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Il 9 ottobre è iniziata l’operazione “Sorgente di pace”, scatenata dalla Turchia di Erdogan nel Nordest della Siria, il cui intento è spezzare la Resistenza curda.
In Siria è in corso una guerra in cui le potenze internazionali si contendono la spartizione di petrolio e materie prime.
La Turchia, a cavallo tra Europa e Medio Oriente, è la seconda forza armata della NATO. Stima affari da record con i paesi occidentali per quanto riguarda la vendita di armi e materiale bellico.
Lo Stato turco è legato a doppio filo con l’Italia, negli ultimi 4 anni sono state autorizzate forniture militari per 890 milioni di euro ed è stato consegnato materiale bellico per 463 milioni di euro.
A Tal proposito, il professore e giornalista Antonio Mazzeo riporta alcuni dei ricchi contratti che l’italiana Leonardo, ex Finmeccanica, intrattiene con le forze armate di Erdogan:
<< La filiale turca di Leonardo Finmeccanica (Turkey Havacılık, Savunma ve Güvenlik Sistemleri – Leonardo Turkey Aviation, Defence and Security Systems), produce l’elicottero d’attacco T129 utilizzato per gli attacchi contro i kurdi, radar per la difesa aerea, sensori navali, il programma satellitare Göktürk. All’ultima fiera di guerra ad Ankara, Leonardo ha offerto in vendita alle forze armate turche l’International Flight Training School (IFTS), lanciata con l’Aeronautica militare italiana e basata sull’ addestratore avanzato M-346 (quello acquistato da Israele), e il grande areo da trasporto armi, truppe e mezzi C-27J.
Da “Rivista Italiana Difesa” dopo IDEF 2019: “Per chiudere un accenno anche ad un’eventuale cooperazione tra Italia e Turchia sugli elicotteri da combattimento. Dopo il successo dell’operazione T-129 ATAK, che ha fruttato a Leonardo un notevole introito economico (senza dimenticare il mantenimento del controllo su alcune tecnologie core quali le trasmissioni), non è da escludere pure una cooperazione sul nuovo elicottero d’attacco pesante ATAK 2 con una possibile convergenza tra i requisiti turchi e quelli italiani rappresentati dall’AW-249” >>.
Questa è solo una parte delle relazioni tra l’Italia e le forze armate turche. Queste ultime infatti vantano una presenza non marginale proprio a Vicenza, all’interno delle agenzie di polizia internazionali dislocate presso la caserma dei carabinieri Chinotto.
In questa struttura, hanno la propria sede la Gendarmeria Europea, il Centro di Eccellenza per la Polizia di Stabilità della NATO e il Centro di Eccellenza per le Unità di Polizia di Stabilità dei Carabinieri.
Con ciascuna di queste agenzie collabora la Jandarma, la Gendarmeria turca che fornisce uomini e mezzi  all’Eurogendfor, così come alla NATO SP COE, il cui vicedirettore è il colonnello della Jandarma turca Tamer Sert.
Invece presso il Coespu la gendarmeria turca riceve formazione e addestramento. Negli ultimi due anni, sono stati formati più di 1500 militari turchi all’interno di un corso di formazione denominato “Rafforzare la capacità istituzionale del Comando Generale della Gendarmeria turca in materia di gestione dell’ordine pubblico e controllo della folla”, iniziato nel 2017 e conclusosi a febbraio 2019.
Il corso di formazione è stato sviluppato all’interno del progetto di gemellaggio europeo EUTwinning 2016-18 promosso da “Studiare Sviluppo”, società del Ministero dell’Economia e Finanza, specializzata nel supporto alle politiche pubbliche per lo sviluppo e la cooperazione internazionale che tra le altre cose, si occupa anche di “Tutela della salute, sicurezza interna e dei confini” degli stati beneficiari attraverso la stretta collaborazione attivata proprio con i Carabinieri del Coespu. Questi ultimi si sono occupati dell’addestramento dei militari turchi alternando lezioni nella sede di Vicenza ad altre tenutesi in Turchia.
La mission di agenzie come il Coespu è quella di formare unità di polizia da impiegare nelle missioni di “peace-keeping”, un modo subdolo per definire interventi militari che prevedono lo schieramento di forze armate volte a ristabilire l’ordine negli scenari di cosiddetta crisi.
La guerra, quindi, non è un’entità distante dai nostri luoghi quotidiani. Nel caso di Vicenza, è qui che la guerra viene orchestrata, insegnata e poi esportata dove si consumano i conflitti. Il caso turco, a sua volta, è emblematico. La Turchia è, da sempre in prima linea, nella repressione dei movimenti di piazza, come successe nel 2013 al Gezi Park, dove il movimento di protesta contro il premier Erdogan venne stroncato nel sangue, piuttosto che contro la minoranza curda che rivendica indipendenza e autonomia. La repressione parte dal nostro cortile di casa e lo Stato turco presta il fianco alla sperimentazione di pratiche repressive che poi impiega a casa propria contro chiunque metta in discussione l’autorità preposta.

