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La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande.

Archiloco

Il fascismo è una parola di otto lettere che comincia per f. L’uomo, da sempre, si è appassionato fino a morirne per i giochi di parole che, nascondendo la realtà più o meno bene, lo assolvono dalla riflessione personale e dalla decisione. Così il simbolo agisce al nostro posto e ci fornisce un alibi e una bandiera.

Quando al simbolo che non intendiamo sposare, che anzi ci fa schifo profondamente, applichiamo la paroletta “anti”, ci consideriamo da quest’altra parte, al sicuro, e pensiamo di avere assolto con questo a una buona parte dei nostri compiti. Così, poiché alla mente di molti di noi, e chi scrive si annovera fra questi, il fascismo fa schifo, è sufficiente il ricorso a quell’ “anti” per sentirsi a posto con la coscienza, racchiusi in un campo ben guardato e ben frequentato.

Nel frattempo la realtà si muove, gli anni passano e i rapporti di forza si modificano. Nuovi padroni si avvicendano a quelli vecchi e la tragica barra del potere passa di mano in mano. I fascisti di ieri hanno messo da parte le bandiere e le svastiche, consegnate a pochi dissennati dalla larga tonsura, e si sono adeguati al gioco democratico. Perché non avrebbero dovuto farlo? Gli uomini di potere sono soltanto uomini di potere, le chiacchiere nascono e muoiono, il realismo politico no. Ma noi, che di politica capiamo poco o nulla, ci chiediamo imbarazzati cos’è successo, visto che ci hanno tolto da sotto il naso l’antico alibi del fascista nerovestito e mazzafornito, contro cui eravamo adusi a lottare a muso duro. Per cui andiamo cercando, come galline senza testa, un nuovo barlume espiatorio contro cui scaricare il nostro fin troppo facile odio, mentre tutto attorno a noi si fa più sottile e più sfumato, mentre il potere ci chiama a discutere:

– Ma prego, si faccia avanti, dica la sua, senza imbarazzo! Non dimentichi, siamo in democrazia, ognuno ha diritto a parlare quanto e come vuole. Gli altri ascoltano, acconsentono o dissentono, e poi il numero fa il gioco finale. La maggioranza vince e alla minoranza resta il diritto di tornare a dissentire. Purché tutto si mantenga nella libera dialettica delle parti.

Se portiamo la questione del fascismo sul piano delle chiacchiere, dobbiamo ammettere per forza che è stato tutto un gioco. Forse un’illusione:

– Il Mussolini, un brav’uomo, di certo un gran politico. Ha fatto i suoi errori. Ma chi non ne fa. Poi s’è fatto prendere la mano. Lo hanno tradito. Siamo stati tutti traditi. La mitologia fascista e anticoromana? Ma lasci perdere! Lei pensa ancora a queste anticaglie? Roba del passato.

«Hitler... — ironizzava Klaus Mann descrivendo benissimo la mentalità di Gerhart Hauptmann, il vecchio teorico del realismo politico — in fin dei conti,... Miei cari amici!... Niente malanimo!... Cerchiamo di essere... No, se non vi rincresce, consentitemi... obiettivi... Posso riempirmi di nuovo il bicchiere? Questo champagne... straordinario, davvero — l’uomo Hitler, voglio dire... Anche lo champagne, quanto a questo... Un’evoluzione assolutamente straordinaria... La gioventù tedesca... Circa sette milioni di voti... Come ho detto spesso ai miei amici ebrei... Quei tedeschi... nazione incalcolabile... misteriosissima davvero... impulsi cosmici... Goethe... La Saga dei Nibelunghi... Hitler, in un certo senso, esprime... Come ho cercato di spiegare ai miei amici ebrei... tendenze dinamiche... elementari, irresistibili...».
No, sul piano delle chiacchiere no. Davanti ad un buon bicchiere di vino le differenze sfumano, e tutto torna opinabile. Perché, è questo il bello: le differenze ci sono, ma non tra fascismo e antifascismo, ma tra chi vuole, e volendolo persegue e gestisce il potere, e chi lo combatte e lo rifiuta. Ma su quale piano potremmo trovare un fondamento concreto a queste differenze?

Forse sul piano di un’analisi più approfondita? Forse facendo ricorso ad un’analisi storica?
Non credo. Gli storici costituiscono la più utile categoria d’imbecilli al servizio del potere. Credono di sapere molte cose, ma più si accaniscono sul documento, più non fanno altro che sottolineare la necessità del suo essere tale, un documento che attesta in modo incontrovertibile l’accaduto, la prigionia della volontà del singolo nella razionalità del dato, l’equivalenza vichiana del vero e del fatto. Ogni considerazione su possibili eventualità “altre” resta semplice passatempo letterario. Ogni illazione, assurda piacevolezza. Quando lo storico ha un barlume d’intelligenza, travalica subito altrove, nelle considerazioni filosofiche, e qui cade nelle ambasce comuni a questo genere di riflessioni. Racconti di fate, gnomi, e castelli incantati. E ciò mentre tutt’intorno il mondo si assesta nelle mani dei potenti che hanno fatto propria la cultura dei “bignamini”, che non distinguerebbero un documento da una patata fritta. «Se la volontà di un uomo fosse libera, scrive Tolstoj in Guerra e Pace, tutta la storia sarebbe una serie di fatti fortuiti... Se invece esiste una sola legge che governi le azioni degli uomini, non può esistere la libertà dell’arbitrio, poiché la volontà degli uomini dev’essere soggetta a questa legge».

Il fatto è che gli storici sono utili soprattutto a fornirci elementi di conforto. Alibi e protesi psicologiche. Quanto sono stati bravi i federati della Comune del 1871! Come sono morti da coraggiosi al Père Lachaise! E il lettore s’infiamma e si prepara pure lui a morire, se necessario, sul prossimo muro dei federati. In tale attesa, cioè in attesa che oggettive forze sociali ci mettano in condizione di morire da eroi, barcameniamo la vita di tutti i giorni, per poi arrivare alla soglia della morte senza che quella tanto sospirata occasione ci sia stata porta. I trend storici non sono poi così esatti, decennio più, decennio meno, possiamo saltarne qualcuno e ritrovarci con niente nelle mani.

Volete misurare l’imbecillità d’uno storico, portatelo a ragionare sulla cose in fieri e non sul passato. Ne udirete delle belle.

No, le analisi storiche no. Forse quelle politiche, o politico-filosofiche, come siamo stati abituati a leggerne in questi ultimi anni. Il fascismo è questo, e poi quest’altro, e quest’altro ancora. La tecnica di facitura di queste analisi è presto detta. Si prende il meccanismo hegeliano di dire e contraddire nello stesso tempo, qualcosa di simile alla critica delle armi che diventa arma della critica, e si cava fuori da un’affermazione apparentemente chiara tutto quello che passa per la testa in quel momento. Avete presente il senso di disillusione che si ha quando, rincorso inutilmente un autobus, ci si accorge che l’autista pur avendoci visto ha accelerato invece di fermarsi? Bene, in questo caso si può dimostrare, e Adorno mi pare che l’abbia fatto, che è proprio la frustrazione inconscia e remota causata dalla vita che fugge e che non riusciamo ad afferrare che viene a galla, e che ci spinge a desiderare di uccidere l’autista. Misteri della logica hegeliana. Così, quietamente, il fascismo diventa qualcosa di meno spregevole. Siccome dentro di noi, acquattato nell’angolo oscuro dell’istinto bestiale che ci fa aumentare le pulsazioni, sta un fascista incognito a se stesso, siamo portati a giustificare tutti i fascisti in nome del potenziale fascista che è in noi. Certo, gli estremismi no! Questo mai. Quei poveri Ebrei, nei forni! Ma furono poi proprio tanti a morirci dentro? Seriamente, persone degne del massimo rispetto, in nome di un malcompreso senso di giustizia, hanno messo in circolazione le stupidaggini di Faurisson. No, su questa strada è bene non andare avanti.

La volpe è intelligente e quindi ha molte ragioni dalla sua, e tante altre ancora può escogitarne, fino a dare l’impressione che il povero istrice sia senza argomenti, ma non è così.

La parola è un’arma micidiale. Scava dentro il cuore dell’uomo e vi insinua il dubbio. Quando la conoscenza è scarsa, e quelle poche nozioni che possediamo sembrano ballare in un mare in tempesta, cadiamo facilmente in preda agli equivoci generati da coloro che sono più bravi di noi con le parole. Per evitare casi del genere, i marxisti, da buoni programmatori delle coscienze altrui, in modo particolare del proletariato ingreggito, avevano suggerito l’equivalenza tra fascismo e manganello. Anche filosofi di tutto rispetto, come Gentile, dal lato opposto (ma opposto fino a che punto?), avevano suggerito che il manganello, agendo sulla volontà, è anch’esso un mezzo etico, in quanto costruisce la futura simbiosi tra Stato e individuo, in quell’Unità superiore che è lo scopo dell’atto singolo come di quello collettivo. Qui si vede, sia detto tra parentesi, come marxisti e fascisti provengano dal medesimo ceppo idealista, con tutte le conseguenze pratiche del caso: lager compresi. Ma, andiamo avanti. No. Il fascismo non è solo manganello, e non è nemmeno soltanto Pound, Céline, Mishima o Cioran. Non è nulla di tutti questi elementi e di altri ancora singolarmente presi, ma è l’insieme di tutto questo. Non è la ribellione di un individuo isolato, che sceglie la sua personale lotta contro gli altri, tutti gli altri, a volte Stato compreso, e che ci può anche attirare per quella simpatia umana che abbiamo verso tutti i ribelli, anche per quelli scomodi. No, non è lui il fascismo. Non è quindi che difendendo la sua personale rivolta possiamo revocare in dubbio la viscerale nostra avversione verso il fascismo. Anzi spesso, immedesimandoci in queste difese singole, attratti dalla vicenda del coraggio e dell’impegno individuale, confondiamo ancora di più le idee nostre e di coloro che ci ascoltano, determinando inutili tempeste in bicchieri d’acqua.

Le parole ci uccidono, se non facciamo attenzione.

Per il potere, il fascismo nudo e crudo, così come si è concretizzato storicamente in periodi storici e in regimi dittatoriali, non è più un concetto politico praticabile. Nuovi strumenti si affacciano sulla soglia della pratica gestionaria del potere. Lasciamolo quindi ai denti acuminati degli storici, che se lo rosicchino quanto parrà loro. Anche come ingiuria, o accusa politica, il fascismo è fuori moda. Quando una parola viene usata in tono dispregiativo da chi gestisce il potere, non possiamo farne un uso uguale anche noi. E siccome questa parola, e il relativo concetto, ci fanno schifo, sarebbe bene mettere l’una e l’altro nella soffitta degli orrori della storia e non pensarci più.

Non pensarci più alla parola e al concetto, non a quello che quella e questo significano mutando vestito lessicale e composizione logica. È su questo che bisogna continuare a riflettere per prepararsi ad agire. Guardarsi oggi attorno per cercare il fascista, può essere uno sport piacevole, ma potrebbe anche nascondere l’inconscia intenzione di non volere andare al fondo della realtà, dietro la fitta trama di un tessuto di potere che diventa sempre più complicato e difficile da interpretare.

Capisco l’antifascismo. Sono anch’io un antifascista, ma i miei motivi non sono gli stessi di tanti altri che ho sentito in passato e continuo a sentire anche oggi, definirsi antifascisti. Per molti, vent’anni fa, il fascismo lo si doveva combattere dov’era al potere. In Spagna, poniamo, in Portogallo, in Grecia, in Cile, ecc. Quando in quei Paesi al vecchio regime fascista subentrò il nuovo regime democratico, l’antifascismo di tanti ferocissimi oppositori si spense. In quel momento mi accorsi che quei miei vecchi compagni di percorso avevano un antifascismo diverso dal mio. Per me non era cambiato granché. Quello che facevamo in Grecia, in Spagna, nelle colonie portoghesi e in altri Paesi, lo si poteva fare anche dopo, anche quando lo Stato democratico aveva preso il sopravvento, ereditando i passati successi del vecchio fascismo. Ma non tutti erano d’accordo.

