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Ferrara, 15 Aprile 2014
«Il 22 maggio prenderà il via il processo a nostro carico, a poco più di un anno dal sabotaggio di cui siamo accusati, per ribadire che lo Stato c’è ed è efficiente.
Sarà una grande giornata, un grande evento, di quelli in cui si possono esibire le toghe e le divise delle grandi occasioni. Se fino ad oggi a finire sotto processo erano stati i fatti specifici, non le legittime ragioni di una valle, ora che queste hanno cozzato con le ragioni di Stato non paiono più così legittime.
Ai magistrati è stato affidato il compito per conto del popolo di amministrare la giustizia, di appioppare a destra e manca mesi o anni di prigione per porre rimedio ai mali che affliggono la società. A loro tocca rendere la realtà e le nostre azioni codificabili penalmente.
In alcuni momenti particolari, tuttavia, quando giovani scapestrati od operai organizzati o valligiani testardi smettono di credere alle narrazioni dei cantastorie di turno e non temono più i moschetti o i randelli dei gendarmi, gli uomini di di legge devono abbandonare la toga e impugnare la penna dello storico. Tracciare una bella linea ed affermare risoluti che tutto ciò che è stato è terrorismo, frutto di cattive passioni, causato da persone deviate, poco inclini a vivere come Dio comanda. Tirare una decisa pedata in faccia a queste canaglie che hanno osato alzare la testa, ricacciarli tra i rifiuti della storia. Cancellare tutto in modo che non vi sia più testimonianza di chi è caduto nella tentazione della ribellione. Nei luoghi più significativi della resistenza si è raggrumata è usanza poi che sorga nei templi del potere.
Nel 1871 dopo aver massacrato i comunardi fino a tingere di rosso le strade di Parigi, l’imperatore Napoleone III fece costruire sulla collina di Montmartre, luogo simbolo per gli insorti, l’imponente basilica del Sacré Coeur così da bonificarla. Allo stesso modo la val Clarea, culla della libera repubblica della Maddalena, è stata devastata e trasformata in un minaccioso fortino militare, tempio del progresso. Poco importa quanto effettivamente procedano i lavori, se la talpa scavi o se stia rintanata in un capannone, quello che conta è che i frequentatori dei castagneti valsusini restino stupefatti di fronte a tale magnificenza, si sentano sopraffatti e provino rassegnazione. Le stesse sensazioni che vorrebbero farci provare quando varchiamo le soglie del Palagiustizia. Un edificio possente, con un’architettura sicuramente ispirata ad un romanzo di Kafka, posto al centro della città come monito ai rei dell’inesorabilità della legge. Certo poca cosa da quando accanto sorge la figura slanciata del grattacielo Intesa-Sanpaolo. Chi avrà l’onore di sedere tanto in alto potrà dalla stessa finestra tener sott’occhio la distribuzione delle pene e volgendo lo sguardo più a ovest si augurerà di scorgere la devastazione di una valle.
Godendo di parecchio tempo libero offertomi dalla reclusione mi sono spesso interrogato sul motivo di una repressione tanto feroce e spettacolare. Non credo sia dovuto al grave danno che la lotta avrebbe arrecato, come vorrebbe il codice. Non penso sia neppure dovuta al fatto che un’assemblea popolare abbia sdoganato il sabotaggio come pratica legittima. La lotta No Tav fa paura perché è riuscita a dare concretezza a quel “no”. Quando ha trovato la strada sbarrata è riuscita a scovarne di nuove e quando queste risultavano impraticabili non ha esitato a inerpicarsi sui sentieri. È riuscita ad evitare gli ostacoli oltre i quali non erano riusciti ad andare i movimenti di protesta da più di 30 anni, come la sterile diatriba violenta-nonviolenza.
Il problema non è capire se un’azione è violenta oppure no, ma quali parametri la rendono tale e chi determina questi parametri. I giornali, nelle varie evoluzioni che è in grado di offrirci la tecnica, oltre ad avere la capacità di descrivere una realtà conforme ai voleri dei propri finanziatori, son sempre di più il mezzo con cui si creano e si diffondono opinioni, giudizi e indignazioni. L’omicidio di due pescatori disarmati diventa un atto di mirabile eroismo, sequestrare 60000 fra donne e uomini nelle patrie galere un atto di amorevole rieducazione, il pestaggio di un migrante mentre sta distruggendo la sua gabbia in un Cie è l’occasione per denunciare i pesanti turni degli operatori di polizia, i lacrimogeni e le botte distribuiti su in valle nient’altro che lezioni di democrazia.
Chi distrugge le macchine con cui si vorrebbe devastare un territorio, chi prova a cacciare a sassate i carabinieri e la polizia che occupano militarmente un luogo liberato compie atti gravissimi, di una violenza inaudita, con evidente finalità terroristica. Ogni gesto di ribellione sia individuale sia collettivo è stigmatizzato senza alcuna paura di cadere nel ridicolo. A dar retta a questi novellatori da quattro soldi finiremmo per chiamare la guerra pace e la pace guerra.
Nell’evolversi della lotta il ruolo dei mezzi d’informazione e la loro complementarietà al sistema Tav si è fatto di un’evidenza imbarazzante. Se non è stato possibile discutere con loro sull’utilità dell’opera, lo sarà ancor meno su quali mezzi siano più idonei per bloccarla.
Abbandonare la dialettica violenza-nonviolenza poiché qualsiasi azione che rechi con sé una critica radicale verrà osteggiata o peggio ancora derisa e snaturata. Discutere invece di mezzi e fini. Da una parte la costruzione di una ferrovia come vettore di una civiltà fondata sullo sfruttamento del capitale umano, sul saccheggio delle risorse, sull’estrazione di profitto ad ogni costo, dall’altra parte noi consapevoli da tempo che la testimonianza non è più sufficiente, ma con un bagaglio enorme di idee e pratiche alcune vecchie di decenni altre inventate ex novo alle pendici del Rocciamelone, alcune più efficaci altre strampalate. Non frutto di gruppi paramilitari o neo-guerriglieri come vorrebbe la letteratura questurina, ma espressione di una comunità che si scopre nella lotta. Una comunità in marcia e in lotta, perché solo quando il conflitto sociale esplode, quando cadono i veli e le contraddizioni della società non possono più essere tollerate che gli individui possono costruire rapporti non mediati dalla merce ma costruiti dalla complicità e dalla condivisione. Per questo motivo oggi siamo accusati di terrorismo e per lo stesso motivo non temo questo processo né le mura e le sbarre della prigione asettica in cui mi hanno sbattuto.
Approfitto per mandare un abbraccio furioso ai miei tre compari di sventura e a tutti gli amici che in ogni modo mi hanno scaldato il cuore in questi mesi.»

