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Cosa raccoglie? Spesso e volentieri, l’obbedienza di molti. Talvolta anche gesti di rivolta, benché di pochi. A Brescia, ad esempio, sono stati appena raccolti i cocci di un paio di molotov lanciate di primo mattino contro un centro vaccinale. Secondo quella macchietta del presidente della regione lombarda, si è trattato di un «attacco ignobile». Definizione rovesciabile, giacché potrebbe venire usata anche dagli incendiari per motivare il loro gesto: la gestione politico-sanitaria-militare della pandemia dichiarata è un attacco ignobile alla libertà, condotto metodicamente e senza esclusione di colpi da un anno a questa parte. Si potrebbe aggiungere poi che l’obbligo vaccinale per il personale sanitario, appena introdotto dall’ultimo decreto governativo, ne è la più recente manifestazione.  Sia chiaro, noi non siamo affatto contrari all’uso dei vaccini. Anzi, tutt’altro! Dopo aver assistito allo sfoltimento fra i servitori dello Stato in divisa che si erano fatti inoculare la porzione magica, come potremmo protestare? No, no, ben vengano i vaccini, distribuiti a piene siringhe a tutti coloro che si fidano ciecamente della scienza, siano essi politici, agenti delle forze dell’ordine, militari, cittadini tremebondi per la propria misera sopravvivenza… Perché in fondo, dobbiamo pur ammetterlo, deve esistere anche la libertà di vaccinarsi. Il nodo è un altro. Che è inaccettabile che la vaccinazione venga imposta a chi non la desidera, poco importa se per motivi comprensibili o incomprensibili, condivisibili o meno. Affermare che questa coercizione sia necessaria per garantire la salute di tutti, che i sanitari che rifiutano di vaccinarsi mettono in pericolo i pazienti più fragili, è una palese assurdità. Il vaccino non rende immuni dalla malattia, né impedisce il suo contagio. Chi si vaccina può comunque ammalarsi e, di conseguenza, può trasmettere il virus. Non sono solo i sanitari cosiddetti no-vax a poter contagiare i loro pazienti, ma anche quelli sì-vax — come dimostra quanto già accaduto in diversi luoghi qui in Italia. Allora, che senso ha questo obbligo? Ha il senso di tutti gli obblighi, ovvero il senso di Stato. Qui non si tratta di contrastare una pandemia di natura biologica (o artificiale), ma di diffonderne una di carattere sociale. Non si cerca di combattere il Covid19, ma di sterminare il libero arbitrio. Un personale sanitario che non si vaccina è di per sé una critica ed una smentita alla propaganda istituzionale imperante, ed in quanto tale va fatto sparire. Con ogni mezzo, ricatto morale ed economico compreso. È la legge del padrone: «io ti pago e quindi ti possiedo, possiedo il tuo corpo, la tua vita e tutto ciò che hai attorno». Davanti ad ordini, minacce, ricatti c’è chi scatta sull’attenti, e chi invece…

4/4/21

Fonte: Finimondo

A chi non è mai capitato di salire una scala al buio? L'azione è come quel passo che, cercando l'ultimo gradino, trova invece solo il vuoto davanti a sé. L'azione, facendoci perdere l'equilibrio, ci parla di un'altra possibilità, ci parla di altre sensazioni, di un'altra percezione dello spazio, di un modo diverso di giocarsi la vita. Come quando il nostro ginocchio duole all'impatto inaspettato col pavimento. Tanto per chi la compie che per chi ne percepisce i riflessi nella propria vita, l'azione si accompagna all'assenza di certezze. Per chi direttamente si confronta con essa l'azione consiste in un giocarsi la libertà e la vita per un sogno. Per chi ne incrocia soltanto il percorso l'azione permette di rendersi conto di quanto poco e superficialmente pensiamo di conoscere il circostante. Come parlare dell'azione a distanza di molti mesi dal suo accadere? Una cronologia che risalga addietro nel tempo non rischierebbe di diventare un semplice accumulo di date e luoghi? Nell'omogeneità, anche grafica, dell'elenco non si rischierebbe forse di svilire l'unicità di chi agisce? Più tempo passa tra le singole uscite della pubblicazione, più questo problema si accentua, amplificandosi talvolta in maniera grottesca: pagine e pagine di azioni si rincorrono distruggendo nell'accostamento quantitativo i cristalli di qualità che l'azione vorrebbe proporre all'attenzione del mondo, contro il mondo. È nell'elenco che troviamo l'invito ad abbandonarci alla sensazione del vuoto? Se così fosse, non sarebbe di certo nell'anarchismo il luogo dove cercare un amore corrisposto per la massa e la quantità. Così, occorre per forza ascoltare le parole stesse che accompagnano l'azione, talvolta chiamate lugubremente rivendicazioni — rei vindicatio reclamo di qualcosa che si considera di propria proprietà — oppure si potrebbe prestare orecchio a se stessi, interrogandosi invece sulle conseguenze che l'azione ha sul nostro modo di pensare, di vedere e percepire il mondo? Chi materialmente compie l'azione è forse l'unica fonte possibile di riflessione riguardo ad essa e, conseguentemente, non ci resta altro da fare che discutere riguardo a chi appartenga l'azione e a chi sia stato (o, ancor peggio, a chi non sia stato)? Prurigine da questura da cui non farsi contagiare. Se l'azione è un dono, essa non può appartenere a nessuno per poter essere realmente di tutti. Che l'azione sia dono di vendetta contro l'oppressione o dono di liberazione ed invito alla rivalsa per chi l'oppressione la subisce quotidianamente, perché rinchiuderla in un possibile significato determinato? Chi vuol essere proprietario dell'azione, rivendicandola a sé nel suo spiegarla e specificarla, come può farne al contempo un granello di dubbio che vada a stuzzicare altre sensibilità? Non si rischia, a troppo voler chiarire, di cadere nell'incubo della costruzione della propria immagine pubblica, della propria identità, del proprio personaggio? Nel gettarsi in una prospettiva di liberazione totale a partire anche dal soddisfacimento del proprio desiderio di attaccare e di rifiutare la passività, senza attendere momenti storici opportuni e fantasmatiche masse, se fosse il sospeso, cioè lo sforzo di pensiero volto a cercare di ascoltare il sussurro dell'azione interpretandone il messaggio celato in essa da chi l'ha compiuta — o vedendone noi uno del tutto nuovo ed originale —, a riuscire a stimolare la selvaggia idea di poter riprodurre e moltiplicare quell'avvenimento che ci ha fatto osservare il mondo con occhi tanto differenti? La selva dell'attacco abbisogna davvero di radure intorno alle quali, per l'appunto, radunarsi? E se invece la selva restasse impenetrabile ed intricata, incomprensibile ai botanici che cercano di individuarne e classificarne i singoli alberi avvinghiati l'uno all'altro? Cosa scaldava i cuori, cosa incuteva più timore e senso di mistero, le antiche leggende silvane o i moderni erbari pieni di foglie essiccate e conservate, scialbi simulacri dell'antica linfa che vi scorreva una volta? Sentire qualcosa come proprio, rispecchiandosi crudamente nell'azione in se stessa, facendoci pensare che potrebbe essere stato un individuo come noi, con tutti i suoi limiti e le sue mancanze — che sentiamo anche nostre — ad averla portata a termine, non è forse un buon modo per non creare una distanza o una reverenza nei confronti di chi invece dimostra di saper usare come armi tanto le parole che i gesti? Per questo, più che la singola rivendicazione, sarebbe bello su queste pagine ospitare le mille riflessioni sull'azione: un caleidoscopio di mille sensibilità colpite da un unico evento, piuttosto che la singolarità della rivendicazione. Possibile che le parole che accompagnano l'azione possano così restare semplici e anonimi sussurri nella selva?