Capisco i vecchi antifascisti, la “resistenza”, i ricordi della montagna, e tutto il resto. Bisogna sapere ascoltare i vecchi compagni che ricordano le loro avventure, e le tragedie, e i tanti morti ammazzati dai fascisti e le violenze e tutto il resto. «Ma, diceva ancora Tolstoj, l’individuo che recita una parte negli avvenimenti storici mai comprende il loro significato. Se tenta di capirlo diventa un elemento sterile». Capisco meno coloro che senza avere vissuto quelle esperienze, e quindi senza trovarsi per forza di cose prigionieri di quelle emozioni anche a distanza di mezzo secolo, mutuano spiegazioni che non hanno ragione di esistere e che spesso costituiscono un semplice paravento per qualificarsi.

– Io sono antifascista! Mi buttano in faccia l’affermazione come una dichiarazione di guerra, e tu?

In questi casi mi viene quasi sempre spontanea la risposta. – No, io non sono antifascista. Non sono antifascista come puoi esserlo tu. Non sono antifascista perché i fascisti sono andato a combatterli sul loro territorio quanto tu eri al calduccio della democratica nazione italiana che però mandava al governo i mafiosi di Scelba, di Andreotti e di Cossiga. Non sono antifascista perché ho continuato a combattere contro la democrazia che aveva sostituito quei fascismi ormai da operetta, impiegando mezzi di repressione più moderni e quindi, se vogliamo, più fascisti del fascismo che li aveva preceduti. Non sono antifascista perché anche oggi cerco di individuare l’attuale detentore del potere e non mi faccio abbagliare da etichette e da simboli, mentre tu continui a dirti antifascista per avere la giustificazione per scendere in piazza a nasconderti dietro lo striscione dove c’è scritto “Abbasso il fascismo!”. Certo, se avessi avuto più dei miei otto anni all’epoca della “resistenza”, forse anch’io mi farei adesso travolgere dai ricordi e dalle antiche passioni giovanili e non sarei tanto lucido. Ma penso di no. Perché, se ben si scrutano i fatti, anche fra la congerie confusa e anonima dell’antifascismo da schieramento politico, c’erano coloro che non si adeguavano, che andavano oltre, che continuavano, che insistevano ben al di là del “cessate il fuoco!”. Perché la lotta, a vita e a morte, non è solo contro il fascista di ieri o di oggi, quello che si mette addosso la camicia nera, ma anche e fondamentalmente contro il potere che ci opprime, con tutte le sue strutture di sostegno che lo rendono possibile, anche quando questo potere si veste degli abiti permissivi e tolleranti della democrazia.

– Ma allora, potevi dirlo subito! — qualcuno potrebbe rispondermi cogliendomi in fallo, — anche tu sei antifascista. E come poteva essere diversamente? Sei un anarchico, quindi sei antifascista! Non stancarci con le tue distinzioni.
E invece penso sia utile distinguere. A me il fascista non è mai piaciuto, e di conseguenza il fascismo come fatto progettuale, per altri motivi, che poi, una volta approfonditi, risultano gli stessi motivi per cui non è mai piaciuto il democratico, il liberale, il repubblicano, il gollista, il laburista, il marxista, il comunista, il socialista e tutti gli altri. Contro di loro io ho opposto non tanto il mio essere anarchico, ma il mio essere diverso, e quindi anarchico. Prima di tutto la mia diversità individuale, il mio modo personale, mio e di nessun altro, d’intendere la vita, di capirla e quindi di viverla, di provare emozioni, di cercare, scrutare, scoprire, sperimentare, amare. All’interno di questo mio mondo permetto l’ingresso soltanto a quelle idee e a quelle persone che mi aggradano, il resto lo tengo lontano, con le buone e con le cattive maniere. Non mi difendo, ma attacco. Non sono un pacifista, e non aspetto che venga superato il livello di guardia, cerco di prendere io l’iniziativa contro tutti quelli che, sia pure potenzialmente, potrebbero costituire un pericolo per il mio modo di vivere la vita. E di questo modo di vivere fa parte anche il bisogno degli altri, il desiderio degli altri. Non degli altri in quanto entità metafisica, ma degli altri ben identificati, di coloro che hanno affinità con quel mio modo di vivere e di essere. E questa affinità non è un fatto statico, sigillato una volta per tutte, ma un fatto dinamico, che si modifica e cresce, si allarga via via sempre di più, richiamando altre idee e altri uomini al suo interno, intessendo un tessuto di relazioni immenso e variegato, dove però la costante resta sempre quella del mio modo di essere e di vivere, con tutte le sue variazioni ed evoluzioni.

Ho attraversato in ogni senso il regno degli uomini, e non ho ancora capito dove potrei posare con soddisfazione la mia ansia di conoscenza, di diversità, di passione sconvolgente, di sogno, di amante innamorato dell’amore. Dappertutto ho visto potenzialità immense lasciarsi schiacciare dall’inettitudine e poche capacità sbocciare al sole della costanza e dell’impegno. Ma fin dove fiorisce l’apertura verso il diverso, verso la disponibilità ad essere penetrati e a penetrare, fin dove non c’è paura dell’altro, ma coscienza dei propri limiti e delle proprie capacità, quindi accettazione dei limiti e delle capacità dell’altro, c’è affinità possibile, possibile sogno d’una impresa comune, duratura, eterna, al di là delle umane approssimazioni contingenti.

Muovendomi verso l’esterno, verso territori sempre più distanti da quello che ho descritto, le affinità si affievoliscono e scompaiono. Ed ecco gli estranei, coloro che portano i propri sentimenti come decorazioni, coloro che mostrando i muscoli fanno di tutto per sembrare affascinanti. E, ancora più in là, i segni della potenza, i luoghi e gli uomini del potere, della vitalità coatta, dell’idolatria che assomiglia ma non è, dell’incendio che non scalda, del monologo, della chiacchiera, del chiasso, dell’utile che tutto misura e tutto pesa.

È da ciò che mi mantengo lontano, ed è questo il mio antifascismo.

Alfredo Maria Bonanno, tratto da "Anarchismo", n. 74, settembre 1994

In ordine sparso

«Suggeriamo perciò, in Italia e fuori, a tutti coloro che vogliono molestare, fino a fiaccarlo, il nemico, la guerriglia autonoma e per ordine sparso; di piccole entità più difficilmente raggiungibili e identificabili»

“Non molliamo”, gennaio 1927

Forse è giunto il momento di provare a tornare sulle ipotesi organizzative, sul rifiuto o l’assenza delle stesse, nella piccola galassia di individui, di piccoli gruppi, di vari progetti differenti, di costellazioni conflittuali, che si riconoscono nella lotta per l’anarchia, una lotta certo dai metodi più variegati, ma che si svolge qui e ora. Una lotta che pone al centro il problema della distruzione. Distruzione di quanto ostacola la libertà e l’anarchia, anziché la sua gestione. Distruzione di ciò che opprime, sfrutta e devasta, piuttosto che un’educazione popolare di coloro che aderiscono, più o meno coscientemente, a ciò che opprime, sfrutta e devasta. Distruzione di tutto ciò che media, di tutto ciò che sopprime l’autonomia a favore della dipendenza, più che la creazione di piccoli isolotti alternativi negli interstizi del dominio. Le discussioni che ci allontanano da questa distruzione e dal nostro modesto contributo ad essa; le discussioni che non si interrogano su come incoraggiare la distruzione, su come contribuire a creare condizioni materiali e soggettive che favoriscano la distruzione, ci conducono solo al ristagno della paralisi.

Ciò detto, intendiamoci bene. La distruzione non è solo questione di fuoco, di sabotaggio, d’insurrezione o di armi. Se da un lato la distruzione comprende la soppressione materiale delle strutture e delle persone autoritarie, dall’altro implica una critica corrosiva dei rapporti sociali che sostengono, favoriscono e riproducono tali strutture, fino a toccare le nostre stesse responsabilità, i nostri compromessi, le nostre rinunce, che sono altrettanti mattoni dell’edificio sociale da demolire. La distruzione non è tanto un affare di guerra, dove sono tracciate le linee di demarcazioni tra amici e nemici; ciò di cui stiamo parlando va ben oltre un tale schema probabilmente troppo facile per spiegare l’eternità dell’oppressione e dello sfruttamento nel calvario della storia umana. Inoltre la distruzione, come fatto materiale violento, non è riducibile al semplice atto della distruzione (che essa si esprima contro le cose o contro gli uomini, da questo punto di vista  non fa alcuna differenza: l’atto di distruggere comporta comunque l’uso della violenza — offensiva o difensiva, giustificata o meno, in fondo si tratta di questioni che ognuno e ognuna deve risolvere da sé, senza le stampelle che qualche ideologia, sistema filosofico o convinzione religiosa possa offrire). Occorrono non solo braccia, ma anche testa; non solo una preparazione mentale, ma anche cuore; non solo uno sforzo e una convinzione individuali, ma forse anche il sostegno di chi abbiamo vicino.

Ciò che rimette sul tavolo la questione di un’ipotesi organizzativa è per l’appunto il soffio che vogliamo dare alla distruzione. È il primo passo da fare. Per parlare di organizzazione, bisogna prima mettersi d’accordo in quale prospettiva, con quale scopo, per quale progettualità, intendiamo dotarci di strumenti organizzativi. A ben pensarci, ogni individuo è già di per sé un’organizzazione. Lo stesso dicasi per ogni nucleo di affinità. Ma ciò di cui vorremmo parlare è una dimensione supplementare, più ampia, che si interroga sui possibili legami organizzativi tra gli individui, i gruppi di affinità, le variegate e differenti costellazioni.

Ma in quale prospettiva? Sicuramente non quella di «costruire una forza» per pesare nel dibattito pubblico, né di avere una rappresentanza anarchica nelle lotte e nei movimenti sociali. L’ipotesi organizzativa di cui vorremmo discutere in reciprocità, non è né un’ambasciata che rappresenti gli interessi del piccolo mondo anarchico, né un’agenzia interinale in cerca di nuove reclute, né un centro di divertimento aperto a coloro che non sanno cosa fare della propria vita e dei propri dilemmi, né un club di discussioni filosofiche per promuovere la chiacchiera infinita, né un’assemblea in cui tutto ruota attorno a una celebrazione collettiva che eclissa l’affinità e l’autonomia individuale, né una chiesa dove si va in cerca di conforto recitando i testi sacri, e neppure una impresa di demolizione in cui discutere solo di materiali, di tecniche, di specializzazione a oltranza e di esecuzioni ripetitive.

Ovviamente è sempre più facile dire ciò che non si vuole che parlare di ciò che si vuole. Tanto più che, in un dibattito come quello che proponiamo, la scelta delle parole può rivelarsi rapidamente un ostacolo alla comprensione reciproca, un certo termine rischia di colpire — più o meno inutilmente — la sensibilità di qualcuno, gli artifici della grammatica possono indurre a fantasticare di calcoli sulla cometa e castelli tra le nuvole. Ma arretrare davanti a un rischio del genere, anziché accettare i limiti di qualsiasi espressione linguistica (in qualche modo, ci si avvicinerà comunque a dire ciò che intendiamo e, paradossalmente, talvolta non dire nulla rende meglio ciò che si intende dire), significherebbe abbandonare un terreno magari rischioso, ma non sterile.

Ma perché parlare oggi di una ipotesi organizzativa? Riassumiamo velocemente, a rischio di ripetere ciò che altri hanno già detto altrove, e probabilmente meglio, alcuni tratti del tempo in cui agiamo. Innanzitutto, ci sembra che più il dominio avanza, più i sistemi si estendono e si espandono, più si (ri)affacciano dei fattori di instabilità. Una instabilità che si esprime ad ogni livello: dalla vita individuale passando per i traballanti equilibri geopolitici e i nuovi settori economici disgreganti fino al clima del pianeta che dobbiamo abitare. Il treno del progredire dell’addomesticamento del vivente avanza a tutta velocità, sempre più veloce, ma ogni sasso sulle rotaie, ogni granello di sabbia, provoca riverberi sempre più forti alla macchina lanciata a tutta velocità. Ormai da diversi decenni, e in modo sempre più determinante, i grandi pianificatori, dall’economista che prevede modelli a dieci anni fino allo scienziato che pontifica sullo stato del mondo futuro, sono costretti ad ammettere di avere notevoli problemi a fare previsioni che possano fungere da modello. Che troppi fattori, troppi cambiamenti rapidi, troppi imprevisti perfino, inducono ad una modellizzazione a medio e lungo termine. L’esempio facile e attuale è ovviamente la pandemia da Covid19, che ha portato gli Stati a confinare miliardi di persone, a frenare gli apparati produttivi, a sostituire in tutta fretta le classiche valvole di sfogo della pace sociale (dalle attività sportive alle preghiere collettive, dalla frequentazione dei bar alle attività culturali) con protesi e surrogati telematici.

