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In questa campagna elettorale cremonese abbiamo visto di tutto: razzismo sdoganato da più fronti con fascisti e leghisti invitati dappertutto (nelle scuole e anche a parlare di volontariato), ex-sbirri candidati, il PD primo partito, quello che ha creato i lager di Stato detti CIE (Centri di Identificazione e Espulsione per immigrati), quello stesso partito responsabile della devastazione e dei saccheggi dei territori (vedasi il Tav il Val di Susa, le discariche di amianto e gli inceneritori sparsi per questo paese), delle leggi speciali sugli sfratti e altre nefandezze.
Insomma tanti motivi, per dire che “la miseria si fa virtù”...
Il dato che fa più impressione, per chi rimane ancora impressionato dalla decadenza di questo mondo, sono i 4211 voti nazisti dati dai cremonesi, cioè la somma di voti presi da Zagni, candidato sindaco delle Lega noto per la sua campagna elettorale incentrata contro gli immigrati (vedasi gli aberranti presidi anti-profughi in città) e i diversi, Galli, il ridicolo fascista del terzo millennio candidato di Casa Clown e i voti presi da Fratelli D'Italia, partitino fascista che appoggia il canoista Perri. Ecco questi 4211 voti sono uno dei tanti motivi per continuare a lottare anche qui nel territorio cremonese, un territorio ormai segnato dalla caccia all'uomo contro immigrati nelle strade, profughi, anarchici, sovversivi e individui che resistono in strada alla violenza poliziesca e istituzionale.
Nessuno può dimenticare la repressione nei parchi e nel mercato cittadino contro gli immigrati, gli sfratti eseguiti su povera gente e le cariche della polizia contro gli antifascisti avvenute negli ultimi mesi.
Non ci interessa sapere chi sarà il prossimo sindaco perché “votare significa null’altro che scegliere a quale dei pochi padroni presenti sulla scheda l’elettore preferisce obbedire, e con quale delle potenziali regole presenti sulla scheda l’elettore vuole essere governato. Poiché il processo democratico si basa sulla regola della maggioranza, la “scelta” dell’individuo non determinerà comunque quale genere di servitù dovrà sperimentare.
Sarà la scelta della “maggioranza” a determinarla per chiunque.
Insomma, votare non è agire, né assumersi la responsabilità della propria vita. Ne è l’esatto opposto. Quando le persone votano, stanno affermando di accettare l’idea che altri debbano determinare le condizioni della loro vita e del loro mondo. Stanno sostenendo che altri devono determinare i limiti delle scelte che fanno, preferibilmente semplificando queste scelte in mere decisioni questo/quello. Stanno delegando ad altri la responsabilità di prendere decisioni. In altre parole, chi vota sta ammettendo di accontentarsi di lasciare la propria vita nelle mani di altri, di rifiutare la responsabilità di creare la vita come la desidera, di evitare il compito di trovare i modi di decidere ed agire direttamente con altri che potrebbero portare a una reale trasformazione della realtà sociale.”
Continuiamo da essere in strada al fianco dei fratelli contro la violenza in divisa, continueremo ad opporci ad ogni forma di razzismo che sia leghista o di Casa Pound, continueremo a dare solidarietà ai detenuti perché siamo nemici di ogni gabbia e disertori di ogni frontiera e bandiera.
Continueremo a dire che ''Terrorista è lo Stato'' e che Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò li vogliamo vedere con noi in strada e nelle valli e non rinchiusi in regime di alta sorveglianza, perché il Tav va sabotato, la terra selvaggia va difesa e le galere vanno distrutte. Il nostro agire non si ferma all'atto di negazione. Dobbiamo decidere se continuare ad obbedire o farla finita con tutto questo. Non possiamo relegare i nostri desideri ad un fredda scheda elettorale, perché quando la vita brucia non sia ha più voglia di abitare qui, ma di vivere l'aurora insieme al tramonto di questo vecchio mondo.