È disponibile il primo numero di Chrysaora, rivista anarchica bimestrale. A chi ha già preordinato delle copie si chiede di mandare l'indirizzo cui spedire il pacco a: chrysaora@autistici.org
Il prezzo è di 8 euro a copia (rivista e inserto), invece il prezzo del solo inserto, per chi ne volesse ricevere anche delle copie in più e separate dalla rivista, è di 2,50 l'uno.

In questo numero:
Autonomia Impossibile
- Silenzio assordante 
- Mappare il mondo 
- La landa desolata 
- Dall’AIDS al COVID 
- AIDS: la malattia come espressione delle fasi della civiltà 
- Scienza, Ragione e Cambiamento 
- La cultura della malattia
- Il culto della carogna
Distruzione Necessaria
- Ascoltare
- Silenzio, bruciano le antenne
- La tirannia della flessibilità
- Contro lo smartphone
- Immaginare il futuro
- Hai giocato a fare il sole?
- La dominazione materiale in epoca d’epidemia e la questione organizzativa
- Come combattere il Google-Campus
- Kropotkin, la Rivoluzione russa e la miseria della politica
- Introduzione a “L’ospite inatteso”
- Gli ingranaggi del tempo   

Questa rivista è solo cartacea e non vuole essere un soliloquio. Chrysaora è aperta ai contributi esterni ed alle critiche: tramite mail riceviamo notizie, segnalazioni di testi ritenuti validi ed interessanti, considerazioni su quanto fin qui pubblicato e gli ordini delle copie da spedire: chrysaora@autistici.org

Ieri è morto un bandito. Qualche anno fa, ad un'iniziativa della Libreria Ponchielli qua a Cremona, qualcuno comunicò la sofferenza del carcere e di una vita in fuga da questa società con le sue parole. Lo vogliamo ricordare così, sapendo benissimo che se il crimine di tutti i crimini è la libertà, stare dalla parte di chi svuota banche e non di chi le fonda è una scelta di vita.

Ci ho messo 50 anni a diventare comunista. 
E 20 anni 8 mesi e 1 giorno di prigione.
E 11 anni di carcere di massima sicurezza. E
5 anni di celle punitive. E la posta censurata.
E i vetri divisori ai colloqui. E le cariche
dei carabinieri nei corridoi delle prigioni. E
il sangue nelle celle. E il sangue dal naso. E il
sangue dalla bocca. E i denti rotti. E la fame
all’Asinara. E il silenzio obbligatorio al bunker 
della Centrale, a cala d’Oliva. E i racconti
dei torturati. E i colpi contro la porta per non
farti dormire. E i colloqui respinti senza un
motivo. E la posta sottratta. E il linciaggio del
vicino di cella. E il vivere col cuore in gola.
E la pressione che sale. E il cuore che senti
ingrossare. E il compagno che se ne va con la
testa. E le divisioni a 5 nei cortili. E le rotture
politiche. E le divisioni che teoricamente dovevano rafforzarci. 
E il dilagare del soggettivismo. E i vetri infranti ai colloqui. 
E le rivendicazioni coi pugni chiusi. E la ritirata strategica. 
E gli scioperi della fame condannati. E i sorrisi spariti. 
E i soggettivisti sconfitti. E gli odi tra compagni. 
E le demolizioni personali.
E la disgregazione umana. E le perquisizioni
anali. E le sei diottrie perse. E l’assalto coi cani
nelle celle. E i compagni colpiti da schizofrenia. E i primi tradimenti. E la massa di dissociati. E l’isolamento politico. E la piorrea che
avanza. E gli anni che passano e i giorni che
conti. E i silenzi, i silenzi, i silenzi.

Tratto da: La Farfalla. Versi rubati di Sante Notarnicola

A livello microscopico, la distruzione di autonomia e la riduzione degli spazi che determinano la propria vita, mediante l'introduzione di protesi sempre più tecnologiche, con le logiche conseguenti, non può che dar luogo — in proporzione al grado di lobotomizzazione e di appiattimento che ognuno subisce — ad una disperazione feroce. La ruota del progresso gira sempre più rapidamente. Se un tempo erano necessarie diverse generazioni per le vaste trasformazioni della società, oggi, nello spazio di una sola generazione, sembra quasi di non far parte dello stesso mondo. Una tale impennata di velocità richiede una inaudita capacità di adattamento dell'essere umano e non manca di produrre a sua volta un’intera gamma di «difetti» funzionali al mondo nel suo complesso, ad esempio sotto forma di nevrosi o malanni fisici. E dato che l'essere umano non vive isolato sopra una cometa, abitando sul pianeta Terra, qualsiasi assetto del suo «habitat» ne influenza le possibilità e la capacità di riflettere, ma anche di sentire ed agire. Questa non è ovviamente una peculiarità della società ipertecnologica che conosciamo: si potrebbe affermare infatti che ogni civiltà operi in questo modo. La domanda da porsi allora va un po' più a fondo: una drastica pianificazione dell'habitat non provoca una perdita di autonomia e una soppressione di libertà, ed ogni adeguamento non è in sé antinomico alla libertà? Ma simili domande superano di gran lunga le modeste riflessioni di questo articolo.