Le instabilità provocano ovviamente cambiamenti significativi nei rapporti sociali. Confusione e paranoia si avvicendano con la nostalgia di uno Stato sociale o di un mondo uniforme su basi rigide o religiose; perdita di significato e sensazione di obsolescenza della vita stessa dialogano — per contrasto — con spettri della fine del mondo, la guerra civile, la catastrofe finale. Le instabilità possono trasformare un piccolo pretesto, un piccolo dettaglio, in una formidabile esplosione — in tutti i sensi, intendiamoci bene, non solo nel senso di esplosioni di libertà.

Tutto ciò cos’ha a che fare con gli anarchici? Da un lato, niente. Indipendentemente dalle condizioni e dalle epoche, gli anarchici restano i nemici di ogni autorità, indipendentemente da quale forma assuma. Si agiteranno, e forse agiranno, in tempi di democrazia come in tempi di dittatura, in tempi di emergenza climatica come in tempi di guerra civile, in tempi di pacificazione sociale come in tempi di rivoluzione. Dall’altro lato, tutto. Poiché le condizioni in cui cerchiamo di agire, e in cui, fatalmente, viviamo, influenzano fortemente ciò che facciamo, ciò che più attira la nostra attenzione, ciò che fa cristallizzare le nostre ostilità e… come possiamo concepire di organizzarci. Sarebbe stupido ritenere che organizzarsi in un regime democratico sia esattamente lo stesso che organizzarsi sotto una dittatura militare. Certo, ci sono continuità — in particolare, la continuità dell’autorità — che occorre comprendere e sottolineare, ma esistono anche differenze. Ecco perché i giochi non sono ancora fatti e i modi di organizzarsi dipendono dalle nostre progettualità, che a loro volta non si inscrivono nell’etere assoluto, ma nelle condizioni reali dello scontro.

Tempi di instabilità, sicuro, ma anche tempi di uno sviluppo terribilmente rapido nel dominio. La raffinatezza della sorveglianza che vediamo progredire giorno dopo giorno è solo la punta dell’iceberg, perché questa sorveglianza è possibile solo grazie alla riproduzione, nel suo insieme, del mondo cui partecipiamo. La sorveglianza tecnologica non sarebbe possibile senza l’onnipresenza di apparecchi tecnologici, anche nella tasca di ciascun cittadino. Di fronte a questa avanzata, che fa saltare una barriera dietro l’altra e assomiglia più ad una valanga mentre acquisisce forza che all’acqua del mare dalla lenta risalita, alcune ipotesi organizzative, così come alcuni modi di agire, rischiano davvero di diventare non solo obsoleti, ma del tutto inadeguati alle reali condizioni dello scontro. Se noi rifiutiamo, per ragioni non solo operative, ma anche di cuore, di accompagnare il dominio nel suo slancio tecnologico bloccando sempre più le nostre attività nel mondo virtuale, con ciò non vogliamo insistere davanti ad ostacoli invalicabili, ma trovare percorsi più sconosciuti, meno individuabili, più furtivi ed agili. Sapere dove si trova il nemico è una cosa, non avvicinarlo attraverso percorsi che ora può sorvegliare 24 ore su 24 giorno è un’altra cosa.

Se i nostri barometri indicano importanti instabilità meteorologiche, le nostre mappe di ieri ci servono ancora per orientarci. Non per copiarle, né per seguirle ciecamente, ma per farvi affidamento al fine di spianarci la strada. Così, le parole che abbiamo ritrovato in una pubblicazione italiana del 1927 riecheggiano in noi. «In ordine sparso», cioè colpendo il nemico nei suoi punti nevralgici e tentacolari, senza lasciarsi obnubilare dalle cittadelle di potere che lui agita davanti ai nostri occhi. Sparso, è agire senza formare colonne compatte, senza costruire accampamenti permanenti e indifendibili; è agire rompendo ogni simmetria nello scontro. Il suggerimento non è affatto nuovo, ma più la megamacchina si espande, più acquisisce senso. «Guerriglia autonoma» — evocavano nel 1927 — da intendere come una lotta offensiva di lunga durata, una lotta che non si vuole ridurre ad una bravata, ma che cerca di prolungare le ostilità. Una guerriglia, in effetti, in un territorio ormai interamente occupato dal nemico, dal mostro tecnologico. Ma non una guerriglia nel nome di un partito, o di una classe, no, una guerriglia «autonoma», cioè, che trovi le proprie ragioni di agire in se stessa, che non cerca alcuna rappresentazione (perché, cosa sarebbe la rappresentazione, se non il riconoscimento da parte dell’altro allo scopo di domarlo o inquadrarlo meglio?). Senza l’intenzione di riprendere oggi il termine di «guerriglia» per definire forzatamente l’insieme delle attività che rendono possibile l’attacco e l’offensiva, poiché ciò potrebbe portare a ridurre gli individui con le loro diversità a «guerriglieri», creando una nuova gabbia che distilla l’uso di un metodo da una identità ben riduttiva. Infine, per logica si arriva all’informalità, vale a dire al rifiuto di strutture fisse, di una rappresentanza pubblica, di sigle perenni, ecc.

Un progetto organizzativo

«I gruppi d’attacco sono autonomi e indipendenti, una garanzia affinché la creatività sovversiva non possa essere ridotta a schema unilaterale e fisso, oltre ad essere la miglior difesa dai tentacoli della repressione e la migliore situazione immaginabile per restare agili e imprevedibili. Soltanto a partire da una tale autonomia, è immaginabile ed auspicabile il coordinamento informale e agente; un coordinamento che coincida con delle prospettive e dei progetti condivisi. I piccoli gruppi di fuoco non sono separati dall’insieme delle attività rivoluzionarie, ne fanno parte. Nuotano come pesci nell’oceano della conflittualità sociale. L’arcipelago dei gruppi di lotta autonomi lancia una guerra diffusa che sfugga ad ogni controllo, rappresentazione e accerchiamento da parte del dominio»

“Salto”, agosto 2014

Può darsi che questo sentimento sia condiviso da altri, o forse no. Abbiamo l’impressione che da qualche tempo, nel contesto francese da dove parliamo, ci sia un riemergere, o piuttosto una comparsa, di pratiche d’attacco diffuse e continue, sparse ed agili. È chiaro che non tutti i sabotaggi e gli attacchi saranno stati realizzati in una prospettiva di anarchia, né da anarchici. Gli anarchici non sono gli unici ribelli. Ma che un certo agire anarchico, multiforme ma tenace, abbia cominciato a colpire in modo più specifico le infrastrutture del potere, ci sembra sia più una constatazione che un mero auspicio. E questo agire si sta sviluppando in modo informale, senza centralità, sotterraneamente, sul filo di desideri e scelte individuali e di incontri di affinità. Ma tutto questo può anche scontrarsi con una mancanza di costanza, di approfondimento, di progettualità più ampie, di progetti più incisivi. Allora la domanda da porsi, a nostro avviso, non è tanto «come diventare più forti», e neppure «come diventare più efficaci», ma sapere se vogliamo, e possiamo, allargare il nostro sguardo, guardare più lontano e magari anticipare le condizioni di uno scontro forse ancor meno favorevoli. Diciamo «ancor meno», nel senso che dopo gli anni 70 si ha più la tendenza a dire che le tensioni sovversive si sono ritrovate piuttosto a giocare in difesa (spesso con coraggio e tenacia, questo è certo), con pochi echi negli strati sociali più ampi e con una generale mancanza di progettualità a medio termine. C’è da dire che, negli ultimi anni, la stagnazione è stata interrotta a più riprese. Le ipotesi relative all’insurrezione e alla rivolta più o meno delineatesi negli ultimi anni sono state talvolta persino confermate, come all’emergere di alcuni movimenti eterogenei, che si raccoglievano attorno a un certo rifiuto, superando le divisioni delle categorie sociali, con una carica piuttosto esplosiva (vedi i Gilet gialli). Ma anche l’ipotesi che non escludeva che un «imprevisto» potesse sparigliare le carte e far saltare le dighe del pacificazione sociale, come è accaduto in Cile, dove le proteste contro l’aumento delle tariffe del trasporto urbano (una lotta tutto sommato abbastanza «banale») sono sfociate in una vasta rivolta, grazie anche alle mani calorose che hanno cambiato la situazione dando alle fiamme le stazioni della metropolitana — facendo piombare la capitale cilena in un caos che ha dato vita ad un’esplosione di rabbia forse senza precedenti in quel paese.

Ed è qui che entriamo nel campo dell’ipotesi organizzativa. Non ci si organizza per piacere, ci si organizza con un determinato obiettivo, al fine di realizzare una certa cosa. In tal senso, un’ipotesi organizzativa attuale non dovrebbe corrispondere a una volontà di crescita infinita, ma ad una più o meno precisa progettualità di attacco. Per questo pensiamo che ogni sperimentazione, sempre sul terreno dell’informalità (sotterraneamente), con dei coordinamenti tra individui e gruppi autonomi, possa contribuire ad approfondire i sentieri che decideremo di percorrere in un prossimo futuro. Un coordinamento non è un modello prefissato che funziona sempre secondo le stesse «regole». Si adatta e prende forma in base al motivo per cui si decide di dargli vita. Ciò detto, un coordinamento sarebbe possibile solo in presenza di determinate condizioni materiali. Si tratti di precise conoscenze, di discussioni di fondo, di affinità, nulla è da trascurare. E se le condizioni materiali dovessero mutare improvvisamente (e durevolmente)? Da qui la necessità di riflettere e discutere di un’ipotesi organizzativa.

Cosa fare se la volontà, lo sforzo, l’entusiasmo incontrano sempre più difficoltà nel superamento degli ostacoli che ci separano dal nemico che vogliamo colpire? Come fare a sviluppare una progettualità che guardi oltre la pubblicazione di un giornale, la realizzazione di un’azione, o l’apertura di uno spazio? Un’ipotesi è appunto l’organizzazione informale, così da mettere insieme parti che, prese separatamente, non hanno lo stesso peso o le stesse possibilità. Sarebbe una sorta di amplificatore dei nostri raggi d’azione — qualsiasi essi siano. In una simile ipotesi organizzativa, pur esistendo una divisione di compiti (non tutti possono fare tutto allo stesso tempo), non deve comunque esserci alcuna gerarchia. Ciascuno contribuisce alla realizzazione del progetto, che si articola in tutti i settori (logistica, azioni, approfondimento, diffusione delle idee, cure, autodifesa contro la repressione, ecc.). Potremmo argomentare che le cose siano già così. Siamo d’accordo, ma c’è pochissimo collegamento organizzativo — sempre informale — tra ciascuno di essi. Questa potrebbe essere la prima cosa su cui riflettere oggi, pur mantenendo rigorosamente la necessaria compartimentazione. L’affinità su cui si basa un tale progetto organizzativo non è l’affinità che caratterizza i rapporti individuali. È più legata alla condivisione del progetto che alla reciproca conoscenza di ciascun individuo. Questo è anche il motivo per cui i percorsi possono separarsi quando il progetto è realizzato, o addirittura non più condiviso da tale compagno o tale gruppo.

