Segue uno scritto sulle foibe realizzato da anarchicx antifascistx modenesi:
Il 20 settembre 1920, in visita a Pola, Mussolini così si proferiva:
« […] io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani.»
Questa dichiarazione d’intenti diede il via a una politica di italianizzazione forzata, esplicitamente indirizzata alla pulizia etnica della Venezia Giulia, annessa al Regno d’Italia nel 1918 alla fine della Prima Guerra Mondiale. Il piano coloniale del neonato regime comportò tra le altre cose: l’obbligatorietà dell’insegnamento scolastico esclusivamente in italiano; la cessata pubblicazione di libri e giornali, nonché la chiusura delle scuole, così come degli istituti culturali di lingua slovena, croata ed istrorumena; il cambio imposto ai nomi delle persone e alla toponomastica pubblica, e finanche la “revisione” delle epigrafi giudicate non “sufficientemente italiane” sulle lapidi dei cimiteri.
Nel 1939 in Istria, su 607.000 abitanti, 265.000 risultavano di lingua italiana (il 44%), a fronte di 342.000 parlanti lingue slave (56%), ovvero: la maggioranza della popolazione della penisola istriana non era italiana. Questo censimento, compiuto dal regime, fu mantenuto segreto. Storicamente gli slavi formavano la massa contadina dell’entroterra istriano, mentre gli italiani, perlopiù concentrati sulle coste, (tutti pronipoti della secolare colonizzazione veneziana sulle sponde adriatiche) erano prevalentemente commercianti, artigiani, proprietari terrieri. A questi italiani lungamente insediati nella penisola, si aggiunsero – importati in Istria dal Nord come dal Sud del regno – in un flusso veicolato dal regime tra i primissimi anni ’20 e la prima metà degli anni ’40, 130.000 coloni di nuova immigrazione. Tra questi, 47.000 formavano una sorta di compound: una pletora di funzionari, burocrati, militari, guardie.
I rapporti numerici tra le componenti etniche istriane, tuttavia, permanevano a favore degli slavi, (così come già nel 1910 appurava il censimento austroungarico) nonostante nei ventun anni intercorsi dall’annessione della Venezia Giulia nel 1918, fino all’approssimarsi della Seconda Guerra Mondiale nel 1939, questi slavi, tra sloveni e croati (nonché componenti minori di ungheresi e tedeschi) di Venezia Giulia, furono indotti all’esilio dalle autorità del Regno d’Italia, nell’ammontare di circa 80.000 individui. A questi se ne sommarono poi altri 30.000 nel successivo primo lustro degli anni ’40.
Il regime fascista, con il benestare della corona sabauda, propugnò una pulizia etnica complessiva dei territori al confine orientale, ed i toni assunti dalla burocrazia, dalla politica e dai militari, così come le formule elaborate per raggiungere questo obbiettivo, non mancarono di nulla nel raffronto con la conseguente politica razzista che ha condotto alla promulgazione delle leggi razziali ed alla creazione dei campi di sterminio, tra il 1938 ed il 1945, in tutti i Paesi dell’Asse Roma-Berlino.
«Non sarei contrario all’internamento di tutti gli sloveni per rimpiazzarli con italiani»
(Gen. Mario Robotti)
«[...] Se necessario, non rifuggire da usare crudeltà. Deve essere una pulizia completa.
Abbiamo bisogno di internare tutti gli abitanti e mettere le famiglie italiane al loro posto»
(Gen. Mario Roatta)
Tra il 1941 e il 1943, l’Italia invase la Jugoslavia senza dichiarazione di guerra. Nelle zone delle operazioni 250 villaggi furono distrutti. Si stimano tra i 200.000 e i 340.000 civili massacrati, nella quasi totalità slavi, durante esecuzioni sommarie e nei rastrellamenti, in subordine ai comandi genocidi impartiti dalle alte leve militari, eco delle politiche dello Stato italiano invasore.