Se ci distacchiamo un po’ dalla vita quotidiana, e proviamo a pensare a un livello più macroscopico, l'estensione del moloch tecno-industriale, la «Megamacchina» come la chiamava Lewis Mumford, sembra andare di pari passo con un aumento della sua vulnerabilità. Più i sistemi sono complessi, più sono complesse le tecniche, più risultano vulnerabili ad un semplice guasto, ad un incidente, ad un imprevisto che non incide solamente su un componente isolato, bensì sull'intero sistema. Günther Anders lo riassumeva così: «Quanto più grande è la megamacchina, tanto più seriamente sono in pericolo i suoi pezzi, che, prima di essersi riuniti in essa, avevano funzionato come pezzi singoli», prima di dedurre logicamente che «Quanto più grande il complesso, tanto più grande la catastrofe se il complesso fa cilecca». Si tratta ovviamente di una tesi — o meglio, di una constatazione — da tempo considerata dagli ingegneri del sistema. La fragilità delle reti informatiche, la dipendenza da una rete elettrica centralizzata, la produzione intensiva finalizzata a limitare le scorte, l'interconnessione dei sistemi (anche dei più «vitali», come la distribuzione dell'acqua potabile, che dipende dal buon funzionamento delle pompe elettriche): tutto ciò continua ad ispirare migliaia di studi, progetti e strategie miranti ad aumentare la «resilienza» dei sistemi — non senza osservare amaramente che, davanti al progresso tecnologico, è un po’ come cercare di bloccare una perdita aprendo il rubinetto. La fragilità della megamacchina fa ormai parte del discorso diffuso sul «collasso», sull'ipotesi che il sistema tecnologico, per diverse ragioni che vanno dalla scarsità delle risorse energetiche ai cambiamenti climatici, si stia dirigendo verso un tracollo generalizzato. Pur senza avallare la versione «collassologa» — che, con alcune eccezioni, risulta essere utile sostenitrice del sistema attuale nel limitarsi a perorare l'organizzazione della sopravvivenza in attesa del diluvio, invece di concentrarsi sull'attacco o sull'insurrezione (anche nelle sue versioni più anti-autoritarie) — nondimeno dovrebbero essere presi in considerazione tutti i fattori. Solo pensando al mondo nel suo complesso le nostre prospettive possono diventare più pertinenti, non semplicemente elaborando progetti sulla cometa o accontentandoci delle nostre perenni fantasticherie ribelli. Pensare l'insurrezione senza considerare la questione delle metropoli, del cambiamento climatico, dell’appiattimento culturale, degli odii settari o del cannibalismo sociale che cova, eccetera eccetera, appare perlomeno ridicolo. Di fronte all'accelerazione dei rovinosi fenomeni climatici e alla frenetica corsa in avanti di un industrialismo devastante, le riflessioni dei critici anarchici del potere — di qualsiasi genere — potrebbero assumere una profondità inaspettata sulla questione dell'autonomia o della libertà, a condizione di sbarazzarsi del cadaveri che continuano ad intralciare l’anarchia: il programmatismo, la paura dell'ignoto, il vittimismo preso a prestito dalla sinistra, il determinismo preso a prestito dal materialismo marxista,... C'è ancora un lungo cammino da fare.  

«Non sorprende che il complesso del Potere sia messo particolarmente sotto pressione in diversi ambiti. Per quanto al riparo da attacchi frontali, a meno che non siano sferrati da un altro sistema di potere della stessa dimensione, questo gigante è piuttosto vulnerabile ad attacchi locali di guerriglia e ad incursioni ostili, contro cui le sue mastodontiche strutture risultano indifese alla stregua di un impacciato Golia con la sua pesante armatura rispetto a un agile Davide che ha ben altre armi e non attacca la stessa parte anatomica»  Lewis Mumford, Il Pentagono del potere 1970