Vicenza
ottobre 2019

Sentire parlare "di pene spropositate" ed "ingiustizia" per delle sentenze nelle aule di tribunale è quanto mai penoso. Lo Stato si difende sempre da chi cerca di mettere i bastoni fra le ruote al suo potere e ai suoi tirapiedi. Non è mai simpatico e provoca rabbia quando degli antifascisti ricevono delle condanne, ma certe parole e certi comportamenti dovrebbero farci riflettere. Profonda diserzione con chi pensa che i tribunali siano luoghi neutrali. Difendersi dai fascisti e dalla polizia in modo autodeterminato non ci sembra "doveroso" ma giusto, per liberare il pensiero negli infiniti mondi dell'attacco.

Un caldo abbraccio ad Emilio e a quegli antifascisti che portano in cuore l'idea che antifascismo possa far rima soltanto con anticapitalismo, come dimostrato il 24 gennaio 2015 nelle strade di Cremona, in risposta ai drammatici momenti vissuti il 18 gennaio che non potremo mai dimenticare.

Inviolabilità

Se si pensa che nella tradizione cristiana già il primo uomo apparso sulla terra disobbedisce al precetto divino ed incorre per questo nella punizione, e che a commettere il primo omicidio è un suo diretto discendente, è evidente come l’origine della giustizia si perda nella notte dei tempi, nascendo in risposta al problema posto da chi disturba l’ordinamento sociale ed economico.  Motivo per cui dichiararsi contro la giustizia risuona all’orecchio dei più come uno scherzo di cattivo gusto, una provocazione, una follia, specialmente in un’epoca giustizialista come quella che stiamo attraversando. Un luogo comune di secolare solidità vuole infatti che non si possa avversare la giustizia, perché altrimenti ciò significherebbe essere a favore dell’ingiustizia, del sopruso, della tirannia. E questa convinzione è penetrata talmente a fondo nell’animo umano che tutti coloro che nel corso della storia hanno criticato la giustizia si sono sempre premurati di specificare di essere contrari solo ad un suo particolare operato, a una sua cattiva gestione, a una sua applicazione considerata errata. Ma la giustizia in sé, la giustizia in quanto tale, è sempre stata considerata un concetto inviolabile. Dati per scontati sia il disordine della condotta umana che la necessità di porvi un freno attraverso la giustizia, il solo dubbio capace di macchiare la nobiltà di questa misura riguarda al più la rettitudine di chi è incaricato ad amministrarla. La dea munita di spada e bilancia per manifestarsi ha bisogno di sacerdoti, i quali a volte possono non dimostrarsi all’altezza del compito affidatogli. Tutte le discussioni sulla giustizia si esauriscono qui, con la richiesta di un giudice umano capace di rompere con le tradizioni di una magistratura mummificata e fossilizzata negli articoli di un codice feroce. Per esprimersi “realmente”, la giustizia non ha bisogno di un giudice funzionario, nemico naturale di chi ha violato il codice e che distribuisce sentenze in maniera automatica, ma di un giudice che faccia sentire il soffio dell’eguaglianza e della fratellanza nelle assoluzioni come nelle condanne. Perché — ci viene detto — è la legge che deve essere fatta per l’uomo, e non l’uomo per la legge. Chissà!  