Claudio

Nel suo attacco alle lotte, lo Stato sta sia allargando l'utilizzo della differenziazione che estendendo l'imposizione del processo in videoconferenza, inizialmente limitato a prigionieri in 41 bis.
Il 22 maggio inizierà il processo contro 4 compagni/e, Chiara, Niccolò, Mattia e Claudio [1], accusati di un attacco al cantiere TAV di Chiomonte. Qualche giorno dopo, il 26 maggio, ci sarà anche l'apertura di un altro procedimento, a carico di Gianluca e Adriano [2], compagni accusati di alcune azioni dirette contro enti e strutture
coinvolte nella devastazione della Terra. Tutti sono accusati di terrorismo e si trovano ora rinchiusi in sezioni di Alta Sorveglianza.
Per loro il DAP (Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria) ha chiesto il processo in videoconferenza, uno strumento già imposto ad alcuni di loro in diversi procedimenti e ad altri prigionieri che in carcere non hanno chinato la testa (come Maurizio Alfieri e Valerio Crivello [3]).
Lo strumento della videoconferenza mira anzitutto a impedire le uniche occasioni di uscire dal carcere e di incontrarsi in aula con compagni e solidali, impedisce il lavoro dell'avvocato difensore (che, di fatto, non può consultare in privato il proprio assistito) e rende impossibile agli imputati rivendicare in aula le ragioni della propria lotta.
Inoltre, giudici o giurie popolari non saranno più chiamati a pronunciarsi su una persona in carne ed ossa, ma su una figura virtuale, distante e già marchiata come pericolosa, con tutto quello che ciò comporta.
Contro la videoconferenza, le sezioni speciali e l'isolamento, proponiamo, dal 22 al 26 maggio, delle giornate di lotta diffuse nei vari territori.
Lun, 12/05/2014 - 09:26