Pensare, quindi, un tessuto organizzativo che rafforzi l’autonomia di ciascuna delle sue parti, e che si basi, fondamentalmente, sui gruppi di affinità. Poi pensare a come questo tessuto, agile per natura, possa fornire un sostegno in tempi meno favorevoli, più difficili. Se un tale tessuto è destinato a favorire «le condizioni materiali e soggettive della distruzione», deve effettivamente esserlo nel senso più ampio. Se c’è bisogno di imparare, di esercitare lo sguardo e il braccio, di saper camuffare i propri passi — senza questo, qualsiasi progetto di attacco cadrebbe nell’improvvisazione più assoluta — e che tutto ciò dipende, in primo e in ultimo luogo, dalle scelte, dai desideri e dagli sforzi individuali, c’è anche un’altra dimensione da esplorare e da costruire. Raccogliere informazioni, mantenere i contatti, avere agganci locali, comunicare discussioni e dubbi fra le diverse costellazioni, organizzare una logistica, condividere conoscenze, provvedere a rifugi e a punti di riposo… fa tutto parte di ciò che ci sarebbe «da guadagnare» costruendo, o approfondendo, i tessuti organizzativi esistenti e potenziali. La sfida è avanzare in questa direzione senza creare centri, senza costruire punti fissi, senza instaurare una divisione prestabilita di compiti (che altrimenti diventerebbero «ruoli», riducendo la ricchezza degli individui e rendendo più complicata la reciproca fecondazione così importante se si parte dalla prospettiva di stimolare, rafforzare ed arricchire l’autonomia di ciascuna e ciascuno).

Infine, un tessuto organizzativo informale è un tessuto vivo, non un «involucro ermeticamente chiuso». Si estende attraverso e sulla base delle affinità, in tutti i sensi. Se ha le caratteristiche implicite di qualsiasi percorso di lotta (discrezione, compartimentazione, autonomia), non sigilla le porte, lasciando che tutto si basi sulla miriade di affinità individuali. Qualcuno potrebbe argomentare che questo non sia «efficace», che i risultati non si vedranno, che un tale modo di concepire l’auto-organizzazione non offra garanzie — ma a nostro avviso, anche se un tale metodo organizzativo è più lento, va anche più a fondo, oltre ad essere il miglior baluardo contro ogni tendenza verso la gerarchia.

Sentieri da esplorare

«Sparare prima degli altri, e più velocemente, è una virtù da Far West, buona per un giorno, dopo bisogna sapere usare la testa, ed usare la testa significa avere un progetto.  E l’anarchico non può essere soltanto un ribelle, ma deve essere un ribelle munito di un progetto. Deve cioè unire il cuore e il coraggio con la conoscenza e l’avvedutezza dell’azione»

Alfredo M. Bonanno

Nel cuore dei nemici dell’ordine esistente è radicata una forte credenza. Essa ha assunto molteplici sembianze nel corso degli ultimi secoli, caratterizzati dal frenetico sviluppo del capitalismo industriale, ma la sua sostanza è sempre la stessa. La crescita del capitalismo, l’estensione, il radicamento e l’approfondimento del dominio avrebbe un limite, scontrandosi con un ostacolo finale, soccombendo alle sue contraddizioni. Per alcuni, la concentrazione del capitale finirà col soffocare la concorrenza e farà quindi collassare il capitalismo sotto le proprie contraddizioni. Per altri, sarà il prosciugamento delle risorse energetiche come la benzina a segnare la fine del tecnomondo. Altri ancora sostengono che gli equilibri degli ecosistemi siano stati così turbati, che il crollo della vita sulla terra così come pensiamo di conoscerla sia inevitabile. Queste credenze, che contengono una speranza — anche cupa — che tutto questo merdaio conoscerà inevitabilmente una fine, fanno venire in mente una credenza assai diffusa dopo la Seconda guerra mondiale: mai più genocidi. Cinquant’anni dopo, sullo stesso suolo europeo, le epurazioni etniche hanno ritmato una guerra civile nell’ex-Jugoslavia. Altrove nel mondo, neanche mezzo secolo dopo è emerso il volto oscuro dell’umanità. Mai più genocidi, mentre gli Stati si dotavano di un armamentario nucleare capace di perpetrare mille volte il genocidio attuato dai nazisti. La storia non segue una traiettoria rettilinea, non ci sono superamenti definitivi. La possibilità del genocidio marcerà sempre al fianco dell’essere umano. Troppi compagni e compagne percepiscono la stessa rivoluzione — anche quando è intesa come un lungo processo di trasformazione — come un superamento definitivo, l’avvento del regno della libertà, come se, in nuce e in potenza, non fosse tutto costantemente possibile e presente.

Detto questo, anche se le instabilità che il dominio sta attraversando non sono affatto «mortali» per il sistema, ciò non significa che sarebbe inutile riflettervi e anticipare, per quanto è possibile, i possibili scenari, molto diversi, che si profilano all’orizzonte del tecnomondo lanciato a tutta velocità. Tutti questi scenari hanno caratteristiche di continuità e di rottura, e nessuno esclude definitivamente l’altro. Ad esempio, il deterioramento climatico a cascata può dare luogo sia ad una felice rottura della società concentrazionaria, che ad un’accelerazione dell’artificializzazione del vivente e perfino a guerre civili. Una rivolta confusa ma massiccia può aggiornare una dittatura militare, ma anche far vacillare le basi del vivere-insieme (inclusa l’ideologia del cittadino) per dare luogo a conflitti etnici, religiosi, clanici,… o ad ampi esperimenti di autogestione e di mutuo soccorso.

Se in superficie, è soprattutto la calma piatta che sembra regnare in un’Europa pacifica in molle decadenza davanti alle altre potenze mondiali, non possiamo permetterci di escludere tali scenari dal nostro immaginario. Tuttavia, in alcune parti del mondo, alcune aree si stanno desertificando a causa dell’aumento delle acque. Altrove, milioni di persone sono costrette ad abbandonare i luoghi in cui sono nate a causa di contaminazioni diventate mortali. Alcuni moti sono scaturiti — anche se non è il loro solo «risultato», e per fortuna — da atroci guerre civili. E anche sul continente europeo, mentre stiamo scrivendo — è in corso in Ucraina una guerra di trincea. Nello stesso tempo, in Irlanda del Nord, le tensioni montano ancora e fanno aleggiare lo spettro di una ripresa delle ostilità tra le diverse parti coinvolte. In Germania, non passa settimana senza sentire che è stato smantellato l’ennesimo gruppo di neonazisti che si prepara, si arma, si addestra, si coordina e pianifica, o che interi paesi si apprestano a dare la caccia ai rifugiati. In Grecia, in piena crisi economica, si è palesato il vecchio spettro della guerra civile che contrappone «la destra» e «la sinistra», prima d’essere messo in condizione di non nuocere dalle abili strategie distensive condotte da un governo detto di estrema sinistra. Tutto ciò cova costantemente sotto la placida superficie dei paesi europei.

Lo scatenamento della libertà

“Rivoluzionari anarchici, diciamolo a voce alta: non abbiamo speranze che nel diluvio umano; non abbiamo avvenire che nel caos… il Disordine è la salvezza, è l’Ordine. Cosa temete dal sollevamento di tutti i popoli, dallo scatenamento di tutti gli istinti, dallo scontro di tutte le dottrine?… Esiste, in verità, disordine più spaventoso di quello che vi riduce, voi e le vostre famiglie, a un pauperismo senza rimedio, a una mendicità senza fine? Esiste confusione di uomini, di idee e di passioni che possa esservi più funesta della morale, della scienza, delle leggi e delle gerarchie di oggi? Esiste guerra più crudele di quella della concorrenza in cui avanzate senza armi? Esiste morte più atroce di quella per inazione che vi è fatalmente riservata?”

Ernest Cœurderoy

Va detto che alcune condizioni, alcuni pretesti o anche alcune azioni potrebbero far precipitare le cose. Ma precipitare verso cosa? Verso la rivoluzione sociale e la trasformazione libertaria dei rapporti sociali? Se nulla è impossibile, non per questo è più probabile. Un imprevisto cambiamento nell’ordine europeo provocherebbe anzitutto disordine, e il disordine — ciò non dispiaccia ai cuori troppo ottimisti — non è di per sé sinonimo di trasformazione libertaria. Si può affermare che la libertà è un fattore di disordine. Che essa distrugge ciò che la ostacola, scuotendo così l’ordine stabilito. «Non ci sarà più rivoluzione finché non scenderanno i cosacchi», diceva Ernest Cœurderoy, amareggiato per la sconfitta delle insurrezioni proletarie a Parigi a metà del XIX secolo. Aveva ragione: la libertà porta il disordine, ed è nel disordine che tutto può essere sperimentato. Dalle cose più turpi alle cose più belle. Tutto qui.

Se siamo disposti ad accettare l’ignoto, se siamo pronti a scatenare la libertà, possiamo finalmente allontanarci dal gauchisme che malgrado tutto abbiamo ereditato. Possiamo allora dire addio alle entità fantasmatiche che dovrebbero perseguire gli stessi scopi di emancipazione (la classe, gli oppressi, i poveri, ecc.) per rivolgerci completamente agli individui, con le loro contraddizioni, le loro scelte, le loro responsabilità. Possiamo dire addio agli schemi che ci informano che occorre elevare le coscienze prima di scatenare le ostilità. Possiamo dire addio ai determinismi che ci hanno illuso, circa il fatto che il fratello proletario non sparerebbe mai sul suo simile, ma prima contro il padrone (nonostante tutte le flagranti negazioni al riguardo che la storia ci ha sbattuto in faccia). Possiamo dire addio al ruolo dei messia, che porterebbero la luce in un mondo di tenebre, che alcune teorie rivoluzionarie vorrebbero farci giocare — fino al punto di farci trucidare da una popolazione reazionaria come è successo a Pisacane e ai suoi compagni nel 1857.

Scatenare la libertà, è accettare l’imprevisto che il disordine porta con sé. È accettare che sebbene la libertà non sempre sia benigna, potendo anche assumere un volto sanguinario, la esigiamo comunque. Non vogliamo una libertà priva di rischi, né pretendiamo dalla libertà che ci conferisca prima degli attestati di buona vita e di morale. Perché non sarebbe libertà, ma addomesticamento camuffato con abiti libertari, il miglior terreno perché il germe dell’Autorità ricominci a crescere — come è successo a molte insurrezioni imbrigliate, oltre alla reazione, dagli stessi rivoluzionari, magari per umanesimo, allo scopo di frenare ogni «eccesso» e di mantenere la rotta sul paradiso promesso dell’autogestione.

Oggi, per coloro che non temono il disordine più della continuità della marcia radiosa e mortifera del progresso tecnologico, non si tratta più tanto di pesare nella bilancia dei rapporti sociali e degli equilibri politici, si tratta di far deragliare il treno. Di far saltare le dighe che trattengono le acque stagnanti in pieno marciume. E a nostro avviso, un modo adatto per tentare di contribuirvi (ben sapendo che non siamo i soli a giocare e che contano pure altri fattori), è rivolgere lo sguardo verso ciò che sostiene e mantiene il sistema — le sue arterie: le infrastrutture di energia, telecomunicazioni e trasporti, su cui si basa ormai buona parte della vita economica, politica e sociale. Ma senza garanzie, senza prima assicurarsi che ci sia una massa critica sufficiente per affrontare una rottura nelle telecomunicazioni o nell’energia, perché sarebbe come riciclare l’a-poco-a-poco d’altri tempi (presa di coscienza – scaramucce – sommosse – insurrezione – rivoluzione, con la freccia del determinismo storico puntata da sinistra a destra), un’ipotesi che si può ora scartare definitivamente dal cuore delle metropoli europee. Ma rifiutando anche di seguire una logica che ci trasformerebbe in esperti tecnici capaci di far piombare il mondo nell’oscurità, per poi stare ad osservare, a distanza di sicurezza, quello che succede; scartando l’ipotesi del «colpo fatale» che provochi un blackout generalizzato (un po’ troppo simile per i nostri gusti all’illusione della «Grande Sera» da XX secolo o al «colpire il cuore dello Stato» degli anni 70).

Se è giusto affermare che agiamo prima di tutto — e di fatto, anche dopo — per noi stessi, per praticare la libertà invece di sognarla, tuttavia non è tutto qui. La libertà è totale, non sopporta ostacoli, vuole dispiegare le sue ali: ecco perché può andare alla ricerca, o anche scontrarsi, con l’insurrezione, lo scatenamento di massa di libertà. Un’ipotesi organizzativa attuale ha interesse a camminare con le proprie gambe. Da un lato, favorendo le condizioni per l’attacco — che comprenda davvero tutto, perché le sue condizioni coincidono con la vita stessa — e dall’altra, anticipando, preparandosi, organizzandosi per essere in grado di prolungare le ostilità (contro ogni potere, vecchio o emergente), anche in un momento di maggiore instabilità, di disordine generalizzato (che può assumere sia la fisionomia di un declino dello Stato e di conseguenza una autorganizzazione spontanea della sopravvivenza; sia quello di un conflitto generalizzato tra mille frazioni diverse, sconvolgendo le carte geografiche e politiche degli Stati in decomposizione o in ricostruzione).