Soggezione

«Giustizia (s.f.): un articolo che lo Stato vende, in condizioni più o meno adulterate, al cittadino, in ricompensa della sua fedeltà, delle tasse e dei servizi resi»: Ambrose Bierce

In effetti esiste più di un buon motivo per cui le critiche alla giustizia hanno avuto come oggetto principale la sua pretesa neutralità. Se è vero che Giustizia è sinonimo di Virtù — di una virtù oserei dire trascendentale che, se magari non è più espressione della volontà divina, rimane comunque lontana dalle meschinità umane — dall’altro lato non si può nascondere che essa si manifesta concretamente grazie a leggi fatte dall’uomo. E l’uomo, si sa, non è perfetto.  Qualcuno ci ha tramandato che l’origine della parola legge derivi dalla forma indoeuropea légere, cioè leggere. La Legge che tutti noi dobbiamo osservare è stata scritta, poco importa se sulle tavole di Mosé o in un codice. La questione cruciale appare subito chiara: chi ha scritto la legge? Evidentemente chi ha avuto il potere di farlo. E perché lo ha fatto? Altrettanto chiaramente, per difendere i propri privilegi. Motivo per cui la legge, in quanto tale, è necessariamente arbitraria poiché obbedisce agli interessi di chi può imporla, vale a dire di chi detiene l’autorità. Dietro la retorica che la vuole un nobile ideale perseguito dall’essere umano, la giustizia non è altro che un modo di avallare un determinato sistema di valori. Non a caso le interdizioni che sono state imposte attraverso la storia sono così diverse tra loro che non si potrebbe trovare una sola pratica universalmente considerata come “criminale”, neanche l’incesto o il parricidio. Se la Giustizia fosse davvero uno strumento superiore i cui principi normativi toccano l’essenza dell’essere umano, le sue leggi sarebbero eterne ed universali e l’uomo troverebbe la propria realizzazione attraverso il loro adempimento. Invece queste leggi cambiano continuamente — a seconda dell’ordinamento sociale, politico ed economico che devono regolamentare — e questo può significare una cosa sola: attraverso le leggi si manifesta un volere umano, non certo divino.  Ma riconoscere il carattere arbitrario della giustizia non comporta di per sé una sua messa in discussione. Per quanto di parte, la giustizia appare comunque indispensabile. Nel mito che Platone fa esporre a Protagora nel dialogo omonimo, si dice che finché gli uomini non impararono l’arte politica, che consiste nel rispetto reciproco e nella Giustizia, non poterono riunirsi in città ed erano attaccati dalle fiere. Il rispetto della giustizia permetterebbe quindi agli esseri umani di convivere. Ancora oggi, è opinione diffusa che il venir meno delle regole su cui si fonda la nostra civiltà scateni gli istinti più feroci. Senza una autorità, rappresentata dallo Stato, che ne moderi gli appetiti, i singoli individui non sono in grado di vivere assieme. Lasciati a se stessi, gli individui sostituirebbero la forza della legge con la legge della forza (la polizia come unico baluardo contro il dilagare di omicidi, stupri e stragi di innocenti). La giustizia nasce quindi dalla constatazione che nell’individuo non c’è legge, non c’è ordine. Dunque lo Stato nasce a posteriori così come le regole, le leggi, le convenzioni morali, e poggia sul ribollente magma dell’anomia morale. L’individuo si sottomette allo Stato soltanto perché ritiene di aver bisogno di salvaguardare e stabilizzare i suoi rapporti. Costruisce un ordine esterno per placare il disordine che cova dentro di sé, ma una tale organizzazione non avrà mai nulla a che fare con la sfera interiore, con l’animo umano e le sue più segrete (e paurose) pulsioni. L’individuo, essere mostruoso, deve lasciar il posto al cittadino, al soggetto dello Stato, il solo in grado di vivere senza causare danni poiché scrupoloso osservatore dei precetti della giustizia. La legge è quindi ciò che ci lega, nel suo duplice significato: ciò che ci unisce, il nodo del vincolo sociale, è anche ciò che impedisce