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Il coronavirus e la narrazione tossica della disabilità

Tutto l'abilismo di un'emergenza: ecco come i corpi disabili vengano raccontati durante i giorni del Covid-19

Ogni film catastrofista, ogni romanzo di guerra, ogni graphic novel su futuri distopici è per me occasione d’esercizio immaginifico sulla mia morte. Se sei stata una bambina con disabilità e poi una ragazza con disabilità per diventare infine una donna sempre con disabilità, allora sei cresciuta con la richiesta di rimanere razionale.

Nelle esercitazioni d’evacuazione ti insegnano a stare al tuo posto, a non intralciare la fuga degli altri e ad attendere che i soccorritori vengano a salvarti. Sull’aereo starai sempre dal lato del finestrino così che le persone accanto a te possano fuggire senza doverti scavalcare.

E no, non puoi arrabbiarti. Non puoi nemmeno diventare troppo triste.

La gestione delle emergenze è una scienza e tu, cosciente della tua condizione fisica, devi capire che la società è qualcosa di complesso e in ogni emergenza l’obiettivo è di salvare il maggior numero di persone che possano poi sopravvivere.

Abbracciare i tuoi limiti è tuo dovere, gioire di quello che hai, per il tempo in cui l’avrai, è buona pratica.

Ambire alla sopravvivenza durante un’epidemia zombie sarebbe quindi uno sciocco spreco di tempo, meglio coltivare fantasie di morti eroiche in cui il tuo lascito sarà la sopravvivenza della persona amata piuttosto che di una comunità intera o un gruppo di bambini…

Coronavirus: come rinforzare una narrazione tossica

Poi arriva il coronavirus e tu vivi a pochi km da quella cittadina di cui tutti parlano perché epicentro della versione italiana della contaminazione.

E scopri che no, ora che siamo al dunque tutto quell’esercizio fatto nei tuoi primi 35 anni di vita non ti sta bene per niente.

Carissimo mondo, cara televisione, car* giornalist*, adorat* espert* nelle più disparate materie scientifiche, per quanto sia lodevole il vostro tentativo di dire che il coronavirus Covid-19 è una malattia che solamente per una bassa percentuale della popolazione risulta letale, voi, ogni volta, concludete dicendo che a morire sarò io.

«Il coronavirus è pericoloso per i soggetti deboli… persone anziane… persone con pregresse malattie respiratorie…malati oncologici »

Non l’ho capito subito. Alle prime interviste mi sembrava quasi che le loro parole calmassero anche me. O forse desideravo solo essere confortata. Essere considerata anche io un soggetto da confortare.

Ma noi non lo siamo. Non lo sono io, non lo sono le persone anziane, non le oncologiche. Noi, tutt* noi, siamo l’esempio che conforta gli altri. Lo siamo quando veniamo chiamat* ad essere esempi di vita, di resistenza e di saggezza (leggi alla voce abilismo).

Lo siamo quando ci viene chiesto di accogliere nei nostri ranghi la percentuale mortale di una malattia.

In fondo viviamo così lontan* dall’idea di immortalità e così in confidenza con quella di morte, che non sarà certo un grande sforzo accettare il ruolo di casi limite in una narrazione collettiva finalizzata a non mettere in discussione la potenza dei sani.

Un’occasione sprecata

Si poteva usare in tanti modi questo momento.

Questo virus, il suo muoversi facilmente nel mondo, poteva diventare occasione per ricordarci che siamo umani e in quanto tali siamo fragili. Avremmo potuto accettare tutt* insieme che non siamo immortali, non solo noi soggetti deboli ma anche quel 40enne che sente l’eterna potenza scorrere nelle sue ossa.

Sarebbe stato bello per una volta cercare un senso più nobile in un momento effettivamente speciale. Forse si sarebbe creato un precedente illuminato, forse la cura di sé e degli altri avrebbe veramente occupato per qualche tempo il centro del mondo. E siccome sto facendo un gioco di fantasia mi piace spingermi oltre e pensare che forse il capitalismo avrebbe tremato vedendo vacillare i suoi finti corpi immortali e prestanti.

Saremmo stat* tutt* fragili e noi, che la fragilità la conosciamo da sempre, giuro che ci saremmo pres* cura di voi.

Ma non è accaduto niente di tutto questo.

Avremmo potuto navigare insieme, invece ognun* è rimast* ancorat* al suo scoglio e alla riflessione collettiva si è preferita la consolazione più immediata.

Forse mi ammalerò e se accadrà la tv mi ha detto che molto probabilmente occuperò quella piccola percentuale di senza speranza quindi, visto che come ho già detto mi organizzo la morte da quando sono bambina, ho deciso di scrivere questo articolo. Non potrò salvare nessuno con il mio trapasso e se avverrà come dicono sarà solitario e tutt’altro che eroico, però voglio dirvi che mentre il virus serpeggia a qualche km da me, io leggo Laura Pugno che nel suo “In territorio selvaggio” dice:

«Il selvaggio è deciso da noi, non esiste in natura, si crea nel momento in cui chiudiamo la porta di casa, definiamo un dentro e un fuori (…) Viene da sé, dal selvaggio, che sia pericoloso».

C.B.

Tratto da: https://pasionaria.it