Anarchiche e anarchici di Cremona

Fino al 1836 in Francia sopravviveva la tradizione di far marciare in catene i condannati alla prigione. I futuri galeotti venivano incatenati tra loro con collari di ferro e costretti a marciare sulla pubblica via trascinando i segni della propria condanna e mostrando al popolo, che accorreva numeroso, le conseguenze pronte ad abbattersi su chi violava la legge.
Il cammino verso la reclusione, l’ultimo viaggio prima di sparire dietro l’opacità segreta delle prigioni, avveniva dunque sotto gli occhi di tutti, in un cerimoniale pubblico di forte impatto visivo in grado di sprigionare sentimenti contrastanti. La partenza di queste catene umane richiamava il popolo in massa, esibiva il condannato alla folla, alle ingiurie, agli sputi, ma anche alla commozione, alla simpatia, alla complicità; lo esponeva allo sguardo pubblico e mostrava il suo sguardo al pubblico, in un rituale complesso il cui esito non era scontato.
“In tutte le città dove passava, la catena portava con sé la sua festa”. Non solo collari di ferro e catene, segni obbligati della punizione, adornavano i forzati in marcia, ma anche nastri di paglia e di fiori intrecciati, stracci di tessuti colorati, rammendati dagli stessi forzati su strambi copricapo e berretti sfoggiati per l’occasione. Un tocco colorato e irriverente di follia gioiosa, di scherno arlecchino e cenciaiolo, poteva trasformare questa marcia lugubre in una “fiera ambulante del crimine”, una sorta di tribù nomade e galeotta che irrideva i ferri a cui era stata ridotta, malediceva i giudici e ne ingiuriava i tormenti.
E poi quei canti, i canti dei forzati. Canti di marcia intonati collettivamente che tanto impressionavano la plebe e presto diventavano celebri passando di bocca in bocca. Canti che spesso “eccitavano più la fierezza di fronte al castigo” di quanto “non lamentassero il rimorso di fronte al crimine commesso”.
Tutto questo concorreva a incrinare un cerimoniale di giustizia inscenato dal potere come rituale della colpa e del pentimento, lo rendeva socialmente pericoloso perché capace di rovesciare i segni del potere, di mutarne l’ordine del discorso, di soverchiarne il codice morale.
Così scrive la «Gazette des tribunaux» il 19 luglio 1836: “non fa parte del nostro costume il condurre così degli uomini; bisogna evitare di dare, nelle città che il convoglio attraversa, uno spettacolo così orrendo, che d’altronde non è di alcun insegnamento per le popolazioni”. Di lì a poco il trasporto dei condannati verso le prigioni non sarebbe più avvenuto attraverso riti pubblici. Una mutazione tecnica interverrà a ripulire le pubbliche vie di un tale contraddittorio spettacolo: la vettura cellulare.

La vettura cellulare e lo sguardo panoptico.
Michel Foucault, attento studioso della nascita della prigione e dei suoi dispositivi accessori, scrive che “l’imprigionare, che assicura la privazione, ha sempre comportato un progetto tecnico” e che “la sostituzione nel 1837 della catena dei forzati con la vettura cellulare” è “sintomo e riassunto” di una mutazione tecnica, di un “passaggio da un’arte di punire a un’altra”.
La vettura cellulare non è da intendersi nei fatti semplicemente come un carro coperto adibito al trasporto dei condannati che prima venivano sottoposti al castigo supplementare della ferratura pubblica; è piuttosto da considerarsi come un’innovazione tecnica che segna un cambio di paradigma. Questa vettura era concepita come una prigione su ruote foderata di latta.
Impenetrabile allo sguardo esterno, sfila triste per le vie senza rivelare nulla di quanto contiene. Gli sventurati che vi montano, siano essi già condannati o in attesa di giudizio, viaggiano sempre in catene, ma ora in piccole celle singole che impediscono non solo di guardare verso l’esterno, ma anche di incontrare lo sguardo degli altri “passeggeri”. Un corridoio centrale permette invece alle guardie di controllare a vista tutti i trasportati attraverso uno sportello.
Così la «Gazette des tribunaux» descrive questo meccanismo di controllo interno: “l’apertura e la direzione obliqua degli sportelli sono combinate in modo che i guardiani tengano incessantemente gli occhi sui prigionieri, ascoltano le minime parole, senza che quelli possano riuscire a vedersi o a sentirsi tra loro”.
Non un semplice carro coperto, dunque, ma un dispositivo tecnico elaborato con obiettivi precisi: nascondere il condannato allo sguardo pubblico, impedire al condannato lo sguardo verso il mondo di fuori, negare lo sguardo complice tra forzati, perfezionare lo sguardo sorvegliante. Non una semplice scatola mobile di latta, ma una “vettura panoptica”, una prigione degli sguardi che annulla i fasti sbeffeggianti delle catene dei forzati e li rende ciechi, silenziosi, invisibili e controllabili.
L’opacità segreta delle prigioni si estende e anticipa il suo arrivo; la sua ombra ingloba il condannato e lo sottrae alla vista prima ancora che lui metta piede nella prigione stessa. Il pudore borghese delle riforme trasporta senza più mostrare come castiga, senza più dare spettacolo. Niente più gioco di sguardi tra popolo e criminale, l’unico sguardo tollerato è quello del guardiano sul penitente recluso.