i nostri liberi movimenti. Una simile concezione la dice lunga sul conto del mondo che la adotta, i cui abitanti necessitano di proibizioni esterne in mancanza di una propria consapevolezza interiore, si sentono uniti da una comune competitività e non dalla solidarietà, si percepiscono come se ognuno fosse il secondino dell’altro e pensano che la libertà rappresenti una catastrofe per la loro esistenza, anziché considerarla come ciò che potrebbe darle un senso. Purtroppo, tutto ciò non è straordinario. Siamo talmente addomesticati da una educazione che fin dall’infanzia cerca di sedare in noi lo spirito di indipendenza e di promuovere quello di soggezione, siamo talmente abituati a una vita controllata da uno Stato che ne legifera ogni aspetto — nascita, sviluppo, amori, amicizie, alimentazione, morte — che alla fine perdiamo ogni iniziativa, ogni autonomia, ogni capacità di affrontare e risolvere direttamente i problemi che la vita ci pone. Ecco perché, all’interno di ogni Stato, una nuova legge è considerata come il rimedio per tutti i mali. Invece di cercare di risolvere il problema comprendendone le cause, si comincia col chiedere una legge che vi metta riparo. La strada fra due città è impraticabile? Occorre una legge che regoli il traffico. Un esecutore della legge ha abusato del suo potere? Occorre una legge che ordini ai gendarmi di essere più rispettosi. Gli industriali intendono ridurre i salari? Occorre una legge che difenda gli interessi dei lavoratori. Insomma, per affrontare i conflitti che sorgono dall’attività dell’uomo c’è solo bisogno di una legge appropriata. Attraverso l’applicazione della giustizia, lo Stato pretende di moderare e gestire questi conflitti. Si può quindi constatare che la giustizia non elimina i conflitti, non li previene affatto. Niente e nessuno può farlo. La giustizia si limita a normalizzarli, a codificarli. Così facendo, li aggrava e ne provoca degli altri fino ad arrivare all’assurdità del rimedio “criminogeno”, rimedio peggiore del male.  Da parte loro, i nemici dello Stato hanno pensato di risolvere il problema in altro modo, attribuendo ogni contrasto umano al funzionamento dello Stato stesso. Una volta che la “criminalità” viene definita la reazione a un’organizzazione difettosa della società, appare più concreta la possibilità di sopprimerne le cause trasformando i rapporti umani. L’abolizione del crimine e della carcerazione è stata infatti una delle preoccupazioni primarie del comunismo utopico, che sostituì alla rassegnazione gaudente dei cristiani di fronte al peccato, una ricerca razionale dei rimedi all’esistenza del male. I suoi grandi principi erano semplici: il furto e l’omicidio non hanno più ragione d’essere nel momento in cui la proprietà privata e la famiglia lasciano il posto all’esistenza comunitaria. Se la felicità è garantita per tutti, gelosia e risentimento svaniscono portandosi con sé gli atti di violenza generati da questi sentimenti. Una simile armonia sembra essere però ben lontana dalle passioni umane e non può essere immaginata senza un poderoso riduzionismo. I vari tentativi effettuati in passato di sperimentare praticamente l’utopia hanno sempre generato conflitti, che non ne volevano sapere di scomparire d’un tratto, rivelando l’astrazione della felicità proposta. Contro lo Stato e la sua giustizia, l’armonia sociale non saprebbe realizzarsi che a prezzo di costumi austeri e frugali. «Ho letto gli scritti di qualche celebre socialista — faceva notare Victor Hugo nel maggio 1848 — e sono rimasto sorpreso nel vedere che abbiamo, nel diciannovesimo secolo qui in Francia, tanti fondatori di conventi». In effetti, l’arcadia socialista non prometteva la felicità che a placidi cenobiti. I suoi fautori arrivarono spesso alla perfezione totalitaria poiché — per estirpare l’energia pericolosa presente nell’essere umano ed evitargli ogni occasione di scontro con altri — teorizzarono una minuziosa organizzazione di ogni istante di vita.  

