Che la «vita urgente» di certi anarchici finisca col diventare l'investimento prorogabile di certi autoritari, per lo più scrittori, non è purtroppo una novità. Finché sono in vita, i primi possono e sanno difendersi da soli dai secondi. Ma dopo la loro morte, quando attorno alle loro spoglie inizieranno a volteggiare gli avvoltoi, chi mai li difenderà? Chi, se non i loro stessi compagni?
Martín Caparrós è l'avvoltoio che da anni banchetta sui resti di Soledad Rosas ed Edoardo Massari, i due anarchici suicidati dallo Stato italiano nel 1998. Sulla loro vicenda ha scritto un libro, pubblicato in Argentina nel 2003. Da questo libro l'industria cinematografica ha deciso di trarre un film, la cui regia è stata affidata niente meno che alla figlia del presidente della Repubblica argentina. Ma le riprese del film stanno subendo notevoli ritardi. Alla vista degli avvoltoi, c'è sempre qualcuno che mette mano ai sassi. Ora, in occasione del ventennale di quella tragedia, questo libro conosce anche la prima edizione italiana, per i tipi dell'Einaudi. Ed i sassi continuano a volare.
Cosa che non può che farci piacere, giacché certe memorie vanno coltivate. Ma coltivate fino in fondo, senza lasciare qualche scheletro scomodo in fondo all’armadio. Fra lo stormo di avvoltoi, non è sufficiente prendere di mira l'esemplare più grosso e appariscente. Bisogna puntare anche su quelli minori che lo accompagnano e lo aiutano nel suo necrofilo affare. Se nel presente si tratta di troupe cinematografiche ed editori, nel passato si è trattato di anarchici. Perché all'epoca Caparrós non si era affatto infiltrato fra gli anarchici, sfruttando la loro buona fede per carpire materiale riservato. No, da alcuni è stato accompagnato ed aiutato, in piena consapevolezza, per calcolo politico. E da questi alcuni, che hanno accarezzato per lungo tempo l'idea di pubblicare loro stessi questo infame libro, è stato difeso.
Per farla finita con le comode rimozioni e le nauseabonde ipocrisie, ripubblichiamo quindi un testo collettivo redatto all’inizio di dicembre del 2003.
Un romanzetto facile,
un giornalista invadente e i pettegoli dell’anarchia
Queste riflessioni provengono da persone e realtà con percorsi diversi tra loro, idee e pratiche talvolta distanti, che non hanno da difendere nessuna “corrente” o “posizione” a scapito di altre. Le critiche che seguono non hanno per oggetto una particolare “area”, quanto le complicità in un metodo insulso che hanno permesso di trasformare la vita di una compagna in un orrendo gossip.
Ci preme sottolineare questo aspetto perché vorremmo che la questione fosse affrontata, non diciamo con serenità, che sereni non lo siamo affatto, ma almeno con lucidità e onestà; per scongiurare in anticipo quegli usuali e prevedibili arroccamenti in schemi precostituiti che servono soltanto a chi vuole sottrarsi alla sostanza delle critiche travisandone il senso reale e riducendole a una sorta di competizione che esiste soltanto nella testa di chi ha un qualche interesse politico o di parte da difendere.
Era l’11 luglio 1998 quando Maria Soledad Rosas si impiccò nella casa in cui era agli arresti domiciliari. Pochi mesi prima, il 28 marzo, anche Edoardo Massari, Baleno, suo compagno e coimputato, era stato trovato impiccato in una cella del carcere Le Vallette di Torino. Entrambi, insieme a Silvano Pelissero, erano accusati di aver ostacolato con alcuni attentati in Val Susa quel progetto di morte e distruzione chiamato Treno ad Alta Velocità.
Tutta la vicenda è sufficientemente nota, pertanto non ci soffermeremo su di essa, dando per scontato che chi ha tra le mani questi fogli non abbia dimenticato.
Senza dubbio avremmo preferito parlare di questa vicenda in altri termini, molti sono gli aspetti che meriterebbero attenzione: l’Alta Velocità continua a minacciare la Val Susa, l’opposizione e la resistenza degli abitanti permane, così come continua a vivere la passione di Edo e Sole nell’inimicizia verso un mondo che considera uomini e territori nient’altro che ostacoli all’accumulazione di capitale.
Ma la ragione che ci ha spinto in questa sede a ritornare sull’argomento è, nostro malgrado, di tutt’altra natura: essa consiste nella recente pubblicazione, in Argentina, di una biografia-romanzo su Soledad, e ancor più nel fatto che tale pubblicazione sia stata resa possibile dalla collaborazione di alcune persone che qui in Italia hanno ospitato l’autore-giornalista, lo hanno accompagnato e rifornito di tutte le informazioni e indiscrezioni di cui una simile operazione aveva bisogno.
Non ci dilungheremo sul contenuto di tale libro. Daremo soltanto qualche notizia che permetta di capirne il taglio a chi non ha la possibilità di leggerlo (esso è infatti disponibile, fortunatamente, soltanto in lingua spagnola; e auspichiamo che a nessuno venga la malsana idea di distribuirlo e tantomeno di pubblicarlo in italiano – il seguito di queste righe ne esplicherà le ragioni).