Che dire della fragilità della megamacchina? È reale, o è uno dei tanti fantasmi che hanno accompagnato un mucchio di rivoluzionari nel loro percorso, come lo sono state le fole della missione storica del proletariato, delle insormontabili contraddizioni create dal capitale, del risveglio sempre possibile delle masse naturalmente addormentate, della rivoluzione immaginata come l’affare di una «grande sera», della progressiva scomparsa del massacro e dell'odio in seno all'umanità o della funzione catartica delle guerre e delle catastrofi? C'è poco da elettrizzarsi. Una vasta rivolta come quella in Cile nel 2019 non è sfociata in un'insurrezione aperta. Le sommosse nel mondo arabo sono state soffocate nel sangue e hanno generato mostri altrimenti atroci. La moltiplicazione di sabotaggi di ripetitori o di fibre ottiche non ha causato un crollo istituzionale o economico. Il che non toglie che siano stati sferrati indubbiamente dei colpi. Non saranno stati mortali, tuttavia mostrano nel contempo la loro insufficienza ed il loro potenziale. Per valutare la fragilità (che non è sinonimo di «rivoluzione sociale», quanto di possibilità di libertà, di espansione del caos da cui possa emergere l'ignoto, nel «bene» come nel «male»), osserviamo un po’ più da vicino uno dei crinali nevralgici della megamacchina: la rete elettrica. L’8 gennaio 2021 alle 13:04, i sistemi di allarme sono passati al rosso quando la rete elettrica europea ha subìto un’improvvisa caduta di frequenza della corrente alternata (50 hertz). L'incidente all'origine di questa variazione di frequenza non è stato chiarito, ma molto probabilmente è stato causato dall’avaria di un interruttore automatico (incidente, guasto, sabotaggio,... nulla è stato spiegato al riguardo) in una sotto-stazione di trasformazione in Croazia. Ora, si dà il caso che non solo la rete elettrica europea è interconnessa da Varsavia a Parigi e da Istanbul a Copenaghen, ma inoltre che, per assicurare il funzionamento della rete, la sua frequenza deve essere stabile; e per far sì che rimanga tale, occorre che l’equilibrio tra produzione e consumo energetico sia garantito in modo permanente. La rete quindi deve far fronte alle fluttuazioni o immettendo più elettricità, oppure riducendo temporaneamente il consumo globale, in particolare quello dei grossi utenti. Per stabilizzare la rete nel mese di gennaio 2021, è stato quindi necessario sconnettere con urgenza diversi siti industriali in alcuni paesi (soprattutto in Italia, Francia, Austria, Romania,...), ma anche tagliare parecchie linee d’alta tensione (14 in tutto), poiché quando queste non hanno la tensione appropriata, l'elettricità trova rapidamente un’altra via (verso altre linee) col rischio di un sovraccarico. A quel punto tutte le linee della rete elettrica si trovano esposte ad un effetto a catena. Se da parte austriaca il portavoce del responsabile della rete elettrica EVN ha parlato di un «quasi black-out» qualificando l'incidente di livello 3 (su 4) secondo la classificazione europea ENTSO-E («Emergenza. Situazione di avaria e divisione della rete su vasta scala. Elevato rischio per i sistemi vicini. Non applicazione dei principi di sicurezza. Allerta generale dell'intera rete»), il gestore francese RTE si è da parte sua vantato delle proprie «barriere di difesa» in grado di sconnettere grandi siti industriali e aumentare la produzione elettrica delle sue centrali a gas o delle dighe idroelettriche. Ma resta il fatto che la vulnerabilità della rete europea, un mastodonte che merita appunto la qualifica di «megamacchina», è incontestabile, soprattutto a causa delle sue dimensioni e della sua centralizzazione. Si noti inoltre che le nuove fonti energetiche (eolica e solare), per principio intermittenti, non possono assolvere a tutte queste variazioni di frequenza o alle richieste di immissione di più energia, funzionando solo quando sono sostenute da una produzione di elettricità più «convenzionale» (come le centrali a carbone o a gas). La loro moltiplicazione sul territorio costituisce quindi un altro fattore di instabilità e di fragilità della rete elettrica. Per far fronte a tali intoppi, sono in corso di costruzione un po’ dovunque progetti di megabatterie in grado di immagazzinare elettricità da immettere nella rete qualora sia necessario, ma la cui efficacia resta un punto interrogativo. In Francia, RTE nell'estate 2020 ha avviato la costruzione di megabatterie in alcuni siti, a Vingeanne (Côte-d'or), Bellac (Haute-Vienne) e Ventavon (Hautes-Alpes), oltre al suo progetto di un sito di produzione e stoccaggio di elettricità con l’idrogeno a Fos-sur-Mer (Bouches du Rhône). Questo «incidente» con le sue notevoli conseguenze in una semplice sotto-stazione locale di trasformazione, ricorda un altro fatto piuttosto eclatante accaduto dall'altra parte dell'Atlantico. La notte del 17 aprile 2013, verso l’una del mattino, qualcuno si introduce in un locale tecnico proprio accanto alla sotto-stazione elettrica di Coyote (in California) e trancia alcuni cavi in ​​fibra ottica. Ci vorrà un bel po' di tempo perché l'operatore se ne accorga. Dieci minuti dopo, un'altra serie di cavi viene tagliata in un locale tecnico nelle vicinanze. Trenta minuti dopo, la telecamera di sicurezza della sotto-stazione rileva una scia di luce lontana. Gli investigatori capiranno in seguito che si trattava di un segnale luminoso proveniente da una torcia elettrica. Subito dopo — ovvero all’1:31 — la telecamera registra in lontananza un flash di fucilate e le scintille dei proiettili che colpiscono la rete della recinzione. Tutta questa azione davanti alla telecamera attiva un allarme. È l’1:37, pochi minuti dopo l'inizio degli spari. All’1:41, il dipartimento dello sceriffo riceve una chiamata: è l'ingegnere della centrale che ha sentito gli spari. Lo sceriffo arriverà 10 minuti dopo, quando tutto è nuovamente tranquillo. È giunto un minuto dopo che un altro segnale luminoso emesso da una torcia decretava la fine dell'attacco. Ma su cosa sparavano i misteriosi assalitori? Sugli enormi trasformatori della sotto-stazione. Questi ultimi sono infatti oggetti fisicamente semplici, trattandosi di grossi gomitoli di fili di rame in grandi gabbie metalliche. Siccome i trasformatori si scaldano enormemente, dispongono di serbatoi contenenti il ​​loro indispensabile liquido refrigerante. Ed è proprio contro i serbatoi che sono stati sparati i colpi, crivellandoli con centinaia di fori attraverso i quali è fuoriuscito il prezioso liquido. La polizia giunta sul posto non si era accorta di nulla, mentre più di 200.000 litri di olio scorrevano fuori lentamente. In poco tempo, i trasformatori si sono surriscaldati e sono esplosi: 17 su 21 della sotto-stazione fuori servizio. Ne sarebbero bastati un altro paio per far piombare immediatamente la California nel buio. Nell’occasione, la compagnia elettrica è stata in grado di aggirare rapidamente quella sotto-stazione. La Silicon Valley ha continuato a ricevere elettricità, benché sia stata costretta per quel giorno a ridurre il consumo di energia. Il danno è stato riparato in 27 giorni. Per stessa ammissione dell'FBI, che ha precisato che «non occorre un alto grado di formazione o di accesso alla tecnologia per condurre un attacco del genere», se nello stesso lasso di tempo fossero state colpite altre sotto-stazioni, impedendone in tal modo il riassetto, sarebbe stata tutta un’altra storia.

In materia di «black-out», in un recente dossier speciale della Rivista militare svizzera (n. 5, 2018), alcuni ingegneri e graduati hanno lanciato un avvertimento in relazione alla fragilità della rete, con lo sviluppo di vari ipotetici scenari al riguardo. Le loro conclusioni? A prescindere dalle cause di un tracollo della rete elettrica, la situazione potrebbe essere grosso modo questa: se il black-out durasse solo un giorno, il recupero sarebbe rapido. Oltre le 48 ore, il recupero della rete sarebbe più difficoltoso, se non addirittura impossibile, dal momento che gli stessi strumenti che gestiscono le reti hanno bisogno d’essere alimentati elettricamente, disponendo dai 2 ai 5 giorni di autonomia. Esaurita la batteria, qualcuno si deve materialmente recare sul posto a riavviarli sincronizzandoli col resto della rete. Se non si riuscisse a ripristinare entro 5 giorni, quest'ultima non sarebbe in grado di funzionare senza un intervento esterno. Quando il black-out è regionale, ci sono servizi di emergenza e di riparazione che possono essere inviati sul posto. Qualora fosse nazionale o continentale, la situazione potrebbe perdurare e infine rivelarsi fatale per tutta la rete.  