La videoconferenza e lo sguardo disincarnato
Veniamo all’oggi e all’Italia. L’ultima frontiera nel campo dei “trasporti per motivi di giustizia” è il processo per videoconferenza, dove il trasporto semplicemente non avviene, se non in forma immateriale.
L’imputato di un processo che si trovi già in carcere per precedenti condanne, o che sia sottoposto a carcerazione preventiva, può essere processato a distanza, senza che debba abbandonare il carcere in cui è ristretto. Accompagnato in una sala attrezzata all’interno del carcere, segue il dibattimento su un apposito schermo, sotto l’occhio vigile delle guardie penitenziarie e quello tecnologico di una telecamera disposta a catturare la sua immagine e a ritrasmetterla nell’aula dove si celebra il processo che lo vede imputato.
Come il passaggio dalle “catene” alla “vettura cellulare”, l’introduzione della videoconferenza segna un passaggio che riassume in sé un cambio di paradigma. La videoconferenza è infatti un dispositivo tecnologico e come tale non è neutrale, ma al contrario la sua mediazione comporta mutazioni profonde che affondano nella viva carne di chi ha sfidato la legge.
Ne I miserabili, Victor Hugo descrive così il dispositivo punitivo per eccellenza, il patibolo: “il patibolo è visione. Il patibolo non è una struttura, il congegno inerte fatto di legno, di ferro e di corde. Sembra una specie di essere dotato di non so quale tetra iniziativa; sembra che quella struttura veda, che quella macchina oda, che quel meccanismo comprenda, che quel legno, quel ferro, quelle corde vogliano. Nella spaventosa fantasticheria che la sua presenza suscita nell’anima, il patibolo appare terribile a partecipe di ciò che fa. Il patibolo è complice del carnefice; divora, mangia la carne, beve il sangue. Il patibolo è una specie di mostro fabbricato dal giudice e dal falegname, uno spettro che sembra vivere una sorta di spaventevole vita fatta di tutta la morte che ha dato”.
La videoconferenza, a differenza del patibolo, non è un dispositivo che esegue una pena già comminata, tanto meno quella di morte che non è più prevista nel codice penale, ma ancor più del patibolo, articolata com’è di microfoni e telecamere, è una “struttura” che “vede”, una “macchina” che “ode”. Certo, non “mangia” la “carne”, ma a suo modo “disincarna” l’imputato, smaterializza il suo corpo, lo riduce a un insieme di bit producendo un impatto visivo e di senso all’interno di un processo che non è da sottovalutare: per suo tramite la presenza dell’imputato, ancorché lontana, diviene spettrale, il suo corpo viene trattato come una interferenza video cui la parola può essere concessa o sottratta con semplice “clic”. Trionfo del pudore riformatore che già ripulì le strade dalle catene umane dei forzati e che ora, attraverso le nuove tecnologie, “libera” le aule di giustizia da quella presenza incomoda e stridente perché vi appaia indisturbata l’astrazione del diritto. Negato è anche l’abbraccio tra coimputati che neppure in quella circostanza possono rivedersi. Nessuno scambio affettivo neppure con il pubblico, che neanche appare sullo schermo. Nessuno sguardo complice, nessun saluto ai propri familiari e amici. Una volta entrati in carcere, seppure in via preventiva, non se ne esce più, neppure per il processo. Intombati, cementati. La giuria stessa è portata a considerarti così pericoloso da non poter essere tradotto al suo cospetto. In qualche modo la tua colpevolezza è già implicitamente designata nei modi di quella tua “presenza”.
In tutto questo, l’imputato ridotto a spettatore passivo. Osserva il suo processo su uno schermo come fosse una puntata di “Forum” o di “Quarto grado”. Unico suo diritto, come da tradizione televisiva, telefonare al suo avvocato durante l’udienza. Eppure è della sua vita che si sta parlando. Suo il corpo eventualmente destinato alla reclusione. Sua la vista amputata dell’orizzonte. Suo il tatto privato della stretta dei suoi cari. Suo l’olfatto orfano della primavera. Suo, infine, lo sguardo, abbattuto o fiero, che affronta il “castigo”, preventivo o definitivo, giorno dopo giorno. La videoconferenza è l’alleata tecnologica che perfeziona la prigione degli sguardi. Codarda, moltiplica gli occhi che scrutano chi ha offeso il confine della legge, ma non trova più il coraggio di guardarlo dritto negli occhi. Metafora cibernetica di una giustizia bendata che si dota di protesi oculari meccaniche, ma rimane sempre cieca.