Astrazione

Dunque lo Stato pretende che l’essere umano sia cattivo, per legittimare la propria esistenza. Nelle sue mani, la giustizia è un’arma contro la minaccia della barbarie. I nemici dello Stato invece pretendono che l’essere umano sia buono, per sostenere l’inutilità dello Stato. Nelle loro mani, la giustizia è una siringa da usare per scopi terapeutici. E se l’essere umano non fosse né buono né cattivo, ma semplicemente in preda ai suoi tormenti, cosa resterebbe della giustizia? Se la vita non avesse una meta universale, non dovesse scoprire alcuna verità, se la natura umana non avesse alcuna essenza, se non esistesse nulla di giusto da contrapporre a ciò che è sbagliato, giacché esiste solo ciò che è mio e ciò che non lo è, non è forse vero che ogni norma regolatrice il comportamento umano diventerebbe un insopportabile sopruso? Di fatto, se la giustizia ricorre alla polizia per imporsi, è proprio perché il carattere della giustizia è poliziesco. La tutela delle condizioni essenziali della convivenza civile — di cui la giustizia si fa garante — si traduce praticamente nel controllo della pace sociale all’interno dello Stato (o della Comunità); l’obbligo per ciascuno di uniformare il proprio comportamento a quanto dettato dalla legge, pena la privazione della libertà, non garantisce affatto l’equità della giustizia ma ne indica soltanto la ferocia. Una norma valida per tutti non è affatto equa, essendo astratta e, quel che è peggio, trasforma anche noi in astrazioni. La giustizia che punisce l’omicidio con la reclusione a vita o con la morte non sa chi sia la vittima, chi l’assassino e quali le ragioni del suo gesto, né conosce fino in fondo tutte le conseguenze. Con la farsa delle circostanze “aggravanti” e di quelle “attenuanti”, la giustizia tenta di immettere un tocco di vita nelle sue sentenze, senza per altro riuscirvi, in quanto è consapevole della propria freddezza. Ma la condotta umana non può essere codificata, ha molteplici cause ed è frutto dell’incontro casuale di circostanze e di caratteri diversi. Una norma non può racchiudere questa totalità, non la può cogliere nella sua unicità, è costretta a fare astrazione dalla realtà concreta dei singoli se vuole imporsi a tutti. Ma i conflitti che sorgono fra esseri umani non sono astratti, sono reali. Sono il risultato di rapporti sociali concreti, della diversità degli interessi, dei sogni, del carattere degli individui. Nella sua astrazione, la giustizia isola l’individuo in carne e ossa separandolo dal rapporto e dall’ambiente sociale in cui il suo atto ha avuto luogo, negandone così il significato. Ancor di più, la giustizia separa l’individuo-accusato dal dibattito che lo riguarda delegando la sua autonomia, come avviene nel resto della vita sociale, ai suoi rappresentanti: gli avvocati. Così come i cittadini delegano allo Stato il compito di decidere come vivere la loro vita, così delegano alla giustizia il compito di come risolvere i loro conflitti. In quanto meccanismo separato di risoluzione dei conflitti, la giustizia non viene meno se si conferiscono le sue funzioni ad un’altra entità, posta al di sopra degli individui, ma più fluida, rinnovabile, sottoposta ad elezioni o controllata da assemblee popolari. Una giustizia “più umana” non cesserebbe di essere una macchina per separare il Bene dal Male, di esprimersi indipendentemente dai rapporti sociali e quindi inevitabilmente contro di essi.  

Vendetta

Il sogno di ogni totalitarismo è quello di bandire la violenza (fatta eccezione per quella dello Stato, naturalmente). Se tutti obbedissero ai dettami della Giustizia, non ci sarebbero conflitti, non ci sarebbe violenza. Ma un mondo senza trasgressione, senza conflitti, senza disordine, è un enorme campo di concentramento. Un mondo pacificato è un mondo che ha rinunciato ai rumori della sua maggiore ricchezza, la diversità, a favore della quiete dell’omologazione. Per quanto deprecabile, la violenza è una caratteristica umana. Il punto non è di assegnare allo Stato il monopolio della violenza, né di trasformare ogni individuo in un perfetto non violento. Non si tratta di cancellare i conflitti dalla nostra vita, ma di affrontarli nella loro singolarità. E la loro risoluzione va ricercata da coloro che ne sono direttamente coinvolti, senza delegarla a istituzioni esterne (lo Stato), senza delimitarla in spazi circoscritti (tribunali), senza accontentarsi di risposte automatiche scritte da altri (codice penale). Ora la Giustizia, risposta pubblica al “problema” dei conflitti, definisce con un termine spregiativo la risposta individuale a questo stesso problema: vendetta. Tanto la giustizia è nobile, tanto la vendetta è abietta. Ad essa si accompagna l’eccesso, il sopruso, l’approssimazione. Come se la giustizia non fosse in sé eccesso, sopruso, approssimazione. Paradossalmente, per definire questa esecrata determinazione dell’individuo di non delegare a nessuno la risoluzione dei propri contrasti con altri si è scelto un vocabolo dalla ben strana origine. La vindicta, infatti, era la verga con cui si toccava lo schiavo che doveva essere posto in libertà. Spada della giustizia e verga della vendetta sono entrambe in mano a chi detiene il potere, è vero, ma se la prima è promessa di punizione e castigo la seconda reca con sé il sapore della libertà. In realtà, nulla dimostra che la vendetta sia la strada obbligata per chi rifiuta la giustizia. Solo all’interno di una logica economica di compensazione, tanto cara al capitalismo, ad una offesa deve corrispondere un’altra offesa di pari entità. La giustizia regola i conti e questi, alla fine, devono sempre tornare. È questo un lascito dell’eredità delle rivoluzioni liberali borghesi che, dovendo assicurare a ciascun cittadino un trattamento identico di fronte alla legge, dovevano garantire al meccanismo delle decisioni amministrative un funzionamento identico per ogni cittadino. Ma un conflitto non ha soluzioni a senso unico, perché contempla infinite possibilità (anche l’indifferenza o la lontananza). In ogni modo solo chi lo vive sulla propria carne può conoscere la risposta, che non può essere codificata. Motivo per cui con l’autonomia dell’individuo la giustizia scompare, e con essa anche l’ingiustizia. Non si deve credere infatti che negare la giustizia significhi affermare l’ingiustizia. Non più di quanto negare l’esistenza di Dio implichi l’adorazione di Satana. In fondo non aveva tutti i torti Hobbes, pensatore non sospetto di simpatie sovversive, quando affermava che la Giustizia consiste semplicemente nel mantenimento dei patti e che pertanto dove non c’è Stato — cioè un potere coercitivo che assicuri il mantenimento dei patti — non c’è né giustizia né ingiustizia.  