Un altro esempio, questa volta tratto dal mondo digitale. Il 10 marzo 2021, un incendio si è sviluppato nel data-center di Strasburgo della OVH, il più grosso provider in Francia. L’incendio sarebbe cominciato nella parte inferiore dell'edificio, che ospitava gli impianti di alimentazione elettrica. Questo è ciò che la stessa azienda ha indicato come causa: un inverter (un regolatore della frequenza elettrica) avrebbe preso fuoco. Se questa spiegazione è plausibile, lo diventa meno quando si apprende dai rapporti dei dipendenti e dei vigili del fuoco che il fuoco si è propagato in maniera estremamente rapida, facendo ovviamente pensare a più focolai. In breve, tutti possono speculare sull'origine di questo incendio, le autorità possono dichiarare ciò che preferiscono (è pur sempre il principale provider di Francia, la punta di diamante nel settore dei data-center), ma un'origine assai meno «accidentale» resta altrettanto plausibile. Tanto più che in tutto il mondo è oltremodo raro vedere dei data-center consumarsi interamente tra le fiamme a seguito di un guasto tecnico. Ciò detto, che si sia trattato di un guasto o di qualcosa d’altro, il risultato è stato molto «palpabile» (ci perdonerete un termine così obsoleto per il mondo virtuale). Centinaia di migliaia di siti fuori linea, enormi perdite di dati per imprese e istituzioni. Come una mini-apocalisse tra le nuvole dei server. Non c’è neppure bisogno di elencare tutti i dettagli per cogliere la vulnerabilità, per l’appunto, della megamacchina informatica; con una parte non trascurabile dipendente infatti da una singola struttura fisica, a sua volta dipendente da impeccabili collegamenti in fibra ottica e da un costante approvvigionamento di elettricità (dato che i gruppi elettrogeni di emergenza non possono sostituire completamente la rete). Gli ultimi mesi offrono tra l’altro ripetuti esempi supplementari della vulnerabilità delle reti digitali. Sia che si pensi all'interruzione di ripetitori o dii trasmettitori che tagliano le comunicazioni di milioni di persone (come è stato il caso dell’incendio del trasformatore a Marsiglia nel dicembre del 2020 o quello di Limoges nel gennaio del 2021), ai sabotaggi degli snodi di raccordo in fibra (come l’attacco a Crest di febbraio), oppure ai tagli manuali o incendiari di fibre ottiche (come a Pierrelatte in questo mese), diciamo che la stessa fragilità può riguardare tutte le reti, compresa quella elettrica che alimenta tutto ciò che sfrutta, devasta e controlla. Ma affinché la comprensione si trasformi in azione incisiva, dovremo sbarazzarci di quei fantasmi che ancora infestano le nostre menti e capire, con tutto ciò che questo implica, che ci troviamo in territorio ostile e dovremmo perciò agire di conseguenza. Con la gioia in corpo e la libertà nel cuore.

Avis de tempêtes, n. 39, 15/3/21

Traduzione: Finimondo

Domani è il 150esimo anniversario della Comune di Parigi. Noi vogliamo ricordarlo così...

Prima di illustrare gli episodi più salienti di questa rivoluzione che, pur rapida come una meteora, lasciò un solco così profondo, sarà pregio dell'opera riassumere brevemente i fatti da cui scaturì e che la legittimano anche al cospetto di coloro i quali – ben diversi da noi – non ritengono legittime contro qualsiasi forma di governo tutte le rivoluzioni popolari.

Ma noi dobbiamo fin da ora rilevare che l'insurrezione vittoriosa a Parigi conferì, secondo le tradizioni rivoluzionarie e governamentali, un carattere di regolarità al potere che, dopo la fuga di Thiers e dei suoi giannizzeri, si era costituito.

Non v'è dubbio: la Comune eletta dal popolo vittorioso fu il governo ufficiale; e che tale si ritenesse essa stessa è dimostrato dalla sua costante preoccupazione di legiferare. E se non esercitò la sua giurisdizione su tutto il territorio della Francia lo si deve soltanto al mostruoso accordo della Vandea versagliese e delle orde prussiane che, mantenendo il blocco intorno all'irrequieta capitale, gliene sbarrarono la via.

D'altra parte gli uomini che afferrarono per primi le redini del movimento – di cui non avevano del resto preso l'iniziativa – si mostrarono molto più solleciti a coprirsi di galloni che non ad estendere l'azione rivoluzionaria annodando subito colla provincia l'intesa senza di che si doveva affogare nell'accidia e nell'impotenza più disperate...

Durante i dodici giorni che seguirono il 18 marzo essi rimasero in uno stato di sbalordimento assoluto, come assorbiti dalla loro muta contemplazione, senza riflettere che Thiers raccoglieva a Versailles un esercito; che mandava a prendere alla banca di Francia in Parigi il soldo per le truppe; senza opporsi alla partenza di parecchi reggimenti che il 23 marzo stazionavano ancora ai giardini del Lussemburgo, alla stazione di Saint Lazare, in qualche punto interno delle fortificazioni; senza occupare neppure il forte del Mont-Valerien, di cui gli insorti di Suresnes e di Puteaux ad essi segnalavano l'inconcepibile abbandono.

Questi errori, molti altri errori anche più gravi, permisero a Thiers di preparare tranquillamente il massacro dei parigini.

Non anticipiamo: accerteremo più innanzi le responsabilità varie e gravissime, quelle soprattutto dei parecchi capi civili e militari i quali, invece di studiarsi a fronteggiare da ogni lato il nemico, passavano il loro tempo ad ispezionare i cori dell'Opera o a pavoneggiarsi – costellati di galloni e di chincaglierie fin sopra i capelli – ai concerti delle Tuileries e del Campo di Marte a braccetto colle eleganti mondane del giorno.

Lo diciamo con irremovibile convinzione: se tutti i capi della Comune avessero avuto il carattere di Delescluze e di Varlin, il coraggio di Flourens, di Duval, di Cipriani, il glorioso avanzo delle monarchiche galere italiane, se come questi avessero preferito il crepitar secco delle fucilate all'allegro scoppiettio delle bottiglie di Champagne, se fossero stati decisi a seppellirsi sotto le rovine di Parigi piuttosto che abbandonarla ai versagliesi, la Comune vittoriosa avrebbe potuto far impiccare Thiers, Favre ed i loro complici come traditori... ed i prussiani atterriti avrebbero, per ritirarsi, accettato condizioni meno umilianti per noi di quelle che i traditori del governo di Difesa Nazionale ci suggellarono tra gli occhi come una vergogna.