Nel disordine, le regole tacitamente in vigore stanno sempre meno in piedi, soprattutto quando la situazione si prolunga. Chiedersi cosa poter fare in una simile situazione non è peregrino, una domanda che è stata posta anche molto recentemente, per esempio ai rivoluzionari in Siria che vedevano la rivolta sprofondare verso la guerra civile. Tuttavia, se un tale scenario fa paura, siamo certi che questi timori siano davvero i nostri, e non siano instillati dallo Stato? Abbiamo forse paura della libertà, ovvero, dell’assenza di regole fisse? Agire al di fuori della legge quando è la legge statale a regnare è una cosa, ritrovarsi in una situazione di assenza di qualsiasi legge (tranne quella della libertà intesa come libertà di agire — e della forza bruta) è un’altra. Ma il nostro vero posto, come anarchici, come nemici di qualsiasi ordine stabilito, non è proprio in una situazione del genere? Non dovremmo sentirci più a nostro agio da «Banditen», come le autorità naziste definivano i resistenti italiani che attaccavano?

Senza ottimismi fuori posto, né timori inculcati dal traboccare di pace sociale, possiamo già, nelle battaglie di oggi, organizzarci per le possibili battaglie di domani. Perché, se proseguiamo sulla via dell’attacco alle arterie del dominio, e senza alcuna garanzia, possiamo tuttavia essere sicuri di due cose. Innanzitutto, che lo Stato non lo apprezza affatto ed è consapevole (sempre più) della propria vulnerabilità da questo lato. Prima o poi reagirà di conseguenza, e sarebbe un peccato dover fermarsi per una mancanza di previsione, di preparazione e, sì, di organizzazione (intesa come supporto e sostegno, e non come entità rappresentativa o politica) su un percorso così buono. In secondo luogo, se per una ragione o per l’altra (una coincidenza di fattori, una moltiplicazione di fuochi di rivolta, un caso imprevisto), funzionasse, che le braccia delle macchine-robot si blocchino, che i computer si spengano in certi spazi / tempi, che il controllo capillare del territorio non sia più assicurato; quindi, se funzionasse, sarebbe un peccato limitarsi a sdraiarsi per guardare le stelle, così come sarebbe decisamente sciocco credere che le masse di sfruttati, abituate e intossicate dalla dipendenza da un’autorità e dalle macchine e non desiderose di autonomia, farebbero lo stesso. Quindi, se ciò funzionasse, potremmo già immaginare, progettare e prepararci per essere fra quelli che portano la libertà, nel proprio cuore e nelle proprie pratiche, in seno al disordine. Per affrontare non solo lo Stato, ma anche altre entità di autorità che non tarderanno a formarsi per ripristinare il controllo di una zona, per instaurare l’ordine (anche nelle vesti di un ordine cosiddetto rivoluzionario), per soffiare sulle braci dell’odio religioso, settario e «razziale».

Ecco alcune immense sfide per coloro che oggi si pongono la questione organizzativa, e che si ritrovano orfani dei modelli del passato resi obsoleti dallo sviluppo del dominio e dalle credenze ereditate da lotte eclissatesi sotto l’avanzata delle tecnologie. Ma il nostro tempo buio in cui nessun colpo, neppure un’insurrezione di massa, sembra fondamentalmente riuscire ad turbare la marcia forzata della messa-in-gabbia tecnologica del mondo e della devastazione del pianeta e della vita, è quello in cui viviamo. Se possiamo pur sempre sbattere la porta dietro di noi, possiamo anche vivere a fondo, intensamente, risolutamente: toccare la libertà con le nostre lotte, far vibrare l’amore contro la metallica freddezza del mondo, sentire sulla pelle la vicinanza complice di altri con cui si condividono alcuni percorsi, cantare con tutto il cuore la gioia di una vita di ribellione contro i salmi della rassegnazione e della sub-vita.

La foresta dell’agire

«Ascoltatemi dunque! Fate che il vostro passo sia cadenzato e leggero come quello d’un danzatore, ed entrate con me nella foresta»

Renzo Novatore

A passi leggeri, entriamo a nostra volta nella foresta. La foresta in cui poterci incontrare al riparo da spie tecnologiche, dove poter, al prezzo di un piccolo sforzo, attraversare ancora ampi spazi senza che la nostra immagine sia ripresa da obiettivi e dove poter, cosa niente affatto trascurabile, ascoltare il nostro respiro, bagnare i nostri piedi, sentire i nostri corpi vibrare all’unisono con la nostra mente.

Se la foresta di oggi non è tanto un’entità geografica, ma forse prima di tutto uno spazio mentale creato e ricreato costantemente, alcuni ambienti potrebbero essere più propizi di altri — tutta la questione risiede, alla fin fine, in ciò che vogliamo fare, e con quale prospettiva facciamo quel che facciamo. Anche il richiamo della foresta è quindi un’esortazione a non aver paura di abbandonare i luoghi troppo esposti, a fuggire dal chiuso dei vicoli in cui ci ritroviamo bloccati, a prendere il largo quando le dighe erette fanno ristagnare le acque. A ciascuna e ciascuno le proprie valutazioni (restare nelle metropoli oppure no, esplorare le zone più periferiche della società industriale oppure no), ma osiamo scegliere, per quanto è possibile, il nostro terreno di lotta con tutto ciò che comporta (perché «la vita» e «la lotta» sono tutt’uno), senza rimanere agganciati, più per forza d’inerzia che per scelta, a quanto è diventato impraticabile, desolante, soffocante. Non c’è un al di fuori, ma ci sono terreni più favorevoli di altri per lottare e respirare.

Le nostre foreste sono sogni di piccoli gruppi di sabotatori con bottiglie piene nel proprio zaino, luoghi di scambio dove poter dormire tranquillamente, scrupolosi passeggiatori notturni muniti di seghe e tenaglie, con notti trascorse a guardare le stelle per chiarirsi le idee, fonti di ispirazione cui abbeverare i nostri cuori lacerati da tanto disgusto e tanta oppressione, briganti che depredano carovane mercantili, accampamenti invisibili da dove partire all’assalto. La foresta, è il mondo sotterraneo in cui tocchiamo la libertà nel nostro agire. Per trovarla, non c’è nessuna freccia che indichi il percorso. I suoi alberi e i suoi ruscelli si stagliano davanti ai nostri occhi mentre camminiamo, camminando. Andando in avanti. Verso l’azione.

Ma le nostre foreste sono sotto attacco. Alcune forze ostili le occupano sempre di più per setacciarne ogni metro quadrato. Dal momento che non sono territoriali, che non sono entità da difendere, non ci facciamo intrappolare in una battaglia di difesa. Noi le portiamo con noi, queste foreste, in tutto ciò che facciamo. I nostri scontri saranno sempre furtivi — compagni, il tempo dell’ultima battaglia, in fondo a una radura circondata da scogliere, senza vie di fuga, non è ancora arrivato. Ma per non ritrovarci in una simile situazione — o almeno non troppo presto, sarebbe una disdetta — è necessario camminare, adesso, trovare i rifugi solidali, condividere le carte, scambiare le nostre bussole.

Tradotto da: Finimondo

Avis de Tempêtes Numero 40 PDF

DAL CARCERE DI TERNI, SEZIONE AS2

SCIOPERO DELLA FAME:

  • IN SOLIDARIETÀ AI PRIGIONIERI DELLA GUERRA SOCIALE DI SANTIAGO DEL CILE, CHE DAL 22 MARZO 2021 HANNO INIZIATO LO SCIOPERO DELLA FAME LIQUIDO. 
  • IN SOLIDARIETÀ A TUTTI I PROCESSATI PER LE RIVOLTE DEL MARZO 2020 E AI 5 DETENUTI DI ASCOLI/MODENA CHE HANNO AVUTO IL CORAGGIO DI FARE L’ESPOSTO SCRITTO PER LE RIVOLTE DI MODENA. 
  • IN SOLIDARIETÀ ALL’ANARCHICO DAVIDE DELOGU SOTTOPOSTO ALL’ART. 14 BIS, CHIEDENDO CHE VENGA TOLTO DALL’ISOLAMENTO A CUI È SOTTOPOSTO DA TEMPO. 
  • IN SOLIDARIETÀ AI PRIGIONIERX DI SPINI DI GARDOLO (TN) DOVE È MORTA ANCORA UNA DETENUTA! AMBRA, DI 28 ANNI, PER LE ABITUALI CARENZE “SANITARIE”. 
  • IN SOLIDARIETÀ AI PRIGIONIERI IN LOTTA DEL CENTRO DI PERMANENZA DI VIA CORELLI (MILANO). 
  • CORAGGIO E SOLIDARIETÀ AI PIÙ FRAGILI: A TUTTX I BIMBX E RAGAZZX, IGNORATI, ANNULLATI, ISOLATI E SEMPRE DI PIÙ RINCHIUSI IN GABBIE FISICHE/ “SANITARIE”/TECNOLOGICHE/REPRESSIVE.ALLE NONNE E AI NONNI TRATTATI COME SCARTI DA BUTTARE E SACRIFICARE!

Io, Juan Sorroche Fernandez, della Sezione AS2 di Terni comunico:

l’inizio di uno sciopero della fame fino a che lo riterrò opportuno.

Dal giorno 12 aprile alle ore 0:00

La solidarietà universale è una visione intrecciata e proiettata al di là dell’isolamento carcerario; “siamo meno soli di come gli piacerebbe, continuiamo a essere insubordinati, liberi, dignitosi…” Perciò ho un cuore che pulsa insieme ai prigionierx degni in lotta, e alla congiuntura mondiale, che con metodi e pratiche diverse convivono, in evoluzioni simbiotiche nelle loro splendide diversità e camminano nella viva e lunga resistenza collettiva degli sfruttati in lotta di tutto il mondo.

Utilizzerò il mio corpo come strumento, respingendo le nozioni vittimistiche che mi legano alla condizione di prigioniero, provando a rompere il soggetto passivo e con la visione utilitaristica della lotta: cosa ci guadagno??? Vado al di là e lotto, semplicemente per l’estensione della solidarietà tra prigionierx in lotta in tutto il mondo!

La solidarietà credo che sia una visione che necessita di un equlibrio, che alchemicamente e messa in pratica unisca l’universale con lo specifico. Perciò non posso ignorare le condizioni e le situazioni più vicine al mio contesto e che subisco. E che non toglie, anzi, accresce in qualità la nostra prospettiva, perciò il mio pensiero va e mi includo nelle proteste che in diversi tempi, modi, e luoghi, ci sono state e ci saranno nel contesto carcerario italiano, e la mia solidarietà va ai rivoltosi del marzo 2020 che sono stati torturati e uccisi (14 prigionieri) dallo stato per aver difeso la loro vita. Questione di cui bisogna essere consapevoli, che si intreccia alle cause delle gestioni “criminali” del Covid-19. Causa che si estende a tutta la società statal-capitalista globale. Questa lotta contro il nocivo Stato-capitalista è la principale motivazione che ingloba la lotta. La lotta anarchica è contro l’imposizione a tutti i livelli dei vari provvedimenti “sanitari-militari”, che sta annullando le menti/corpi/cuori/spiriti degli individui. Con l’incessante terrorismo mediatico e informativo, annullando il pensiero critico e radicale su ciò che ci sta succedendo di fatto. Siamo di fronte alle definizioni degli assetti geopolitici e di governabilità, gestiti anche dalle multinazionali digitali, farmaceutiche, tecnologiche. Una dittatura sanitaria/tecnologica! Consapevole della mia posizione di estrema debolezza, ma determinato nella volontà! Cosa che con l’esempio ci ha dimostrato il prigioniero Dimitris Koufondinas in Grecia, al quale va la mia solidarietà, seppur in ritardo, però in continuità!

