno. Lo Stato mussoliniano o hitleriano ammonisce l'individuo «Dalla culla alla tomba, tu sei tutto mio: anche i tuoi sogni mi appartengono». Dopo lo sfruttamento capitalista dell'uomo economico-razionale, nella sua attività superficiale ed esteriore e rimossa, il fascismo sviluppa un'arte dello sfruttamento politico dell'inconscio, del latente e del rimosso. La forza sotterranea dei ribelli è catturata dal fascismo per i suoi scopi!  

Un ideale può vivere solo se in qualche misura viene praticato. Lo Stato totalitario proibisce a chiunque di praticare in qualsiasi forma un ideale diverso dal suo. E questo divieto non è in negativo. È in positivo. Si basa sul fatto che tutte le forze individuali disponibili, giorno dopo giorno, siano accaparrate dall'esercizio obbligatorio delle virtù civiche, dalla devozione patriottica, dalla religione di Stato. In nessun luogo il sistema è stato meglio sviluppato che in Russia. L'Italia e la Germania mantengono segretamente delle tradizioni politiche in qualche modo opposte all'ideale regnante. L'America ha visto il suo conformismo sociale venire scosso dalla crisi. In Russia, la controrivoluzione è onnipotente perché è stata in grado di monopolizzare al massimo le forze e le tradizioni rivoluzionarie. È la totale assenza di libertà che si manifesta attraverso il monopolio ufficiale dell'ideale libertario.  

[...]  

Pensateci, compagni! Tutto ciò che non sapremo risvegliare alla vita e alla libera attività, sarà un giorno catturato e usato dallo Stato contro l'umanità e la libertà. È giunta l'ora di opporre alla «razionalizzazione» autoritaria del lavoro e del tempo libero, l'applicazione rivoluzionaria di una psicologia della rivolta e della libertà.

André Prudhommeaux, Terre Libre n. 25, giugno 1936

Nessun popolo, per quanto docile sia per natura e per quanto abituato possa essere ad obbedire alle autorità, si rassegnerà volentieri a sottomettersi;
perciò, è necessaria una coercizione permanente; ciò vuol dire che sono necessarie la sorveglianza poliziesca e la forza militare.
Michail Bakunin

Se è vero che il linguaggio crea il mondo in cui viviamo, ed aiuta a comprenderlo, allora quello che si sta rispettando è un mondo terribile, come terribile può essere un mondo in cui il militarismo – e di conseguenza la guerra – sono gli aspetti preponderanti.
Se non bastasse il perdurare di uno stato di emergenza che si prolunga di decreto in decreto, e che tende a diventare perenne, è arrivato oggi il coprifuoco governativo.
La storia di questo termine richiama chiaramente tragici scenari, essendo di solito utilizzato in contesti di guerra oppure dittatoriali; entrambi casi in cui il ruolo repressivo svolto dai militari è comunque lampante. Ciò che sta accadendo è esattamente questo, un’impennata repressiva e di limitazione delle libertà personali in senso sempre più militaresco.
Dopo aver militarizzato le nostre menti con mesi di propaganda, durante i quali ci hanno bombardato con slogan quali “siamo in guerra” contro “un nemico invisibile”, ecco che il militarismo scende in campo nella
sua più classica versione fisica. Se già nelle grandi città esso è presente e ben visibile da diversi anni, col pretesto delle “Strade sicure”, oggi si materializza in ogni più recondito angolo della Penisola, come succede in questi giorni a Taurisano, in provincia di Lecce, col pretesto dell’alta percentuale di popolazione positiva al Covid, e con l’ipotesi molto concreta di schierare l’esercito per evitare assembramenti o controllare le possibili manifestazioni di piazza. E se, come nel caso di Taurisano, essi tenderanno a presentarsi nelle più rassicuranti vesti del camice bianco indossato sopra la più brutale tuta mimetica, ciò non deve servire a rassicurarci, quanto piuttosto a farci riflettere sul ruolo della scienza – medica ma non solo – e sul suo sempre più stretto rapporto col militarismo, la guerra
e la repressione. Col suo ruolo di governo, insomma, intendendo per governo il controllo e la sottomissione delle popolazioni.
Non è certo un caso che, da quando l’epidemia di Covid ha colpito l’Italia, le decisioni della Politica sul da farsi siano state sempre subordinate ad un Consiglio di scienziati: il Comitato Tecnico Scientifico, che annovera, tra i suoi membri, consiglieri di fabbriche di armamenti quali Leonardo – Finmeccanica. Sono gli stessi scienziati che portano avanti progetti di morte all’interno di numerosissime università italiane, guarda caso anch’esse sempre più a stretto contatto con gli eserciti, con varie collaborazioni.
È sempre più evidente quindi, la militarizzazione non solo delle nostre menti e delle nostre vite, ma dell’intera società in cui viviamo.
Ma quando la vita che ci prospettano è fatta di militarismo, e di conseguenza di guerra, i primi passi per opporsi sono la diserzione e la resistenza, quantomeno per non essere tacciati di collaborazionismo.

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