I

La guerra del 1870 fu causata dalla scellerata imbecillità di Napoleone III. Questo triste sire, la cui presunta intelligenza non era che perfidia, si lasciò stupidamente burlare da Bismarck, che mirava ad assegnarci la parte di aggressori per staccare da noi ogni alleanza nell'eventualità della guerra a cui si preparava da lunga mano.

Era evidentemente impossibile che un politico profondo come Bismarck pensasse seriamente ad innalzare sul trono di Spagna un principe tedesco. Egli doveva conoscere troppo bene l'odio tradizionale degli spagnoli contro ogni dominazione straniera e la loro tenacia patriottica, per andarsi ad ingolfare tra le popolazioni indocili che avevano cacciato il re Giuseppe e gli eserciti mandati da Napoleone I a sostenerlo.

Napoleone non s'accorse dell'agguato che gli si tendeva, non comprese che la Germania a cui mancava una marina sufficiente, che non ha colla Spagna contatti limitrofi, non poteva esporsi all'eventualità di sostenere un principe tedesco in un paese in cui non poteva, senza il consenso della Francia, mandare neppure un soldato.

Ma, oltre a non possedere un grano di discernimento, l'uomo del 2 dicembre era nel 1870, come tutti i giocatori disperati, spaventato della crescente impopolarità del suo governo, e tentò la sorte anche col rischio di trascinar la Francia nella propria rovina. Un ufficiale gli aveva fatto credere, accarezzando le sue ridicole presunzioni in materia d'artiglieria, che con poche mitragliatrici segretamente fabbricate e sperimentate a Meudon si potevano distruggere gli eserciti prussiani colla stessa facilità con cui i mietitori falciano il grano maturo.

Contando unicamente su questi gingilli, Napoleone di contrabbando ebbe la follia di dichiarare la guerra. Ignorava che i prussiani possedevano cannoni capaci di lanciare la mitraglia a cinquemila metri mentre le sue mitragliatrici attingevano a mala pena i millecinquecento metri.

Tuttavia, per distrarre dal suo capo le responsabilità di una possibile disfatta, ebbe la perfidia di far urlare da qualche strillone salariato e dalla stampa greppaiola: A Berlino! a Berlino! tanto per poter dire, occorrendo, che a dichiarare la guerra l'aveva trascinato il popolo.

Parigi più direttamente minacciata dalle probabili avversità di simile follia trasse da questi preliminari le ragioni prime del malcontento, a cui s'aggiunsero più tardi quelle che in seguito vedremo e determinarono le insurrezioni del 4 settembre 1870 e del 18 marzo 1871.

II

I rovesci successivi del nostro esercito, l'attitudine ignobile dell'Imperatore a Sedan, irritavano tanto più il popolo che generali e ministri insieme col loro sovrano avevano più ostinatamente voluto la guerra, garantendo "a cuor leggero" che noi eravamo preparati a sostenerla colle migliori garanzie di buon successo.

La Francia intera fu stretta da una violenta indignazione; essa che la guerra stupida non aveva voluto si mostrò disposta a tutti i sacrifici per continuarla. Ripudiò la capitolazione vergognosa proposta in suo nome, e strappando agli artigli dell'impero la sua bandiera, proclamò la Repubblica.

Come nel 1848, a far la rivoluzione fu il popolo, non i politicanti che avevano brigato l'onore ed il mandato di farla. Gambetta ebbe l'impudenza di gridare agli invasori del Palazzo Borbone: Non fate la rivoluzione! Gambetta, che la sua elezione aveva sollecitato e raccomandato a formali impegni rivoluzionari!

Disgraziatamente, per una deplorevole incoscienza, si permise ai traditori – di cui si ripudiavano i consigli – di impadronirsi del potere, e la missione di difendere la Repubblica francese si commise a coloro che avevano puttaneggiato coll'Impero e gli avevano giurato fedeltà.

Cosa anche più strana, e che denunzia lo scompiglio suscitato dalla paura dei prussiani, Blanqui ed i suoi adepti offrirono «il loro concorso il più energico, il più assoluto» agli usurpatori della rivoluzione: ai Jules Fave, ai Picard, ai Glais-Bizouin, ai Garnier Pagès, ai Cremieux, ai Ferry, ai Gambetta, ai Jules Simon, agli Arago, ai Pelletan, ai Trochu, ai Rochefort; offerta di cui del resto non fu sdegnosamente fatto alcun conto.

I blanquisti, e Delescluze con essi, mostrarono in questa circostanza un'assoluta miseria di previdenza e di energia: non compresero che la Francia non poteva essere salvata che da un immenso impeto rivoluzionario di cui erano fatalmente incapaci i vassalli dell'Impero.

Imbevuti d'autoritarismo governamentale e preoccupati della difesa nazionale vollero ad ogni costo, anche a costo di veder truffata la rivoluzione, l'accentramento delle forze nelle mani di un governo purchessia; l'irrompere delle iniziative popolari, solo mezzo di salvezza, parve ad essi un pericolo, e non osarono provocarlo. Errore enorme che li condannò definitivamente all'impotenza, anche per opporsi al manifesto tradimento preparato dal Trochu, dal Favre, dal Ferry e dai loro consorti...

Tuttavia il 31 ottobre 1870, alla notizia del tradimento di Bazaine e della presenza di Thiers venuto per negoziare con Bismarck, un brivido di collera serpeggiò per le grandi arterie della capitale; ma né Flourens, né Blanqui, né Delescluze seppero profittarne... Padroni della situazione se ne lasciarono sloggiare da un battaglione delle guardie mobili...

Il 28 gennaio Parigi, dopo qualche tentativo d'insurrezione prontamente represso, capitolava... L'indomani 29 gennaio 1871 si leggeva sui muri di tutte le città francesi il dispaccio ufficiale che annunziava la convocazione degli elettori con «limitazione strettissima dei poteri dell'eligenda assemblea, alla questione della pace e della guerra»...

L'1 marzo i prussiani entravano a Parigi.

III

I cannoni erano sotto la custodia di pochi popolani, quando il 18 marzo 1871 dopo le quattro del mattino le truppe attaccarono il parco rivoluzionario d'artiglieria.