[Lope Vargas, Diavolo in corpo n. 3]

Francia: Aggiornamento su Vincenzo (settembre 2019)

Giovedì 8 agosto 2019, in Francia, è stato arrestato l’anarchico Vincenzo Vecchi. L’arresto è stato effettuato dalla polizia francese e, secondo quanto riportato dai media di regime, è stato reso possibile dall’apporto reso dagli agenti del “Servizio per il contrasto dell’estremismo e del terrorismo interno” e della sezione Antiterrorismo della DIGOS di Milano, che tramite “uno stretto raccordo investigativo” con la polizia francese sono riusciti ad individuare il compagno. Contro di lui erano stati spiccati due mandati di arresto europei, emessi dalle procure di Milano e di Genova.

Vincenzo era latitante e ricercato dal 2012, a seguito della condanna definitiva a circa 12 anni di carcere che gli è stata imposta per le accuse (precisamente, il reato di “devastazione e saccheggio”) inerenti le giornate di rivolta contro il summit del G8 avvenuto a Genova nel luglio del 2001.

Il 23 agosto il tribunale ha richiesto ulteriori informazioni alle autorità giudiziarie italiane, da ricevere prima del 10 ottobre, per chiarire vari punti relativi alle condanne in Italia. Oltre ad essere stato condannato per le giornate di rivolta contro il G8 di Genova, Vincenzo è stato condannato anche a quattro anni di carcere per la partecipazione ad una manifestazione antifascista (contro il partito “Fiamma Tricolore”) a Milano, nel 2006. Il 23 agosto circa sessanta tra parenti, amici e compagni erano presenti davanti alla Corte d’Appello di Rennes, dove i giudici hanno osservato la richiesta di scarcerazione. Precedentemente, il 22 agosto, la camera investigativa aveva ordinato un’indagine di fattibilità per i possibili arresti domiciliari con sorveglianza elettronica.

Venerdì 27 settembre la Corte d’Appello di Rennes ha respinto la domanda di rilascio del compagno in attesa dell’udienza di estradizione. Una nuova udienza è attesa nelle prossime settimane nello stesso tribunale; in questa udienza i giudici francesi decideranno se Vincenzo sarà consegnato alle autorità italiane.

L’indirizzo cui poter scrivere a Vincenzo è il seguente:

Vincenzo Vecchi
n° d’écrou: 14944
Centre pénitentiaire de Rennes-Vezin
7, rue du Petit Pré
35747 Vezin-le-Coquet
France

Fonte: https://insuscettibilediravvedimento.noblogs.org/

«Con riferimento disposizioni vigenti che vietano pubblicazione atti istruttori richiamo attenzione SS.LL. su grave sconcio che si verifica quotidianamente ad opera dei giornali mediante riproduzione fotografie di delinquenti arrestati sotto imputazioni gravi reati [...] che sono così elevati agli onori della più biasimevole pubblicità».  Luigi Federzoni, Ministro degli Interni, telegramma n. 17916 ai prefetti del 31 luglio 1925

   