  • CON I PRIGIONIERI DELLA GUERRA SOCIALE NEL MONDO! 
  • MARCELO VILLAROEL E TUTTI I PRIGIONIERX SOVVERSIVX, ANARCHICI, LIBERTARI, DELLA RIVOLTA IN CILE E DELLA LIBERAZIONE MAPUCHE: NELLE STRADE! LIBERTÀ PER TUTTX!PER LA PROPAGAZIONE DELLE PRATICHE DI SOLIDARIETÀ! 
  • UN PENSIERO ALLA COMPAGNA EMILA HERRERA, “BAU”!ASSASSINATA DALLE GUARDIE PRIVATE DEI LATIFONDISTI: COME BENETTON!

Bisogna lottare e lottare finché la sproporzione sia stroncata”

E qualsiasi via stiamo percorrendo, sempre col cuore!

PER L’ANARCHIA!

Per scrivere a Juan:

Juan Sorroche Fernandez

Strada delle Campore, 32

05100 Terni

Dichiarazione di Juan al processo per l’azione alla sede della Lega di Treviso

In questa udienza a mio carico vorrei subito ribattere alle accuse che mi sono imputate, con un’indagine che è a dir poco fantasiosa a che ha portato a delle conclusioni manipolate dal pregiudizio, producendo una mole di scartoffie impressionante. Forzando e incastrando ruoli gerarchie e ideologie mai assunte da singole persone costruendole e imponendole dall’alto degli uffici dell’antiterrorismo. Con una serie di profili di persone falsi e inventati, sia a livello politico e psicologico che personale, che vorrei smentire viste le ingiuriose accuse.

Vorrei chiarire rispetto al mio anarchismo, viste le tante volte che è interpretato e falsificato in questa sede e nelle vostre indagini con tanti ruoli dogmatici che mi avete addossato; primo non sono un anarco-insurrezionalista come ripetete continuamente e rifiuto questa figura e questo concetto che mi è imposto dalle diverse procure in questo processo come parte di una categoria da generalizzare e unificare a piacimento per indirizzare meglio le vostre indagini. Certo, sono un anarchico e di ciò sono orgoglioso, ma sono un anarchico individualista e di sicuro non saranno non saranno le procura a catalogarmi con un etichetta stigmatizzata per il loro tornaconto. Volete che rinneghi l’anarchismo, io invece rinnego il linguaggio e i meccanismi che le procure in questo modo mi vogliono imporre. In più oggi la morale di questa società statale basata sullo spettacolo sensazionalista fa passare l’abiura come prova di innocenza e come colpevolezza il non inginocchiarsi davanti allo Stato.

Nei diversi numeri dell’aperiodico “Beznachalie” che avete preso come prove, fate lo stesso, interpretando e distorcendo i testi. Tra l’altro un aperiodico pubblico, e non occulto o losco, come volete farlo passare per creare un ambiente di sospetto con insinuazioni come fa in uno dei diversi testi, il capo della DIGOS Calenda per fare uno dei tanti esempi: “addirittura firmava!!!”, non c’è bisogno di questi trabocchetti perché io lo rivendico orgogliosamente come parte delle mie idee e come mezzo di propaganda libera e auto-prodotto da me. Sono 5 anni che questo aperiodico si pubblica con una gran quantità di scritti da me firmati pubblicamente. Scritti la cui lettura diventa fuorviante, oltre che strumentale, se non presi nel loro contesto generale e non come invece avviene attraverso una lettura schematica, omettendo ed estrapolando come fa la magistratura, che stacca i singoli elementi incanalandoli secondo le priorità degli investigatori per poi fare connessioni fantasiose, con ipotesi qui e là senza nessun riscontro circa i miei incontri personali con esponenti della FAI-FRI. Comunque a tutti quelli colpiti dalle diverse operazioni anarchiche va tutta la mia solidarietà. E lo stesso vale per l’attentato alla POL G.A.I. di Brescia, per la quale le procure non hanno nessun riscontro rispetto alle accuse. Le indagini tralasciano volutamente tutta una serie di affermazioni che io ho scritto in 5 anni. Come ad esempio che per me c’è solo l’anarchismo che lotta, e che non c’è un anarchismo buono e uno cattivo, come le diverse procure in Italia vorrebbero far passare nei numerosi processi agli anarchici in quest’ultimo periodo. Capisco che questo è strumentale per reprimere tutti i metodi utilizzati da sempre in un secolo e mezzo di anarchismo, e che io assumo tutti come parte di ciò e che sono: la solidarietà rivoluzionaria, la non delega, l’internazionalismo, lo scritto e il pensiero, l’azione diretta e la lotta permanente e refrattaria all’autorità. Ovviamente le procure fanno i loro comodi per poter rinchiudere tutto in una sigla o in una fantasiosa organizzazione gerarchica con tanto di leaders e sottoposti. Per poi far passare delle condanne come precedenti nei vostri codici e leggi con l’intenzione di cancellare l’anarchismo, l’azione diretta e la sua conflittualità.

STRAGE (285)

Per quanto riguarda la pesante accusa di strage vorrei chiarire alcune cose e contestare con forza questo reato. Un’accusa gravissima ed infondata per creare un clima e un contesto emergenziale con un processo esemplare. Portando l’asticella al massimo della gravità con il reato di strage, si fanno passare in secondo piano i reati di terrorismo, e così si crea la possibilità per una loro più facile applicazione con elevatissime condanne. Questa è oggi una tattica concreta condivisa della magistratura dell’antiterrorismo in diversi processi contro anarchici che lottano.

Le stragi come metodo violento non appartengono all’anarchismo e lo rifiuto categoricamente. La violenza rivoluzionaria nell’anarchismo tanto di ieri come di oggi è da sempre stata eticamente contraria alla violenza indiscriminata contro la massa innocente. Questo è un fondamento di base nei principi dell’anarchismo.

Oggi lo Stato mi vorrebbe accusare di essere uno stragista in quanto anarchista, e questo è particolarmente subdolo soprattutto venendo dalla bocca dello Stato italiano che negli anni 70 ha assassinato l’anarchico Pinelli e rinchiuso per anni l’anarchico Valpreda, accusando e indagando decine e decine di anarchici per incolparli della strage della Banca dell’agricoltura a Milano. Lo Stato è l’unico responsabile della strage e noi anarchici è dal 1970 che continuiamo e continueremo ad accusare lo Stato come unico responsabile dell’epoca dello stragismo e che in tutti questi anni ha fatto di tutto per uscirne impunito. E’ pe questo che tocca a me come anarchico ricordare la nostra storia e i nostri morti assassinati dallo Stato, come voglio fare io oggi qui davanti a questo tribunale che probabilmente dirà che questa questione non c’entra con il processo di oggi. Però proprio per questo mi piacerebbe ricordare e far notare alla magistratura che numerosi politici e magistrati del periodo stragista degli anni 70 sono gli stessi che ancora oggi sono protagonisti della vita pubblica italiana, per cui non vedo con che legittimità mi accusate. Lo Stato, ieri come oggi, vorrebbe cancellare dalla memoria collettiva tutto il contesto politico e sociale della lotta degli sfruttati e degli anarchici, che hanno un loro bersaglio storico di conflitto contro lo Stato-stragista. Invece la violenza indiscriminata delle stragi e dei genocidi è da sempre appartenuta alla struttura statale e al dominio capitalista, come dimostrano le recenti stragi di Stato: ad esempio i 14 prigionieri uccisi lasciati morire in carcere durante le rivolte di marzo 2020 o il ponte Morandi di Genova con 43 morti o anche le conseguenze tossiche della società capitalista, con lo stile di vita consumistico e gli infiniti veleni che produce, è la causa principale di tante malattie come questa pandemia, in un continuo genocidio di persone, e distrugge la biosfera portandoci verso il collasso e la impossibilità di una vita degna per tutto questo pianeta.

ATTENTATO CON FINALITÀ DI TERRORISMO (280)

Vorrei chiarire alcune cose sull’attentato di cui mi accusate. Rispetto agli ordigni alla sede della Lega è palese che si vuole cancellare il contesto sociale e politico in cui si inseriscono. Soprattutto quando è comodo alle procure e all’incanalamento dell’investigazione, negando la sua natura di conflitto sociale che va ben al di là dei fatti specifici. Le diverse procure spaziano tranquillamente, con uno sproposito di documentazione, in profonde divagazioni e interpretazioni di tutto un contesto di lotta politica e sociale a cui è impossibile rispondere nei tempi di questo processo, quindi vorrei parlare un po’ del contesto sociale e politico in cui si inserisce l’azione di cui mi accusate, viste le mistificazioni.

Vorrei chiarire alcune cose visto che sono accusato di essere l’attentatore della sede della Lega di Villorba. E’ un dato di fatto che la Lega è un partito fortemente razzista misogino e xenofobo cosa che loro stessi ipocritamente negano, come fanno i peggiori negazionisti dell’olocausto. Un altro particolare che vorrei chiarire è che la Lega se non ricordo male era uno dei partiti politici che era alla guida dello Stato italiano quando è successa l’azione di Treviso. In più ultimamente è sotto gli occhi di tutti il conflitto che c’è nel mondo di fronte a uno strutturato razzismo di Stato come in America, Francia e Brasile. Quello che voglio dire è che il razzismo, la xenofobia, il patriarcato attuano una violenza sistematica e che è intrinseca nella struttura statuale e dunque in qualsiasi partito politico, e che è una violenza molto più grande e stragista di quella di cui oggi qui mi state accusando. Questi sono i meccanismi sistematici attraverso i quali si regge tutto il sistema sociale capitalista della vostra società che oggi mi vuole accusare in quanto terrorista, accusa che io rimando al mittente. Lo Stato italiano vuole cancellare coscientemente quello che ha fatto in passato come se niente fosse. Spesso con troppa facilità ci si dimentica che l’Italia è stato un paese fascista alleato con i nazisti e complice dell’olocausto. Così come volete nascondere oggi la violenza delle stragi e dei genocidi perpetuati dal razzismo statale, come per esempio avviene nel Mediterraneo, in Libia e nel grande campo di concentramento sull’isola di Lesbo in Grecia o con lo sfruttamento schiavista degli immigrati. Le procure e i vari corpi militari che mi hanno arrestato, che mi tengono prigioniero e che oggi mi vogliono giudicare servono a consolidare lo Stato-razzista per mantenere immutabile il loro potere di sfruttatori. Volete cancellare con un colpo di spugna i livelli altissimi di razzismo sociale che si respirano oggi in Italia e che voi come Stato da anni avete fomentato in tutta la società italiana facendolo passare come qualcosa che è privo di violenza, una semplice opinione… volete sorvolare queste questioni fondamentali. Per questo non sarò io a facilitare e incanalare in nessuna direzione le vostre fantasiose investigazioni in questo teatrino giudiziario. Non saranno certo le mie parole di colpevolezza o di innocenza a cambiare le vostre decisioni. Come ho detto o scritto pubblicamente tante volte e oggi qui ribadisco: a prescindere che sia responsabile o no di tali fatti di cui mi accusate, io condivido e solidarizzo con la lotta anarchica contro il capitale e lo Stato-razzista.

Juan Sorroche

c.c. Terni A.S.2

Aprile 2021

Chicago, 29 marzo 2020. Ucciso un 13enne con le mani alzate in segno di resa:

https://video.corriere.it/esteri/chicago-video-bodycam-mostra-agente-uccidere-13enne-disarmato/fcede76e-9e79-11eb-a475-be5cae54c7bb

Ricordiamo, insieme alle rivolte di oggi che si susseguono in molte città degli Stati Uniti, quando un altro video fece scalpore:

La rivolta di Los Angeles

Il 29 aprile 1992 iniziò a Los Angeles quello che doveva diventare uno dei più importanti sollevamenti urbani del secolo negli Stati Uniti. L’esercito federale, la Guardia nazionale e le forze di polizia giunte da tutto il paese ci misero tre giorni a ristabilire l’ordine. Nel frattempo, gli abitanti di L.A. si erano riappropriati di milioni di dollari in merci e avevano distrutto proprietà del capitale per un valore superiore al miliardo di dollari.  