Parigi era ancora immersa nel sonno.

Il colpo di mano era riuscito così felicemente che Clemenceau alle sei s'affrettava a portare le sue felicitazioni ai generali che l'avevano audacemente osato.

Ma verso le otto un'onda immensa di popolo, donne e bambini invadono il colle, si disperdono fra i soldati impedendo che i cannoni già aggiogati siano portati via. Dopo qualche parziale conflitto le truppe sono respinte o fanno causa comune col popolo.

Il governo atterrito si decise ad abbandonare la capitale colle poche forze che gli restavano, abbandonò anche il forte Mont-Valerien.

Qui torna opportuna una limpida constatazione: senza l'iniziativa della folla anonima, senza l'insurrezione spontanea delle masse proletarie, Thiers sarebbe riuscito nel suo attentato, avrebbe disarmato il popolo.

Perché il Comitato Centrale non era all'erta, non aveva fatto nulla per evitare la sorpresa, non partecipò alla ripresa dei cannoni, al trionfo della Rivoluzione che metteva il governo in fuga.

Fu ancora la folla mischiata a pochi soldati che fece giustizia di Clement Thomas e di Lecomte che il Comitato Centrale e parecchi ufficiali della Guardia Nazionale volevano risparmiare malgrado l'ordine dato da questi due generali di massacrare la folla senza pietà.

Apprendendo la duplice esecuzione, ciò che a Parigi restava del governo scomparve. Tutto: ministri, generali, deputati filarono rapidamente a Versailles.

E, colpevole incuria, il Comitato Centrale che accaparrava già il potere li lasciò partir tutti non sognando che di ristabilire la calma, mentre avrebbe dovuto stimolare il pubblico sdegno a distruggere coloro che dovevano più tardi sgozzare i parigini.

L'indomani, 19 marzo, invece di spingere su Versailles la popolazione e le guardie nazionali, il Comitato Centrale perse il suo tempo a fare del parlamentarismo, a distribuirsi i ministeri. Non pensò che ad imbastire un nuovo governo, a bandire le elezioni. Tutto ciò mentre urgeva inseguire il nemico, rompere le trame che si ricostituivano. Le forze non mancavano: più di centomila uomini erano in armi, più di ottanta cannoni in ordine... mentre Thiers non aveva intorno a sé più di ventimila uomini!

Il Comitato si lasciò dominare da Clemenceau, da Malon, da Cournet, da Tolain che pur riconoscendo la legittimità dell'insurrezione reclamavano come deputati di Parigi la direzione del Movimento...

Dopo parecchi indugi si riuscì a fare le elezioni il 26 marzo; vi parteciparono 230 mila elettori ed il 28 marzo la Comune era costituita tra le acclamazioni di Parigi in delirio. Vedremo presto come la Comune abbia risposto a questi entusiasmi.

IV

I primi atti della Comune provarono subito che, come il Comitato Centrale, essa non aveva compreso l'urgente necessità di finirla coi versagliesi; essa non seppe neppure farsi rispettare dal Comitato Centrale  lasciandogli comprendere che la sua missione era finita.

Come quest'ultimo, la Comune non s'occupò affatto di mettersi in comunicazione colla Provincia: si mise ad accumulare decreti su decreti fino al momento in cui, il 2 aprile, gli obici che si erano lasciati accumulare a Versailles cominciarono a piovere su Parigi sorpresa e come uscita da un sogno.

Il popolo, sempre all'avanguardia, voleva marciare immediatamente su Versailles; centomila uomini sono pronti ma la Comune esita, discute in luogo di agire sotto l'impulso popolare; non comprendendo una jota di questioni militari deve riferirsene ai suoi generali d'occasione: Bergeret, Eudes e Duval di cui deve riconoscere ben presto l'insufficienza; e si decide allora a nominare Cluseret ministro della guerra.

Ma tutti questi indugi avevano spezzato lo slancio della massa: 25.000 appena si misero in marcia, senza artiglieria quasi, e senza capi sperimentati.

Eudes si limitava a gridare: Avanti! Avanti!; Duval si moltiplicava, riusciva a far rinculare il generale Dubarrail, ma non giungeva che a farsi fucilare da Vinoy.

Durante questo tempo Flourens era sorpreso a Chatou da una pattuglia di gendarmi e periva miseramente per mano del capitano Desmaret, e così si compiva questa sortita del 3 aprile che, fatta il 19 o il 20 marzo, avrebbe dato la vittoria ai parigini.

La disfatta scatenò recriminazioni ardenti in seno alla Comune e contro il Comitato Centrale. In fondo la colpa era di tutti: gli uni erano colpevoli di non avere opportunamente utilizzato lo slancio del popolo costretto ad esaurirsi nell'inazione; gli altri di essere sortiti senza munizioni, senza un numero sufficiente di cannoni quando potevano disporre di oltre 250 pezzi d'artiglieria, con cui avrebbero potuto sbarazzare il terreno su tutto il percorso da Parigi a Versailles ed aprire così la marcia dei battaglioni sul nemico accampato a breve distanza.

Tuttavia Parigi non si sgominò, fece prodigi di valore per allontanare il nemico dai suoi bastioni, Dombrowski che aveva sostituito Bergeret ottenne successi importanti malgrado l'assoluta mancanza di direzione da parte di Cluseret e del Comitato che continuava a partorir decreti quando occorreva occuparsi soltanto di combattere e di fornire, senza interruzione, rinforzi e munizioni ai battaglioni impegnati col nemico. Lasciati in abbandono, i federati dovettero ancora ripiegare.

La Comune ebbe allora il torto di lasciarsi burlare da pretesi conciliatori che in suo nome aprivano trattative di componimento amichevole coll'unico risultato di veder diminuita la sua autorità morale, riaccesa la fiaccola delle intime discordie. I versagliesi approfittarono soli di questi atteggiamenti che a Thiers, il quale continuava a lanciar su Parigi bombe incendiarie, permisero di raccogliere un esercito di 125.000 uomini con trecento pezzi d'artiglieria.

Il progetto di un attacco generale da parte degli assedianti era ormai apparso manifesto. Malgrado quest'evidenza la Comune ed i suoi generali non presero alcun provvedimento per l'eventualità di un'irruzione del nemico in Parigi. Nessuno pensò ad utilizzare le mine su tutto il percorso che gli assalitori dovevano seguire prima d'arrivare nel centro della capitale. Si lasciò troppa licenza a Cluseret di trascinare la sua inutilità assoluta e le sue ridicole presunzioni attraverso i dicasteri della guerra di cui voleva soprattutto accaparrare – come aveva tentato già a Lione presso il Comitato Federativo – la direzione finanziaria.