È tristemente noto l'uso della censura durante il fascismo. Una volta eliminate le voci d'opposizione, il regime aveva assegnato allo strumento della propaganda un compito pressoché esclusivo, favorendo la progressiva fascistizzazione del paese. All’interno del Paese non bisognava più schiacciare il nemico ostile presente, ma crearvi, anzi, produrvi l’amico fedele. Si trattava di imporre ovunque una percezione sociale della realtà corrispondente agli interessi e alla ragione di Stato, in modo da riscuotere un consenso praticamente automatico ed unanime. Progetto impossibile da realizzare senza un’incessante manipolazione e la deformazione di buona parte degli accadimenti. La realtà molteplice, quella con tutte le sue sfaccettature conflittuali e caotiche, doveva essere selezionata, amputata, calibrata, aggiustata, confezionata, per farla apparire univoca e comodamente presentabile. Uno degli obiettivi principali di questa edulcorazione della realtà era far scomparire ogni traccia di disordine, non solo dalle strade ma perfino nel pensiero.  La prima misura presa in tal senso fu il decreto legge sottoposto al Re da Mussolini nel 1923, che prevedeva la diffida del gerente di un giornale reo di aver diffuso notizie relative al turbamento dell'ordine pubblico, all'odio di classe o alla disobbedienza delle leggi. Poi fu la volta della creazione di un Ufficio Stampa ministeriale, del monopolio dell'informazione concesso ad un'unica agenzia, dell'istituzione di un albo dei giornalisti (tuttora vigente)… Il linguaggio doveva essere codificato, le notizie opportunamente filtrate: ad esempio, si doveva prestare particolare attenzione ai dati sulla situazione finanziaria (i quali non potevano che essere esaltanti), tacere gli arresti di oppositori, minimizzare i fatti di cronaca nera (in qualche caso, giornali come La Stampa o L'Unione sarda vennero sequestrati per aver dato troppo spazio a certi delitti di cronaca). Insomma, la censura mussoliniana mirava a fornire agli italiani l'impressione che sotto il fascismo la vita sociale fosse stabile e ordinata. Si tratta di fatti conosciuti del passato, quasi banali oggi da ricordare. Ma… qual è l'uso della censura sotto il totalitarismo democratico? Si crede davvero che la realtà che traspare oggi dai mass-media sia quella che viviamo? Che le nuove tecnologie non abbiano messo a disposizione di chi detiene il potere micidiali mezzi per «formattare» le menti, predisponendole all’obbedienza, e che questi non ne approfitti? Insomma, fino a che punto ciò che consideriamo realtà corrisponde a un dato di fatto accaduto, tangibile, e non a un dato di (arte)fatto percepito, virtuale? Ci sia permesso qui fare un piccolo esempio concreto: gli atti individuali di rivolta, i sabotaggi. A dare retta ai grandi mezzi di informazione, qui in Italia avvengono assai di rado, sporadicamente. A venire alla pubblica luce sono soprattutto quelli che vengono successivamente rivendicati dagli autori, ancor più se in maniera roboante, oppure quelli che hanno conseguenze troppo visibili ed eclatanti per essere taciuti. Anzi, per meglio dire, quegli atti che per — talvolta ovvie e talvolta insondabili — motivazioni istituzionali non vengono neutralizzati nella maniera più semplice e sbrigativa: derubricati sotto la voce «guasti tecnici». Rimanendo pure alle notizie di dominio pubblico, non è forse fin troppo evidente a chi conviene sostenere che ad aver scatenato un incendio sia stato un banale cortocircuito anziché un singolare fiammifero, e per quali ragioni? Chi mai noterà la notizia di un guasto tecnico? A differenza di un sabotaggio, un malfunzionamento non corre il rischio di saltare agli occhi e soprattutto di dare il cattivo esempio.  Sia chiaro, qui non si sta dicendo che in Italia divampa incontrollato il fuoco sovversivo — significherebbe cadere nell'errore di percezione opposto — ma solo che oggi ancor più che nel passato quella che chiamiamo realtà è il più delle volte una costruzione. Programmabile, correggibile, estendibile, riducibile, confezionabile. Per convincersene basterebbe dare una occhiata alle disavventure successe in quest’ultimo anno alle strutture che riforniscono di energia il mondo in cui sopravviviamo. Quelle riportate dai grandi mezzi di informazione. Quelle che, sfuggendo allo sguardo, sfuggono anche alla riflessione. Così, dopo una ricerca pur minima, con una certa sorpresa scopriamo che: il 26 febbraio si verifica un incendio alla cabina elettrica inverter di un parco