L’autore del testo, per la cronaca, è un certo Martín Caparrós, affermato giornalista argentino, ex direttore di numerose riviste mensili sui più svariati argomenti, autore di molti racconti, saggi, romanzi, ecc. Un noto giornalista di sinistra, tutto qua – né ci interessa saperne di più.
Il titolo del libro in questione, Amor y anarquia, è un titolo da romanzetto facile e avvincente, che ben rispecchia il taglio con cui è stato scritto, capace di attirare lettori alla ricerca di un miscuglio di amore, disagio adolescenziale, trasgressione e di qualche lacrima. Il suo sottotitolo, La vida urgente de Soledad Rosas 1974-1998, richiama subito il fatto che in questo libro si parla di una vita vera, quella di Sole, ignara eroina di questa biografia romanzata, e accanto a lei vediamo raccontati Baleno, Silvano e tanti degli altri compagni con cui ha condiviso i suoi pochi mesi in Italia, molti dei quali, per quanto vivi, altrettanto ignari della propria notorietà.
Cos’è che muove Caparrós? La sua pretesa dichiarata è quella di capire e di spiegare al suo vasto pubblico, come mai può capitare che la rampolla di una buona famiglia di Buenos Aires finisca la sua vita impiccata nei dintorni di Torino, «accusata di essere la terrorista più pericolosa d’Italia». Ed è per spiegare questo “arcano” che costui si documenta – e documenta i suoi lettori – su come andava Soledad a scuola, sul rapporto con la famiglia, sulla fine della sua verginità (non ci credete? Caparrós racconta con chi, dove, quando, e condisce il tutto con qualche avvincente particolare). Con quella pazienza infinita che contraddistingue solo cronisti e poliziotti, costui accumula testimonianze su testimonianze, ritrova vecchi amici, fidanzati abbandonati, parenti e stallieri. Chiacchiera amabilmente con tutti, intervista chi sei disposto a farsi intervistare – e annota tutto, implacabile. Ogni dettaglio è sviscerato, ogni pettegolezzo suscita il suo interesse, ricerca coscientemente i lati più pruriginosi di ogni vicenda raccontata. E a Torino trova pane per i suoi denti, gente disposta a raccontargli tutto ciò che sa: con chi Sole ha fatto l’amore una sera, cosa faceva per tirar su qualche lira e con chi, ...; gente disposta ad accompagnare questo giornalista dai genitori di Baleno, mostrando loro che di lui si potevano fidare. Mai avremmo pensato di ritrovarci a parlare di un libro in questi termini, ma tant’è; il volume di Caparrós è morboso, morboso nella maniera più fastidiosa e plateale.
A differenza, a quanto pare, dei suoi informatori, addirittura lo stesso Caparrós fa finta talvolta di avere un qualche rispetto per la vita di Sole, si chiede: ma è giusto quello che sto facendo? È giusto raccontare tutto questo di Soledad, sviscerarne la vita anche più intima e riservata? Invariabilmente, si risponde di sì. Certo, bisogna comprendere a fondo la vita del personaggio, quel surrogato mercantile della vita reale, dove la realtà è stritolata dalla sua rappresentazione.
Dice in un passaggio, quando inizia ad utilizzare le intercettazioni della polizia: «Mi domando – e me lo sono domandato tante volte – se è legittimo usare questo materiale. Soledad, un mese dopo, avrebbe scritto ad Edoardo quanto le era sembrato orribile “sapere che questi bastardi hanno ascoltato tutte le nostre conversazioni”. Avrebbe detto che questo la faceva sentire “contaminata, sporca”: non disse “violentata”, ma avrebbe potuto dirlo. Ho dubitato. Ma alla fine mi sono detto: lo userò, perché mi sembra una maniera di avvicinarsi ineguagliabile a Soledad e ad Edoardo in questi ultimi loro giorni (...)».
Ciò che ci spinge a scrivere queste righe non è una volontà di analisi critica dello scritto di tale Caparrós. Questo giornalista squallido non ci interessa affatto. Fa il suo lavoro, tritura persone, uomini e donne, trasformandoli in personaggi da commedia, tragedia, ecc. Lo fa anche bene, a quanto pare, posto che il suo libro sembra essere un successone in Argentina.
Queste righe scaturiscono in prima battuta dal disgusto viscerale, immediato, che ha travolto diversi compagni nel leggere la vita di Sole trasformata in carne da best-seller con la collaborazione e il beneplacito di coloro che sono stati i suoi stessi compagni, coloro che in alcuni momenti le sono stati vicini (alcuni di essi, beninteso).
Sarà che siamo eccessivamente sensibili, forse; ma non capiamo come una simile operazione non possa non provocare istintivamente rabbia, disgusto, tristezza in coloro che hanno a cuore la vita dei propri compagni di lotte e di vissuto, la sua pienezza e sincerità come le sue debolezze e contraddizioni, e il sentimento di spossessamento nel vederla ridotta a carne da macello.