Si lasciò andare insomma ogni cosa alla ventura, senza arrestare neppure il funzionamento delle amministrazioni anteriori che, in piena rivoluzione, non avevano più alcuna ragione d'essere. Si volle governare il popolo in luogo di sguinzagliarlo, e ciascuno pretese condurlo a suo modo...

V

Il 1 maggio 1871 si eleggeva il Comitato di Salute Pubblica nelle persone di Ranvier, Arnaud, Léo Meillet, Pyat e Girardin.

La Commissione esecutiva prima di cedere il posto al Comitato di Salute Pubblica aveva fatto giustizia dell'arroganza imbelle di Cluseret e gli aveva sostituito Rossel.

Il nuovo delegato alla guerra pareva animato dalle migliori intenzioni, ma si limitò a sterili agitazioni. Nulla fu disposto per la battaglia entro Parigi, l'unico punto ormai in cui si potessero vincere i versagliesi.

Riconoscendosi bentosto incapace malgrado l'aria di pretensione, Rossel dimissionò ributtando la colpa del disordine sulla Comune stessa e sui diversi comitati che si contendevano la supremazia...

Thiers era ormai padrone della situazione: aveva rimpinzato Parigi di  spie, di agenti provocatori che seminavano dovunque la confusione. Delescluze a cui si era affidata, in extremis, la direzione suprema delle cose non poteva più rimediarvi.

Allora si pensò a distrarsi demolendo al suono della Marsigliese la Colonna Vendôme, senza riflettere che sarebbe stato assai più utile preparare la distruzione degli eserciti versagliesi nel cuore di Parigi.

E Thiers bombardava ancora, bombardava sempre; pure, malgrado il breve numero dei difensori che stavano sui bastioni, la difesa era ostinata. Dombrowski faceva prodigi di tenacia. Ma sotto la pioggia assidua degli obici e della mitraglia la costanza vacillò ed i bastioni si sguarnirono abbastanza da permettere ad un miserabile, chiamato Decatel, di arrampicarsi sul bastione n. 64 alla porta Saint Cloud e di gridare agli assalitori: «Entrate dunque! non v'è più alcuno!».

In questa stessa ora in cui il nemico rientrava a parigi, Vaillant, membro della Comune, delegato alle Belle Arti, presiedeva una prova di cori dell'Opera come se in quell'ora ci fosse altra arte utile e bella all'infuori dela guerra e delle armi!

Alla Comune, che avrebbe dovuto occuparsi di minar Parigi, di costruire quanto meno delle barricate, si continuava a discutere, o piuttosto a recriminare.

Si lasciò che i soldati di Versailles penetrassero tranquillamente fra le mura malgrado gli sforzi eroici di Dombrowski a cui non si mandavano rinforzi, a cui si lanciava più tardi l'accusa di tradimento per scaricare dalle loro terribili responsabilità i diversi comitati e gli uomini dell'Hôtel de Ville [municipio].

Allora, ma allora soltanto, si pensò alle iniziative popolari, ad armare coloro cui si erano precedentemente ricusate le armi, ma era tardi.

Non racconteremo gli assassini, le stragi spaventevoli perpetrate dai soldati dell'ordine; nessuno ignora le istruzioni sanguinarie date da Thiers ai suoi giannizzeri, nessuno ignora come furono adempiute dai generali che dopo avere vilmente capitolato dinnanzi ai Prussiani vollero lavare la loro infamia nel sangue del popolo di Parigi, tradito, vinto e disarmato.

Noi abbiamo voluto dimostrare in questa sommaria relazione dei fatti che la responsabilità dell'inazione di Parigi dopo la vittoriosa rivoluzione del 18 marzo 1871; che le responsabilità della disfatta finale, incombono su uomini d'autorità che si sforzarono di accaparrare il movimento e le cui ambizioni rivali germogliarono le discordie e gli indugi da cui le forze rivoluzionarie si trovarono immobilizzate.

In noi è questo nudo desiderio, che il popolo nelle nostre parole attinga un ammonimento per la prossima rivoluzione: esso non deve contare che su se stesso, né soffrire mai che si arrestino i suoi impeti spontanei e generosi.

È bene che tutti lo sappiano: le aspirazioni della massa sfrenata sono sempre più conformi al vero interesse pubblico che non quelle degli ambiziosi e dei pedanti.

VI

Prima di finire, una parola sulle insurrezioni parziali dei dipartimenti.

Come la Comune di Parigi ebbe il torto grave di non annodare comunicazioni colla Provincia, o almeno colle città insorte, le Commissioni che diressero i diversi moti provinciali ebbero il torto di non tenersi in costante rapporto tra di loro per combinare un'azione comune. Quest'intesa avrebbe ispirato nelle popolazioni una maggiore confidenza ed avrebbe impedito le debolezze che si manifestarono particolarmente a Tolosa.

È vero che da Narbona furono inviati delegati alle vicine città per invitarle ad insorgere ma, disgraziatamente, ad eccezione di Perpignan non si trovarono che uomini, come Jules Guesde e Marcou per citare un esempio, i quali preferirono restare nell'inazione piuttosto che affrontare il pericolo in soccorso di una rivoluzione il cui successo non pareva loro troppo sicuro...

Per rivoluzionare la Francia e il Mondo, bisogna andare innanzi pertinacemente; l'azione, sempre l'azione! Non si tratta di morire eroicamente come Delescluze, Varlin, Vermorel, Burgeois, Ferré e tanti altri.

Si tratta di combattere senza tregua fino al giorno della vittoria.

Che il passato ci serva da lezione!

L'umanità è sfruttata da secoli, gli ambiziosi sono riusciti sempre a tradirla; il tradimento non si deve rinnovare.

Che il passato ci serva da lezione.

I gruppi anarchici di Bruxelles

Il presente articolo è estratto da un documento rarissimo – la dichiarazione che sulle gesta e sugli errori della Comune pubblicarono allora i gruppi anarchici di Bruxelles molti dei quali, fra i più intelligenti e più attivi, erano rifugiati della Comune.

[da L'Adunata dei Refrattari, anno II, n. 6 del 17 marzo 1923]

Tratto da Finimondo