fotovoltaico a Girifalco (Catanzaro); il 20 marzo una cabina Enel interrata va in fiamme a Loseto (Bari); il 14 aprile scoppia un incendio in una cabina di distribuzione di corrente elettrica a Cremona; il 23 aprile una cabina Enel va in fiamme a Villanova di Bernareggio (Monza); il 3 maggio, a Livorno, un incendio in una cabina Enel provoca un black-out sul lungomare e nei quartieri sud della città; il 5 maggio una cabina Enel va in fumo a Palermo; il 9 maggio si verifica un principio di incendio in una cabina Enel nei pressi di Feltre; il 10 maggio, a Riglione (Pisa), un ripetitore della Telecom va in fiamme (la causa ufficiale? corto circuito); il 15 maggio, anche a Firenze un ripetitore telefonico divampa di calore; il 12 giugno s’incendia una cabina Enel a Forlì; il 17 giugno, ancora un incendio nell’ennesima cabina elettrica ad Afragola (Napoli); il 18 giugno sono ben quattro le cabine Enel che vanno a fuoco a Corchiano (Viterbo); il 20 giugno si verifica un incendio in una cabina Enel a Vasto Marina (Chieti); il 22 giugno, una cabina Enel viene letteralmente fulminata ad Asolo (Treviso); il 26 giugno, a Sassuolo (Modena), un incendio in una cabina elettrica provoca l’ennesimo disagio; il 10 luglio, una cabina Enel va in fiamme a Cagliari; il giorno dopo, 11 luglio, la scena si ripete ad Orco Feligno (Savona); il 21 luglio brucia un ripetitore telefonico a Pieve di Compito (Lucca); il 7 agosto, l’Enel perde un’altra cabina a Germignaga (Varese); il 24 agosto va in fumo una cabina elettrica a ridosso di un parco fotovoltaico ad Arquà Polesine (Rovigo); il 25 agosto, un’altra cabina elettrica va in fiamme a Manocalzati (Avellino); il 27 agosto, il centro di Pescara è interessato da un black-out a causa dell’incendio scoppiato in una cabina Enel; il 9 settembre va in fiamme l’ennesima cabina elettrica Enel a Prato Perillo di Teggiano (Salerno); e abbiamo tutti letto che il 13 settembre, a Roma, un black-out ha bloccato la metropolitana. Ora, tutti questi fatti (precisiamo che si tratta di una lista non esaustiva, stilata in maniera alquanto frettolosa, per cui è giustificato domandarsi quanti altri simili “accidenti” si siano potuti verificare) sono stati presentati dai mass-media come frutto di «guasti tecnici» o «corto-circuiti». Eppure, almeno nel caso di quello avvenuto a Pisa il 10 maggio, è circolata in rete una rivendicazione anonima. Se di per sé questo non significa affatto che tutti questi incendi siano stati generati da sabotaggi, si può però sostenere anche l’esatto opposto: non è vero che siano stati tutti dei corto-circuiti. E dove comincia e finisce la menzogna di Stato è impossibile da definire. Se poi a ciò aggiungiamo anche i numerosi tentativi di incendi finiti male (perché non scaturiti, immediatamente spenti o sventati in anticipo), i quali di certo non trovano risalto sui grandi mezzi di informazione, ecco che i fatti avvenuti ma mai riportati aumentano in quantità che sfugge ad ogni calcolo. No, non vogliamo far intravedere o sognare una realtà già quasi travolta da chissà quali imprese focose. Vogliamo semplicemente (cercare di) mostrare come ciò che appare, sui grandi mezzi di informazione oltre che sui piccoli mezzi di controinformazione, sia un pessimo punto di riferimento, un criterio assai poco valido per cogliere ciò che davvero si muove e le sue potenzialità. Dolersi o rammaricarsi perché «non accade mai nulla» ha poco senso. Ne ha molto più domandarsi come (e dove e perché) far accadere qualcosa e, qualora lo si ritenga necessario, come fare per comunicarlo, bucando la censura tecno-democratica e riuscendo a dare a tutti il cattivo esempio. E, una volta trovata la possibile risposta, mettervi mano.

https://finimondo.org/, 26/9/19

Da poche ore, nella giornata di oggi (giovedì 26 settembre), dopo cinque mesi e mezzo fra carcere e domiciliari, il nostro compagno Tommy è finalmente libero. Libero di non essere rinchiuso in una merda di galera o chiuso in una casa senza poter uscire. Poterlo avere fra noi è una sensazione indescrivibile.

È certo che non possiamo dimenticare tutti i compagni anarchici ancora rinchiusi nelle galere, perché chi dimentica le prigioniere non riesce a vedere la guerra sociale in corso contro l'oppressione e chi rinchiude i sogni di rivolta in questo esistente di morte.

Niente è finito e tutto ricomincia. Anche da quello avvenuto oggi, nella gioia di camminare verso la libertà ancora al fianco di chi si è opposto agli sbirri senza abbassare la testa.