Tra la primavera del 1942 e l’estate del 1943 almeno 100.000 civili croati, sloveni e montenegrini vennero deportati nei 169 campi di concentramento approntati sia in Italia che nei territori occupati dall’esercito italiano. Di questi internati, sono stimati tra gli 11.000 e i 16.000 coloro che perirono di stenti, malattie, fame, maltrattamenti.
«Logico e opportuno che campo di concentramento non significhi campo d’ingrassamento.
Individuo malato = individuo che sta tranquillo»
(Gen. Gastone Gambara)
«Si ammazza troppo poco!»
(Gen. Mario Robotti)
Nei primi giorni di settembre del 1943, a séguito della dichiarazione di resa del regno, l’Istria – come altre zone – insorse contro i fascisti. Oltre 600.000 regolari dell’esercito italiano impegnati fino ad allora nel fronte jugoslavo, si rifiutarono di entrare nelle fila della RSI. Di questi, circa 16.000 fuoriusciti si unirono ai partigiani jugoslavi per combattere: i fascisti italiani, gli ustaša croati, i četnici serbi. Nelle zone insorte, come spesso avviene durante le rivolte, bande di irregolari e cani sciolti si abbandonarono ad atti prettamente improntati alle più brute vendette personali, privi di qualsivoglia connotazione politica immediatamente riconoscibile.
Dopo che le forze naziste e fasciste riconquistarono la penisola nell’autunno del ‘43, e tutta la Jugoslavia fu invasa, l’Istria fu messa a ferro e fuoco, e i reparti delle camicie nere, con il loro complice tedesco, in quei giorni di fine ’43, causarono 13.000 vittime civili tra rastrellamenti e razzie. Negli stessi mesi venne messo in circolazione un pamphlet preparato dalle autorità fasciste per ordine del Comando Tedesco, dal titolo «Ecco il conto!» che si produsse in numeri iperbolici sui morti infoibati durante le insurrezioni popolari del settembre ’43, insinuando come movente l’odio etnico. I dati ivi contenuti, mai corroborati da nessun documento ufficiale, sono gli stessi che i neofascisti oggi propongono e ripropongono ossessivamente, tramutando questo fogliaccio senza né capo né coda nel primo esempio di propaganda assurto a documento storicizzato, base di tutti i successivi testi sui “massacri delle foibe”, che i governi italiani degli ultimi quindici anni, a prescindere dalla loro addotta colorazione politica, hanno acriticamente fatto propri, inverando la collusione e il legame intrinseco – mai venuti meno – tra lo Stato italiano e il fascismo, sia vecchio che nuovo.
Nell’esilio di milioni di persone, che seguì alla fine della guerra – tragedia che si aggiunse alla già immane catastrofe bellica – si annoverarono anche i profughi dalla Jugoslavia, pur con cifre modeste, se comparate a quelle dei Paesi più settentrionali e orientali. Tuttavia, chi accampa la narrazione di una pulizia etnica “titina”, che volle scacciare gli italiani dalla Jugoslavia, omette maliziosamente di citare gli oltre 24.000 italiani che scelsero di rimanere in Istria. Allo stesso modo, tra coloro che partirono per l’Ovest, circa il 10% era di origine slava. Piuttosto che di pulizia etnica, sarebbe opportuno parlare di confino politico: laddove l’elemento padronale e borghese, in maggioranza italiano, fuggì temendo di perdere i propri privilegi e i propri ruoli di potere, nel riordino in atto, in seno al neonato Stato socialista jugoslavo.
Presunti storiografi si slanciano in strali contro i partigiani jugoslavi, accusandoli di odio etnico, ancorché politico, straparlando di 30.000 o 50.000 italiani morti nelle foibe. La verità è che, nonostante già nel tardo 1943, e ancora nei primi anni ’50, le foibe siano state esaminate da cima a fondo più volte, sono stati riesumati complessivamente non oltre 570 corpi, alcuni irriconoscibili, altri già “infoibati” dagli stessi fascisti nei venti anni abbondanti che li hanno visti taglieggiare l’Istria nel compiere le loro scorrerie in lungo e in largo nei territori al confine orientale. Molti di questi morti infoibati furono riconosciuti come gerarchi, squadristi, burocrati, simpatizzanti o collusi col regime; altri – una ristretta minoranza – vittime di regolamenti di conti.