Al di là delle immagini

Poiché la maggior parte delle informazioni che abbiamo sulla sommossa ci sono pervenute dai media capitalisti, è necessario valutare le distorsioni create. Proprio come durante la guerra del Golfo, i mass media hanno dato l’impressione di una totale immersione nella realtà mentre di fatto fabbricavano una versione falsificata degli avvenimenti. Ma, se durante la guerra del Golfo si sono prodigati in uno sforzo concreto di disinformazione, a Los Angeles la distorsione non è stata tanto prodotta dalla censura, quanto causata dalla totale incomprensione dei media di fronte a questa insurrezione proletaria. Il pestaggio di Rodney King nel 1991 non era un incidente isolato e, se non fosse stato filmato, sarebbe passato inosservato — perduto nella logica della repressione razzista della polizia che caratterizza così bene il dominio capitalista in America. Ma, dal momento in cui questo accidente quotidiano è stato segnalato all’attenzione generale, ha acquisito il valore di un simbolo. Mentre il flusso dell’informazione televisiva annegava l’avvenimento nel corso dell’interminabile procedimento giudiziario, gli occhi degli abitanti di South Central [quartiere di L.A.] e non solo restavano fissi su un caso che focalizzava la loro rabbia nei confronti di un sistema di cui il calvario di King era la perfetta illustrazione. In tutto il paese, ma soprattutto a L.A., si sentiva e ci si aspettava che, qualsiasi fosse stato il risultato del processo, le autorità avrebbero tastato la rabbia popolare. Per gli abitanti di South Central, l’incidente King non è stato che una molla. Essi ignorarono gli appelli televisivi dell’interessato per fermare la sommossa, perché non era lui la causa. La ribellione scoppiò contro il razzismo esercitato giorno dopo giorno nelle strade e contro la repressione sistematica nelle metropoli, contro la realtà del razzismo quotidiano del capitalismo americano. Una delle risposte preconfezionate dei media a situazioni del genere è di etichettarle come «rivolte razziali». Una simile caratterizzazione andò ben presto in frantumi a L.A., come annotò “Newsweek” in uno dei suoi resoconti sulla ribellione: «Malgrado giovani neri in collera che gridano: “Uccidiamo i bianchi”, gli ispanici e anche alcuni bianchi — uomini, donne e bambini — si unirono agli afro-americani. La prima preoccupazione della folla era la merce, non il sangue. In un ambiente di festa, i saccheggiatori si impadronirono di merci costose che erano improvvisamente diventate “gratuite”. La maggior parte dei negozi dei neri, così come quelli dei bianchi e degli asiatici, andarono in fumo». Quelli di "Newsweek" si rivolsero anche ad un "esperto" — un sociologo dell’urbanesimo — il quale dichiarò: «Non è stata una rivolta razziale, bensì una rivolta di classe». Leggermente imbarazzati da questa analisi, interrogarono «Richard Cunningham, 19 anni, un impiegato dal pizzetto curato»: «Se ne fregano di tutto. La verità è che fanno festa. Hanno voglia di vivere come la gente che guardano in televisione. Vedono gente che possiede grandi case antiche, belle macchine e tutta l’apparecchiatura hi-fi che desiderano e, ora che è gratuito, se la prendono». Eppure il sociologo glielo aveva spiegato — una rivolta di classe. A Los Angeles,  la composizione della sommossa riflette quella dei quartieri coinvolti: ispanici, neri e qualche bianco, tutti uniti contro la polizia;. Delle prime cinquemila persone arrestate, i Latinos poveri erano la maggioranza, più numerosi dei neri, e i bianchi costituivano solo una decima parte. Di fronte a simili fatti, i media ebbero notevoli difficoltà ad incollare l’etichetta «rivolta razziale». Ebbero più successo nel presentare ciò che stava accadendo come violenza cieca e attacchi insensati delle persone contro la propria comunità. Non è l’assenza di logica in questa violenza che i media non amavano, ma è ben la logica che l’ha ispirata. Gli obiettivi più comuni erano i giornalisti e i fotografi, anche se neri e ispanici. Perché i rivoltosi hanno attaccato i media? Quelle carogne fanno correre un reale pericolo di identificazione ai rivoltosi, con le loro foto e i resoconti. E l’incredibile diluvio di «coperture» della ribellione faceva seguito ad anni di totale indifferenza nei confronti delle persone di South Central, a parte il presentarle come criminali o drogati. Ma i tre aspetti fondamentali della ribellione sono stati il rifiuto della rappresentazione, l’appropriazione diretta della ricchezza e gli attacchi alla proprietà; gli insorti li hanno praticati tutti in modo deciso.  

II rifiuto della rappresentazione

Mentre la sommossa del 1965 si era limitata al quartiere di Watts, nel 1992 i rivoltosi hanno ampliato notevolmente il raggio della propria lotta. Il loro primo obiettivo era quello di superare i loro «rappresentanti». I dirigenti neri — politici locali, burocrati dei diritti civili ed organizzazioni religiose — avevano fallito nella loro funzione di controllo della propria comunità. Altrove negli Stati Uniti, questa cricca è riuscita in larga misura a stornare la rabbia dei rivoltosi, riuscendo a bloccare il contagio della ribellione. Ma la lotta si era diffusa — benché i disordini negli altri agglomerati non abbiano conosciuto l’intensità delle sommosse di L.A., dove i rappresentanti, eletti o autoproclamatisi tali, vennero superati, non potendo fare nulla. I rivoltosi hanno mostrato lo stesso disprezzo per i propri «leader» dei loro predecessori di Watts. I progressi ottenuti nel corso degli anni da una parte di neri, la loro posizione di mediatori tra la «propria» comunità e il capitale e lo Stato — tutto ciò si rivelò irrilevante. Mentre i leader della comunità nera si sforzavano di trattenere gli abitanti, «i leader delle bande, brandendo spranghe di ferro, bastoni e mazze da baseball, esortavano le teste calde a non saccheggiare i loro stessi quartieri, ma ad attaccare i ricchi quartieri occidentali».  

Attacchi contro la proprietà

Gli insorti usavano i telefoni cellulari per ascoltare la polizia. Le autostrade che tanto avevano fatto per dividere le comunità di L.A. vennero usate dai rivoltosi per estendere la lotta. Gruppi di neri e di ispanici percorrevano gran parte della città in auto, incendiando i bersagli — i magazzini e i luoghi dello sfruttamento capitalista —, mentre altrove si formavano ingorghi attorno ai centri commerciali via via che venivano liberati del contenuto. È stata, non solo la prima sommossa multietnica degli Stati Uniti, ma anche la prima rivolta in automobile. La polizia è stata completamente superata dalla creatività e dall’ingegno dei rivoltosi.  

L’appropriazione diretta

«Il saccheggio, che distrugge all’istante la merce in quanto tale, rivela anche ciò che la merce in definitiva implica: l’esercito, la polizia e gli altri distaccamenti specializzati del monopolio statale della violenza armata». Una volta che i rivoltosi ebbero cacciato la polizia dalle strade, il saccheggio fu chiaramente un aspetto determinante dell’insurrezione. La ribellione a Los Angeles è stata una esplosione di rabbia contro il capitalismo, ma anche un’irruzione di ciò che avrebbe potuto prenderne il posto: la creatività, l’iniziativa, la gioia. «Saccheggiatori di ogni razza erano padroni delle strade, dei magazzini e dei negozi. Qui, adolescenti biondi riempivano i loro furgoni di materiali hi-fi. Là, alcuni filippini ammucchiavano guantoni da baseball e scarpe da tennis nella loro vecchia bagnarola scoppiettante. Madri di famiglia ispaniche, accompagnate dai bambini, curiosavano nelle vetrine spalancate dei piccoli centri commerciali e dei negozi di abbigliamento. Vi si vedeva anche qualche asiatico. Mentre il saccheggio a Watts era stato furioso, disperato e astioso, questa volta il clima era piuttosto quello di una festa scatenata». La riappropriazione diretta delle merci (definita in modo denigratorio «saccheggio») rompe il circuito del capitale (lavoro-salario-consumo) e simili azioni risultano inaccettabili tanto quanto uno sciopero. Del resto è vero che, per gran parte della classe operaia di L.A., una rivolta sui luoghi di produzione è impossibile. Tra il desiderio costante di una «bella vita» fuori portata (le merci che non possono avere) e la contraddizione inerente alla più semplice merce (il valore d’uso di cui hanno bisogno è sempre colpito da un prezzo), essi sperimentano le contraddizioni del capitale, non nella sfera della produzione alienata, ma in quella del consumo alienato; non nel lavoro, ma nella circolazione delle merci. [...]  

Razza e composizione di classe

Dunque, persino “Newsweek”, voce della borghesia americana, dovette concedere che quanto successo era una «rivolta di classe» e non una «rivolta razziale». Ma, nell’identificare gli avvenimenti come una ribellione di classe, non dobbiamo negare la presenza di aspetti «razziali». La cosa più importante in queste sommosse è che si estesero a tal punto che le divisioni razziali presenti all’interno della classe operaia americana vennero superate nell’atto della rivolta — ma sarebbe ridicolo affermare che l’aspetto razziale fosse assente. Ci furono in effetti degli incidenti «razziali»: ma in cosa questi sono stati espressione del conflitto fra le classi? Tra la folla che ha scatenato gli eventi all’incrocio delle strade di Normandia e di Firenze, alcune persone si sono accanite su un camionista bianco, Reginald Oliver Denny. I media, approfittando di quel pestaggio, lo avevano trasmesso in diretta allo scopo di alimentare la paura che i neri dei quartieri centrali ispirano alla periferia bianca. Ma questo incidente era significativo? L’analisi dei morti registrati durante il sollevamento dimostra che non lo era.  Vediamo quindi come la guerra di classe si esprime in modo «razziale». Negli Stati Uniti le classi dirigenti hanno sempre incoraggiato e manipolato il razzismo, a partire dal genocidio dei nativi americani, passando per la schiavitù dei neri, fino all’uso permanente dell’etnicità per dividere la forza lavoro. L’esperienza della classe americana nera è in gran parte quella d’essere stata cacciata dal proprio impiego dalle ondate successive di nuovi immigrati. Mentre la maggior parte delle minoranze che hanno cominciato ad occupare i gradini più bassi del mercato del lavoro si è in seguito elevata nella società americana, i neri sono stati costantemente superati. Ancor peggio, il conseguente razzismo è servito a soffocare la coscienza di classe degli operai bianchi. A Los Angeles, in particolare, gli abitanti di South Central costituiscono uno dei settori più marginalizzati della classe operaia. La strategia del capitale nei confronti di questi settori è unicamente repressiva, una repressione condotta dalla polizia — una soluzione di classe. Ad ogni modo, il LAPD (Dipartimento di Polizia di Los Angeles) è composto essenzialmente da bianchi e le sue vittime sono soprattutto neri o ispanici («persone di colore», per parlare il "politicamente corretto"). Contrariamente alle altre città, dove la natura razziale del conflitto è mascherata dal successo dello Stato nella politica di reclutamento di un gran numero di neri nelle forze di polizia, a Los Angeles la strategia razzista di divisione e di argine si rivela un po’ di più ad ogni confronto fra la popolazione e il LAPD — una soluzione razziale. Poiché i neri e gli ispanici di L.A. sono emarginati e oppressi per via del colore della loro pelle, non è affatto sorprendente che, nell’esplosione di rabbia di questi poveri contro i loro oppressori, il colore della pelle abbia potuto servire da criterio per identificare i nemici, così come è stato fatto contro di loro. Quindi, anche se la sommossa non fosse stata che una «rivolta razziale», si tratterebbe comunque di una rivolta di classe. È importante notare anche fino a che punto i partecipanti abbiano saputo superare gli stereotipi di razza. Mentre gli attacchi contro la polizia, la riappropriazione e gli attacchi contro la proprietà, erano considerati utili e necessari da quasi tutti i partecipanti, è evidente che gli attacchi contro individui in base al colore della loro pelle non furono né tipici del sollevamento, né largamente sostenuti. Nel contesto razzista dell’oppressione di classe a L.A., sarebbe stato sorprendente se non ci fosse stato un elemento razziale presente nella rivolta. Ciò che sorprende e gratifica è vedere fino a che punto ciò non sia avvenuto, è la maniera in cui gli insorti hanno eluso le strategie razziste di controllo. [...]  