Conclusioni decantanti
Introdotta in Italia per i detenuti sottoposti a regime di 41bis, la videoconferenza applicata ai processi sta ora rapidamente prendendo piede per tutti i detenuti meritevoli, dal punto di vista della giustizia, di un “occhio” di riguardo. È il caso di Maurizio Alfieri, rapinatore riottoso non incline alla domesticazione carceraria; è il caso di Gianluca e Adriano, anarchici accusati di diverse azioni dirette contro l’Eni, magnati dei rifiuti e altri consorzi veleniferi; potrebbe essere, quantomeno già lo è nella volontà della procura di Torino, il caso di Claudio, Chiara, Niccolò e dello scrivente, accusati di un atto di sabotaggio contro il cantiere dell’Alta velocità di Chiomonte. Una deroga speciale al “diritto di difesa”, che prevede la presenza fisica dell’imputato accanto al difensore durante il processo, giustificata con il solito pretesto della “sicurezza” e dell’“ordine pubblico”. Una novità pericolosa, quella della videoconferenza destinata ad attecchire e a estendersi rapidamente se non subitamente estirpata, dacché, si sa, è l’eccezione di oggi a forgiare la norma di domani. Il paradigma che sottende a questa nuova “mutazione tecnica” è complesso, ed è difficile qui e ora computarne e sviscerarne tutte le declinazioni. Sicuramente il tipo di dibattimento processuale che va delineandosi vede una progressiva scomparsa dell’imputato, un crescente condizionamento a priori della giuria e lo strapotere inquisitorio dei pubblici ministeri. Quella che ho cercato di fare qui è di evidenziare alcune ricadute di questa mutazione tecnica concentrandomi sulla questione dello “sguardo”, cioè sullo scambio visivo tra occhio galeotto, occhio giudicante e occhio pubblico. Molte altre considerazioni altrettanto e anche più pregnanti potrebbero essere fatte. Ad esempio su come la videoconferenza impedisca al difensore di confrontarsi con il proprio assistito durante l’udienza; o ancora come nella spettacolarizzazione dei processi gli effetti speciali e le illusioni ottiche siano spesso più determinanti dei fatti concreti di cui si discute. Ma la mia fede nel diritto è talmente scarsa che non sto a entrare nel merito di certi particolari. Preferisco concludere queste note approssimative attorno al processo in videoconferenza citando alcune vecchie canzoni galeotte, di quelle cantate nelle strade dalle catene dei forzati. Parole schiette che da sole dicono quasi tutto.
“Avidi di infelicità, i vostri sguardi cercano di incontrare tra noi una razza infame che piange e si umilia. Ma i nostri sguardi sono fieri.” “Addio, perché noi sfidiamo e i vostri ferri e le vostre leggi”.