Circolava, nel ventennio, una grottesca filastrocca:
«A Pola xe l’Arena,
la Foiba xe a Pisin
che i buta zò in quel fondo
chi ga zerto morbin.»
Suonava come una esplicita minaccia ai dissidenti politici, e agli appartenenti alle comunità non italiane dell’Istria:
“ad avere certi grilli per la testa, si finisce nell’abisso della foiba di Pisino”. I primi “infoibatori” furono proprio i fascisti. Gli stessi che oggi accusano i partigiani jugoslavi e italiani di pulizia etnica e di violenza dettata da vendetta ed odio politico. Gli stessi che si inventarono già nel 1943 decine di migliaia di vittime, propalando brutture della Storia attraverso le loro deformanti strombazzature. Gli stessi che continuano a farlo oggi spacciando documenti di becera propaganda come manuali di storia, citandosi gli un gl’altri nei propri squallidi libelli. Gli stessi che quando non falsificano bellamente i dati per avallare la loro prosopopea di infamanti fandonie, si “limitano” a sciorinare numeri astronomici, senza sentirsi in dovere di comprovarli con un solo documento attendibile, appoggiandosi alla protervia di chi ha la forza pubblica dalla propria parte, e non la ragione degli argomenti. Gli stessi che si sono da sempre accreditati con ruoli autorevoli nelle istituzioni repubblicane – a parole: antifasciste per un giorno solo all’anno, e nei fatti fasciste per gli altri 364 giorni.
Quelle istituzioni tacciono i dati tangibili delle malefatte, prassi dello Stato fascista, preferendo piangerne i gerarchi, mentre ignorano le migliaia di vittime innocenti della furia razzista del regime nel ventennio. Le stesse istituzioni che hanno occultato i crimini di questi gerarchi fino agli anni ’90 inoltrati, secretandoli negli “armadi della vergogna”. Le stesse istituzioni che hanno amnistiato i criminali repubblichini già dai primissimi anni dello Stato “sedicente” antifascista, nella compiacenza di tutte le forze politiche. Le stesse istituzioni che hanno guidato e armato le mani dei neofascisti: nel 1969 a Milano, nel 1970 a Gioia Tauro, nel 1974 a Brescia e a San Benedetto Val di Sambro, nel 1980, e di nuovo nel 1990, a Bologna, per difendere il potere costituito dei padroni mandanti con il bieco ed utile servaggio dei sicari stragisti.
Di questi gerarchi periti nel ‘43 non piangiamo la morte, ma ne esultiamo. Di questi tagliagole manutengoli dei padroni, godiamo ogni volta che sappiamo essercene uno in meno. Verso i loro padroni che si fanno schermo con i morti, alla bisogna inventandoseli di sana pianta, nutriamo il più profondo disprezzo.
Nel Giorno del Ricordo, invece, la nostra memoria va a tutte le vittime di questo odio: un odio razzista e classista, che in quei cupi giorni del ’43 fu – in parte almeno – rispedito al mittente. Così come nella primavera del 1945 eppoi ancora nella successiva estate; ed a Milano nell’inverno e nell’autunno del ’47, ed ancora nell’inverno del ’49. E nell’estate del ’72 a Salerno; ed a Roma nella primavera del ’73, eppoi nell’inverno del ’78. Così come sempre dovrebbe essere in un Paese che fosse sinceramente antifascista. E che invece è come un mentitore seriale, assassino se necessario, che sogghigna tentando di sorridere, e cela dietro la schiena un pugnale inguainato in un antifascismo fittizio. Vile, falso e omicida, come i suoi sempre rinverditi servi in camicia nera, che frignano farsescamente addosso ai morti del Giorno del Ricordo.