Solidali e Compagni/e degli inquisiti

È abbastanza facile intuire quali passaggi abbiano portato all’inchiesta per cui oggi Chiara, Claudio, Niccolò e Mattia si trovano in carcere. Che un’azione di sabotaggio, come quella avvenuta nel cantiere di Chiomonte nella notte del 13 maggio, sia pubblicamente fatta propria dal movimento No Tav non deve aver fatto molto piacere alle autorità. E se anche altrove qualcuno cogliesse il suggerimento che arriva dalla Valle? E magari non solo per sostenere da lontano la lotta contro il treno veloce, ma anche per rafforzarne altre? Questi devono essere stati più o meno i dubbi che hanno crucciato i governanti, ben consapevoli dell’attenzione con cui molti guardano a ciò che accade in Valsusa. Un fastidio che dev’essersi trasformato in un’emicrania durante l’estate, quando i sabotaggi si sono diffusi un po’ in tutta la Valle, ignorando il fortino di Chiomonte o più precisamente colpendolo da lontano, attraverso alcune delle aziende che vi lavoravano. Insieme a ruspe ed escavatori è stato duramente colpito anche l’orgoglio delle istituzioni che, nonostante l’elefantiaco dispositivo di controllo approntato in due anni a difesa del cantiere, sono state del tutto incapaci di far fronte a queste azioni.
Per correre in qualche modo ai ripari, alla Procura di Torino è stato dunque chiesto di tirar fuori dal cilindro il reato di terrorismo con le pesanti condanne e il cupo immaginario che porta con sé. Colpendo Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò, si voleva dunque terrorizzare chi lotta contro il Tav e non solo, intimando, neanche troppo velatamente, di prendere le distanze dai terroristi e dalle pratiche di cui erano accusati se non si voleva fare la loro stessa fine. Niente di nuovo, come spesso accade lo Stato tenta di dividere chi lotta in buoni e in cattivi per poter poi più facilmente aver ragione degli uni e degli altri, stroncando di fatto la lotta. Una strategia che purtroppo molto spesso funziona alla perfezione.
In questo caso, invece, si può tranquillamente affermare che la strategia appaltata a Rinaudo e Padalino stia miseramente fallendo. L’etichetta di terroristi infatti non ha in alcun modo messo i compagni in un angolo. Non li ha isolati, nonostante il regime di Alta Sorveglianza in cui si trovano rinchiusi. Chi lotta contro il Tav, e non solo, si è subito esposto richiedendone l’immediata liberazione senza indulgere in piagnistei innocentisti. La differenza, evidentemente chiara a molti, tra ciò che è giusto e ciò che è legale ha stimolato una solidarietà molto ampia e non condizionata dalle categorie di innocenza e colpevolezza proprie dei tribunali.
«C’eravamo tutti la notte del 13 maggio ad assaltare il cantiere di Chiomonte». «Se i 4 compagni in carcere sono terroristi, allora lo siamo tutti». «Terrorista è chi devasta e militarizza i territori». Questi alcuni degli slogan che hanno scandito finora la solidarietà a partire dal 9 dicembre. Slogan che poi sono riusciti a concretizzarsi in diverse iniziative ed azioni che hanno continuato la lotta per cui Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò sono stati arrestati.
I danneggiamenti delle sedi del Partito Democratico, le azioni contro la Banca Intesa San Paolo, i blocchi dei Frecciarossa e i sabotaggi contro alcune ditte collaborazioniste hanno di fatto rilanciato l’idea delle campagne contro i responsabili, politici, economici e imprenditoriali del Tav. Campagne di cui si parla da anni, ma che di fatto non si erano mai realmente sviluppate. La repressione quindi, per una volta, non solo non ha diviso chi lotta ma ha anzi liberato molte energie che non trovavano modo di esprimersi, consentendo di percorrere altre strade contro il treno veloce finora non battute a sufficienza. In questo modo tanti hanno contribuito alla lotta senza recarsi in Valsusa e senza attendere le indicazioni di qualcuno o le giornate di mobilitazione nazionali, mostrando come si possa lottare contro il Tav ogni giorno, autonomamente e un po’ ovunque. Non che ci sia naturalmente alcuna contrapposizione tra queste azioni diffuse, e non annunciate, e gli appuntamenti nazionali del 22 febbraio scorso o di sabato 10 maggio. Le prime dovrebbero infatti servire, anche, a preparare il terreno alle grandi manifestazioni, evitando che queste si riducano a delle scadenze più o meno distanti, sfilacciate e poco incisive. A loro volta, manifestazioni come quella di sabato dovrebbero servire, anche, a dare risalto alle indicazioni fornite dalle iniziative “più piccole”.
Particolarmente significative a riguardo le iniziative contro le sedi del Pd che, contrariamente a quanto potrebbero pensare alcuni, non rischiano in alcun modo di isolare la lotta contro l’Alta Velocità, anzi. La loro diffusione sul territorio e la diversità dei modi e delle motivazioni di chi le ha realizzate – opposizione al Tav, ma anche agli sfratti o ai Cie e più in generale, come mostra ad esempio il Primo maggio torinese, alle politiche del Governo – mostrano piuttosto come le azioni contro il Partito Democratico possano essere un modo di intrecciare un filo tra lotte diverse senza far ricorso ad alcuna piattaforma politica. L’augurio è quindi che l’ostilità contro il Pd continui a generalizzarsi e che ognuno trovi le proprie modalità per manifestarla.
Come il sabotaggio, del resto, anche l’attacco alle sedi dove si incontra e organizza la controparte è sempre stato una parte importante delle lotte sociali. Quando lottavano per impedire che l’Italia entrasse in guerra, nel maggio del 1915, gli operai torinesi erano usi, per esempio, sfasciare le vetrine del Caffè Ligure di piazza Carlo Felice, dove si ritrovavano abitualmente gli studenti interventisti. La Stampa e il sindaco, e forse pure qualche pacifista più sincero di loro, si lamentavano come adesso, e urlavano ai barbari, ma quei fatti, piccoli, erano un pezzo integrante dell’opposizione alla guerra: insieme agli scioperi spontanei e alle battaglie di piazza, insieme ai comizi oceanici sotto i balconi della Camera del Lavoro e ai falsi manifesti che invitavano alla diserzione, insieme ai cortei selvaggi e ai depositi dell’esercito bruciati.
E se novantanove anni fa, attraverso questo ventaglio di pratiche chi lottava non raggiunse il proprio obiettivo, è bene sottolineare che allora ci si opponeva a una guerra. Oggi invece, tutto sommato, solo a un treno.