Mattia Zanotti

dalla sezione di Alta Sorveglianza del carcere di Alessandria,

fine aprile 2014

Io non voto. Non ho mai preso parte ad un’elezione e mai lo farò. Per molti l’idea che qualcuno a cui interessa ciò che accade nel mondo rifiuti di votare sembra incredibile. Il senso comune dello Stato democratico ci dice che votare è il modo in cui noi possiamo cambiare le cose e che quelli che non votano sono apatici. È stato anche detto che quelli che non votano non devono lamentarsi.
Ma il senso comune spesso nasconde moltissime supposizioni indiscusse. Questo è certamente vero a proposito dei luoghi comuni sulla democrazia e sul voto. Spero di riuscire, nello spiegare le ragioni per cui non voto, ad indicare alcune di queste supposizioni e a sollevare alcune domande.
Se il mio rifiuto di votare scaturisse dall’apatia, ovviamente non sprecherei tempo a scrivere. Di fatto il mio rifiuto di votare deriva dal desiderio di vivere in un determinato modo, un modo che richiede un cambiamento radicale della struttura sociale delle nostre vite e del mondo. Per quanto possibile, cerco di confrontarmi con il mondo in cui viviamo nei termini di questi desideri, agendo verso la loro realizzazione.
In poche parole, voglio vivere in un mondo in cui posso essere il creatore della mia vita, agendo in libera associazione con altri con cui sento una qualche affinità e di cui gradisco la presenza al fine di vivere insieme nei nostri termini. L’attuale ordine sociale consiste in una rete globale di istituzioni che si frappone sulla strada della realizzazione di questo desiderio. Queste rete comprende istituzioni economiche, non solo le multinazionali in quanto tali, ma anche l’intero sistema di scambio economico, di proprietà privata e statale, di lavoro salariato — le istituzioni del capitalismo. Comprende anche il governo, la legge, la polizia, l’esercito e la burocrazia sociale — le istituzioni dello Stato. Queste istituzioni definiscono le condizioni della nostra vita sociale, costringendoci in ruoli che mantengono e riproducono l’ordine istituzionale. Il mio desiderio di creare la mia vita nei miei termini mi pone in rivolta contro queste istituzioni.
Per poter esistere, le istituzioni dominanti devono toglierci la nostra capacità di creare le nostre vite per noi stessi. Lo fanno trasformando la nostra energia in un’attività che riproduce le istituzioni, e vendendoci parte del prodotto di questa attività. Questo furto della nostra energia vitale significa che l’ordine sociale e coloro che ne sono al potere sono oggettivamente nostri nemici. Questo è il motivo per cui i conflitti sociali sono inevitabili in questo ordine sociale. Ma, soggettivamente, noi diventiamo nemici di questa società quando decidiamo di riprenderci le nostre vite e iniziamo ad agire in questo senso.
Avendo preso questa decisione, cosa significa per me il voto? Innanzitutto, consideriamo il genere di scelta che abbiamo nella scheda. Tutte queste decisioni possono essere ridotte a due domande: 1) chi vogliamo che ci governi? e 2) con quali regole vogliamo essere governati?
Queste domande in sé presumono che non dobbiamo e non possiamo essere i creatori delle nostre vite, che dobbiamo consegnare la nostra capacità di decidere ed agire ad altri i quali determineranno le nostre condizioni di vita sulla base di regole già esistenti. Ma un’elezione non presenta neppure queste due domande in maniera aperta, non permette all’elettore di scegliere liberamente. Ciò è impossibile poiché i candidati ufficiali non prendono in considerazione quanto la gente descrive di volere, nemmeno all’interno dell’ambito limitato di queste domande. Piuttosto, ci viene data l’opportunità di scegliere fra alcuni candidati — individui che vogliono esercitare il potere sugli altri, sebbene in nome del “bene comune”. Candidati che ci vengono presentati da politici professionisti, gente che ha il denaro e il tempo per determinare le questioni su cui ci lasceranno votare sì o no. Nessuno di loro metterà in discussione l’ordine sociale esistente, giacché lo stesso meccanismo elettorale presuppone la necessità di questo ordine.
Perciò votare significa null’altro che scegliere a quale dei pochi padroni presenti sulla scheda l’elettore preferisce obbedire, e con quale delle potenziali regole presenti sulla scheda l’elettore vuole essere governato. Poiché il processo democratico si basa sulla regola della maggioranza, la “scelta” dell’individuo non determinerà comunque quale genere di servitù dovrà sperimentare. Sarà la scelta della “maggioranza” a determinarla per chiunque.
Insomma, votare non è agire, né assumersi la responsabilità della propria vita. Ne è l’esatto opposto. Quando le persone votano, stanno affermando di accettare l’idea che altri debbano determinare le condizioni della loro vita e del loro mondo. Stanno sostenendo che altri devono determinare i limiti delle scelte che fanno, preferibilmente semplificando queste scelte in mere decisioni questo/quello. Stanno delegando ad altri la responsabilità di prendere decisioni. In altre parole, chi vota sta ammettendo di accontentarsi di lasciare la propria vita nelle mani di altri, di rifiutare la responsabilità di creare la vita come la desidera, di evitare il compito di trovare i modi di decidere ed agire direttamente con altri che potrebbero portare a una reale trasformazione della realtà sociale.
Io voglio creare da me la mia vita.
Voglio trovare altri con cui creare modi di agire liberamente insieme per determinare le condizioni delle nostre vite nei nostri termini, senza governanti o strutture istituzionali che definiscono la nostra attività. In altre parole, voglio vivere in un mondo senza padroni né schiavi. Quindi, non voto. Un simile desiderio non potrebbe mai adattarsi a un’urna elettorale. Viceversa, faccio del mio meglio per creare la mia vita in rivolta contro l’ordine dominante. Parlo con gli altri attorno a me della nostra vita e di quanto accade nel mondo, al fine di trovare complici nel crimine definito libertà. Ed agisco, da solo quando è necessario e con altri quando è possibile, verso la realizzazione della vita e del mondo che desidero e contro l’ordine esistente e la miseria che esso impone ovunque alla vita.