Composizione di classe e ristrutturazione capitalista

La classe operaia americana è divisa fra salariati e non-salariati, colletti blu e bianchi, lavoratori immigrati e nazionali, garantiti e precari; ma in più è divisa secondo dei criteri etnici che spesso riproducono tali distinzioni sociali. Inoltre queste divisioni sono divisioni reali in termini di potere e di rivendicazioni. Non possiamo coprirle semplicemente con un appello all’unità di classe o attraverso la credenza fatalista che, finché la classe operaia non sarà unita dietro a un partito di tipo leninista, o ad una qualsiasi avanguardia, sarà impossibile attaccare il capitale. Nella situazione americana, così come in molte altre zone del conflitto di classe planetario, è necessario utilizzare la nozione dinamica di composizione di classe, piuttosto che una nozione statica di classi sociali. La rivolta di South Central a Los Angeles e le azioni che ne scaturirono attraverso tutti gli Stati Uniti hanno dimostrato la presenza di un soggetto proletario antagonista all’interno del capitalismo americano. Una presenza occultata da un duplice processo: da un lato la coscienza di classe — quella dell’opposizione al capitale — di numerosi lavoratori americani è falsata dal sentimento, assai esteso, di appartenere alla «classe media»; dall’altro un'importante minoranza, circa un quarto della popolazione del paese, è stata ricomposta in masse di lavoratori sottoqualificati ed esclusi, sotto l’etichetta di «sotto-classe» (underclass), dall’appartenenza alla società. L’invenzione di una simile categoria sociologica trova la propria base materiale nel fatto che alcuni strati «privilegiati» del proletariato beneficiano di un crescente accesso ai prodotti «di lusso», mentre gli strati «sfavoriti», esclusi da ogni consumo diverso dalla pura sussistenza, sono ridotti alla disoccupazione, agli impieghi precari o al lavoro nero. Una simile strategia comporta dei rischi per il capitale: mentre il settore integrato è tenuto in riga dalla forza bruta dei rapporti economici, assecondato dalla paura di sprofondare nell’esclusione, gli esclusi per cui il sogno americano è diventato un incubo devono essere governati con l’uso della pura repressione poliziesca. In un simile contesto repressivo, la guerra contro la droga è servita da pretesto a misure che minacciano sempre di più i «diritti civili» che la società borghese, specialmente in America, si è incaricata di promuovere nel mondo intero. [...]  

Nota sull’architettura ed i postmodernisti

Si dice che Los Angeles sia la «città del futuro». Negli anni trenta la visione modernista degli interessi commerciali prevalse e la rete tramviaria di L.A. — uno dei migliori sistemi di trasporto urbano del paese — venne sradicata e sostituita dalle autostrade. Fu a Los Angeles che Adorno e Horkheimer tracciarono per la prima volta il quadro melanconico della coscienza sussunta dal capitalismo e dove in seguito Marcuse definì l’uomo «unidimensionale». Più recentemente, Los Angeles ha ispirato la moda del postpensiero. Baudrillard, Derrida e altre lordure postmoderniste e poststrutturaliste, hanno tutti visitato la città e vi si sono esibiti. Baudrillard vi scoprì addirittura «l’utopia compiuta». Gli adulatori «postmoderni» del capitalismo adorano l’architettura di Los Angeles, le sue autostrade senza fine e il suo centro ristrutturato. Scrivono panegirici allo spazio sublime all’interno dell’hotel Bonaventura, a 200 dollari la notte, ma tacciono a proposito della distruzione dello spazio pubblico che avviene al di fuori. I postmodernisti, tutti felici di estendere questo termine dall’architettura all’intera società e persino all’epoca stessa, sono riluttanti ad approfondire la loro analisi dell’architettura anche solo di un centimetro al di sotto della superfice. Gli edifici «postmoderni» di Los Angeles sono stati costruiti grazie al flusso di capitali principalmente giapponesi. Downtown, il quartiere degli affari, è diventato il secondo centro finanziario delle sponde del Pacifico dopo Tokio. Ma la sua ricomposizione urbana è avvenuta a scapito degli abitanti dei quartieri poveri. Tom Bradley, vecchio sbirro e sindaco dal 1975 al 1993, ha giocato a meraviglia il ruolo di figura di punta nero della ristrutturazione capitalista di L.A. Ha sostenuto la massiccia operazione di risviluppo del centro cittadino, avvenuta unicamente a beneficio del commercio. Nel 1987, su richiesta della camera di commercio della città, ha ordinato la distruzione degli accampamenti di fortuna dei senzatetto (homeless) installati sui marciapiedi della città; a Los Angeles, la cifra stimata dei senzatetto è di 50.000, 10.000 dei quali bambini. In tutto l’agglomerato, la pianificazione della città ha comportato la distruzione degli alloggi e dei posti di lavoro per operai, al fine di fare piazza pulita per lo sviluppo dell’attività commerciale impegnata dal capitale della zona Pacifico — a Los Angeles il capitale internazionale assedia la classe operaia. Ma i postmodernisti non hanno nemmeno avuto bisogno di guardare i retroscena di questo processo, poiché basta dare una occhiata a queste nuove costruzioni per coglierne la natura violenta. Ciò che caratterizza l’architettura di Los Angeles è la sua militarizzazione. L’urbanesimo a Los Angeles è prima di tutto una questione di polizia. La caratteristica dominante dell’ambiente di L.A. è la presenza di barriere di sicurezza, di tecnologie di sorveglianza — lo spazio è poliziesco. Gli edifici pubblici, come i centri commerciali o le biblioteche, sono costruiti come fortezze, circondate da alte mura di sicurezza e dotate di telecamere di sorveglianza. A Los Angeles, «sul versante cattivo della postmodernità, è possibile osservare una tendenza senza precedenti ad integrare la pianificazione urbana, l’architettura e l’apparato poliziesco in un solo ed unico sforzo di sicurezza totale» (Davis, Città del quarzo). Così come Haussmann aveva ridisegnato Parigi dopo la rivoluzione del 1848, costruendo viali che permettessero di utilizzare l’artiglieria contro la folla, gli architetti e gli urbanisti hanno ricostruito L.A. dopo le sommosse di Watts. Lo spazio pubblico è stato chiuso allo scopo di abolire la strada per abolire la folla. Una simile strategia non è tipica di Los Angeles, ma qui essa sfiora l’assurdo: la polizia cerca così disperatamente di «abolire la folla» che ha addirittura preso una misura senza precedenti, quella di abolire i gabinetti pubblici. Attorno alle sedi di uffici vengono disegnati musei e «micro giardini pubblici» paesaggistici all’interno dei parcheggi, al fine di permettere agli impiegati di andare dall'automobile al lavoro o al negozio senza esporsi ai pericoli della strada. Tutto lo spazio pubblico rimanente è militarizzato, dai sedili «antibarboni» delle pensiline degli autobus ai sistemi automatici di irrigazione che impediscono alla gente di dormire nei parchi. I quartieri dove vive la classe media bianca sono circondati da muri e guardie giurate. Durante le sommosse, i residenti di queste enclave sono fuggiti o si sono armati nervosamente. [...]  

Conclusione

La rivolta di Los Angeles ha segnato un grande passo avanti nella lotta di classe globale. Nell’appropriazione diretta e nell’attacco ai luoghi dello sfruttamento capitalista, l’insieme della popolazione di South Central ha sentito la propria forza. C’è il bisogno di andare avanti. La lotta ha politicizzato la popolazione. La tregua è fondamentale — i proletari devono smettere di ammazzarsi tra di loro. Il LAPD è preoccupato e sta certamente considerando le misure che deve adottare per spezzare l’unità delle bande che dopo le sommosse di Watts si era venuta a creare. La polizia teme la tregua e l’ondata di politicizzazione che ne può scaturire. Questa politicizzazione dovrà andare oltre il nazionalismo nero e le tendenze recuperatrici dei dirigenti delle bande — è necessario un altro passo in avanti. Ci sono i segnali che il proletariato sia in grado di compiere questo passo, come dimostrano la natura multietnica del sollevamento e le azioni di solidarietà avvenute in tutto il paese. Per anni i governanti americani hanno potuto lasciare che gli abitanti del ghetto si ammazzassero fra di loro. Nel maggio del ‘92 le loro armi si sono rivolte contro l’oppressore. Una nuova ondata di lotte è iniziata.    

[tratto da Aufheben n. 1, estate 1992]

Ieri notte un altro ragazzo afroamericano ucciso a Minneapolis. La risposta: rivolta nelle strade. Giusto così. E tutte quelle persone che odiano polizia, razzismo e autorità cosa potrebbero pensare? George Floyd (ucciso un anno fa) e Daunte Wright (ucciso ieri, nella stessa città) non sono i primi massacrati dagli sbirri e non saranno gli ultimi. Per esempio, le torture e gli stupri avvenuti nella caserma di Piacenza da parte di uomini in divisa non hanno lo stesso sapore del disgusto? E che dire della morte di Matteo Tenni ad Ala in Trentino, freddato in questo fine settimana dai carabinieri davanti alla propria abitazione? A tutti i cuori pensanti una riflessione tratta da Barbari, un libro di NN edizioni uscito qualche tempo fa che scommette sull'insurrezione, ciò che trasforma ogni tempo e qualunque spazio in una possibilità di liberarsi da questo mondo.

È inutile cercare di insegnare a parlare a chi non ha una lingua. È inutile spaventarsi di fronte a suoni gutturali e a gesti inconsulti. È inutile proporre mediazioni a chi vuole l’impossibile. È inutile implorare libertà a chi impone schiavitù. Lasciamo la pedagogia ai due emissari, assieme al loro spirito poliziesco e missionario. Che i barbari si scatenino. Che affilino le spade, che brandiscano le asce, che colpiscano senza pietà i propri nemici. Che l’odio prenda il posto della tolleranza, che il furore prenda il posto della rassegnazione, che l’oltraggio prenda il posto del rispetto. Che le orde barbariche vadano all’assalto, autonomamente, nei modi che decideranno, e che dopo il loro passaggio non cresca più un parlamento, un istituto di credito, un supermercato, una caserma, una fabbrica. Di fronte al cemento che prende a schiaffi il cielo e all’inquinamento che lo sporca si può ben dire, con Déjacque, che: «Non sono le tenebre questa volta che i Barbari porteranno al mondo, è la luce». La distruzione dell’Impero difficilmente potrà assumere le consuete forme della rivoluzione sociale, così come ci è dato conoscerle dai libri di storia (la conquista del Palazzo d’Inverno, la reazione popolare a un golpe, lo sciopero generale selvaggio). Non ci sono più nobili Idee in grado di smuovere grandi masse proletarie, non ci sono più dolci Utopie pronte ad essere fecondate dai loro amanti, non ci sono più radicali Teorie che aspettano solo di essere messe in pratica. Tutto ciò è stato sommerso, spazzato via dalla melma imperiale. C’è solo il disgusto, la disperazione, la ripugnanza di trascinare la propria esistenza nel sangue sparso dal potere e nel fango sollevato dall’obbedienza. Eppure è in mezzo a questo stesso sangue e al fango che può nascere la volontà — confusa in alcuni, più nitida in altri — di farla finita una volta per sempre con l’Impero ed il suo ordine letale.

«E allora, tutte le sofferenze, tutto il passato, tutti gli orrori ed i tormenti che hanno segnato il mio corpo, li gettavo al vento come se fossero di altri tempi, e mi abbandonavo allegramente a sogni di avventura vedendo con la febbre dell’immaginazione un mondo diverso da quello in cui ero vissuto, ma che desideravo; un mondo dove nessuno di noi aveva vissuto, ma che molti di noi avevano sognato. E il tempo passava volando, e le fatiche non entravano nel mio corpo, e il mio entusiasmo aumentava, e diventavo temerario e al mattino uscivo in ricognizione per scoprire il nemico, e... tutto per cambiare la vita; per imprimere un altro ritmo a questa nostra vita; perché gli uomini, ed io tra loro, possono essere fratelli; perché l’allegria, almeno una volta, esplodendo nei nostri petti esplodesse sulla terra...»

Un incontrollato della Colonna di Ferro marzo 1937, Spagna

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