Fascisti e leghisti a parlare di volontariato con olio di ricino, spari dalle coste per gli indesiderabili, lager di Stato come i CIE per i senza documento, odio razziale, omofobia e
sessismo.
Tutto questo è una merda!
Il forum del terzo settore del volontariato complice di razzismo!
L'unica volontà è la libertà umana, cioè la rivolta contro questo mondo.
VERGOGNA!!!!!!!
Come fai a vivere se muori dentro?

Antifasciste e antifascisti

Oggi, sabato 3 maggio, il mortifero ministro delle infrastrutture Lupi è passato per Cremona
per sostenere il sindaco del centrodestra Perri.
Prima che iniziasse a blaterare parole incapibili, alcuni No Tav sono riusciti ad arrivare
vicinissimi alla piazza dove costui si stava crogiolando delle sue imprese di morte, non ultimo
il Tav.
I No Tav arrivati alle porte della piazza con in mano lo striscione "Terrorista è chi sostiene il Tav. Chiara Mattia Nicco e Claudio Liberi" sono stati respinti da un manipolo di Carabinieri, preoccupatissimi di uno striscione, cento volantini che rammentavano che terrorista è chi devasta e saccheggia i territori e un megafono, dove si è ribadito che Lupi non è gradita persona per quello che rappresenta, la lotta No Tav non si arresta, i quattro compagni accusati di terrorismo devono essere subito liberati e che il sabotaggio è una pratica giusta e necessaria per fermare l'alta velocità.
Se il potere è nell'infrastrutture, allora blocchiamo tutto.
Claudio, Mattia, Nicco e Claudio Liberi
Liberi/e Tutti/e.

Alcuni No Tav che c'erano