Belli, sorridenti, in forma e felici di essere finalmente insieme. Così sono apparsi questa mattina Claudio, Niccolò, Chiara e Mattia all’apertura del processo che li vede imputati per l’attacco al cantiere del Tav di Chiomonte del maggio passato. Fuori dall’aula bunker delle Vallette un grosso e rumoroso presidio a sostenerli, nonostante i nuvoloni che promettono pioggia e la pioggia che arriva davvero scrosciante a metà mattinata. La celere schierata fa filtro, e lascia entrare nell’aula solo una trentina di persone alla volta, così il tempo passa a fare i turni per salutare i quattro, in piedi sulle sedie del pubblico. A fine mattinata i contabili della Questura registreranno circa duecentocinquanta ingressi: chi sceso dalla Valsusa, chi arrivato da altre città, chi dall’estero, è da tanto tempo che non si vede una solidarietà così forte per un processo. Tutto sommato l’atmosfera è abbastanza rilassata e l’udienza è dedicata alle costituzioni delle parti civili e a contestazioni tecniche e di forma. Fuori va in onda l’intervista al compressore e ogni tanto parte qualche slogan. A fine udienza, l’unica sorpresa: alcuni compagni del pubblico restituiscono a Rinaudo e Padalino, con un ben studiato lancio parabolico, i residui delle microspie ritrovate recentemente malnascoste dentro ai locali dell’Asilo occupato di via Alessandria. Proprio come nel caso delle telecamere di qualche mese fa, il lavoro degli agenti speciali in forza alla Procura è stato fatto in maniera sommaria e i marchingegni spioni sono stati allegramente distrutti: dopo TelePadalino, dunque, ora chiude RadioRinaudo.
da: Macerie

Dopo lunghe ore di attesa la Corte di Cassazione si è pronunciata sul
ricorso presentato [1]dai difensori di Chiara, Claudio, Mattia e
Niccolò contro la decisione del Tribunale del Riesame che aveva
confermato l'accusa di terrorismo formulata dalla Procura torinese.
Poco prima della mezzanotte di giovedì 15 maggio è stata emessa la
sentenza che annulla quella del Riesame, cui sono stati rinviati gli
atti per una riformulazione del reato.
Dopo oltre cinque mesi di carcere in regime di alta sorveglianza,
qualche crepa si apre nel fronte giudiziario.
Sebbene il pronunciamento della Cassazione riguardi solo le misure
cautelari, senza investire direttamente il procedimento in corte
d'assise che comincerà il 22 maggio con l'accusa di attentato con
finalità di terrorismo, pare tuttavia improbabile che non influisca
sullo svolgimento del processo.
Nel frattempo per i quattro No Tav, che già ieri avevano avuto
un'attenuazione del duro regime carcerario cui sono sottoposti, con la
cancellazione del divieto di incontro e la riapertura dei colloqui con
amici e compagni, si apre uno spiraglio.
Una buona conclusione per una giornata che si era aperta con la notizia
che l'autista del PM Antonio Rinaudo, che aveva denunciato
un'aggressione da parte di tre No Tav mascherati, si era inventato
tutto. Chi sa se la messa in scena era interamente frutto
dell'immaginazione dell'ex carabiniere o la commedia era stata scritta e
sceneggiata a più mani?
IL PROSSIMO APPUNTAMENTO È PER L'APERTURA DEL PROCESSO GIOVEDÌ 22
MAGGIO.