Per non parlare poi della scorrettezza (per non dir di peggio), evidente a chiunque, di fornire informazioni dettagliate su terze persone che magari non avevano la minima voglia di far sapere al mondo intero i cazzi propri. O di rendere pubbliche lettere personali scritte a persone che non ci si è posti il problema di consultare. O, ancora, di pubblicare dialoghi domestici e banali litigi quotidiani tratti da intercettazioni ambientali, dalle quali Sole stessa aveva dichiarato di sentirsi letteralmente “sporcata”, “contaminata”, per la loro invadenza.
Perché tutto questo? Con che coraggio?! Ciò che fa rabbia infatti è anche l’imperscrutabilità delle ragioni di una tale operazione, non quelle del giornalista che sono chiarissime. Cosa può spingere a raccontare a uno sconosciuto, per di più giornalista, le vicende, le avventure, gli amori, i fatti più intimi e personali di qualcuno, per di più amico e compagno, che non ha più la possibilità di decidere se ha voglia o meno di veder la propria vita trasformata in merce da macelleria – chi si ricorda delle frattaglie ai giornalisti?
In realtà però, dietro l’apparente assenza di ragioni per collaborare a tale porcheria, possono celarsi motivazioni che un senso ce l’hanno, per quanto subdolo e miserabile sia. Su questo piano un motivo plausibile per prestarsi a una simile operazione potrebbe essere molto banalmente di tipo politico-rackettistico: tirare acqua al proprio mulino. Ecco dunque come una esperienza umana di tale intensità, e tragicità, può diventare per qualcuno l’occasione per raccattare un po’ di notorietà in giro per il mondo, per vedere un’apologia del proprio “movimento” e della propria ideologia divenire un vero best-seller. È un’ipotesi.
Ma a nostro avviso, anche se per qualcuno questo miserabile tornaconto può aver avuto il suo peso, la questione centrale che sottende una simile operazione e il fatto che non sia purtroppo un episodio isolato, è ahinoi ancora un’altra. Essa attiene alla diffusa interiorizzazione della mediazione delle immagini nei rapporti sociali e individuali, al trionfo dello spettacolo come rovesciamento continuo della vita reale nella sua rappresentazione. Che un novantenne, al termine della sua parabola biologica, viva di ricordi e rappresentazioni del suo vissuto, è triste ma comprensibile. Che un’intera organizzazione sociale viva sulla riduzione dei suoi membri a comparse di uno spettacolo fondato sull’alienazione e separazione degli esseri umani dalla propria attività, dalla natura e da se stessi, è sintomo di un declino che si vorrebbe eternizzare; lo sappiamo. Ma che anche tra individui, amici, compagni, addirittura tra le forze che si dichiarano nemiche di questo spettacolo, ci sia una tale condivisione acritica del modello mercantile al punto da difendere la spoliazione dei propri compagni e di se stessi, per favorirne la rappresentazione spettacolare, allora c’è qualcosa che proprio non torna.
Ci sembra d’altronde sia lo stesso meccanismo che fa sì che nei cortei, ultimamente, ci sia quasi la metà dei partecipanti che scende in piazza per fotografare, filmare, cogliere l’immagine. A parte le conseguenze a livello repressivo che tutti sanno, emerge il fenomeno per cui non si fa qualcosa per la volontà, l’interesse o il piacere di farlo, ma si fa una cosa per poterla rappresentare. Voilà il rovesciamento è compiuto, la realtà non è più che l’attributo della sua rappresentazione. Tanto varrebbe evitare di vivere, basta l’immagine di un vissuto che ormai non è che la sua fastidiosa palla al piede da amministrare.
Per quanto riguarda la realizzazione tecnica del libro, non sappiamo con precisione le modalità con cui questo giornalista sia venuto a conoscenza della vita di Soledad, se non per quanto lui stesso afferma in appendice al suo libro, e lo riportiamo testualmente:
«Voglio ringraziare per il loro aiuto per questo libro: soprattutto la famiglia Rosas: Marta, Gabriela, Luis, che mi hanno aperto le loro porte e quelle di Soledad. Rodolfo Gonzalez Arzac, giornalista, che mi ha aiutato con molte delle interviste a Buenos Aires. Tobia Imperato, storico anarchico torinese, che ha fatto onore alla sua idea e che mi ha fornito tutto il suo materiale. Luca Bruno, Ita Primavera, Mario Skizzo, Pipero e gli altri okupas di Torino, tanto ospitali. Silvano Pelissero, che mi ha ricevuto nella sua prigione contadina. Guillermo Piro, che mi ha aiutato a superare le insidie dell’italiano. Christian Ferrer, il mio maestro anarchico. Tutti quelli che hanno parlato a questo libro».
Altri “confidenti” vengono citati all’interno del testo, anche se poi non riportati tra i ringraziamenti. Non abbiamo al momento altre notizie al riguardo, né sappiamo cosa ne pensino molte delle persone citate (se non per coloro che in diverse occasioni hanno difeso il libro e hanno scelto di diffonderlo in Italia). Peraltro ciò che ci preme affrontare e criticare è una questione di metodo generale – di una scorrettezza ancor più vigliacca perché fatta sulla pelle di chi non può più dire la sua – e non tanto la ricerca delle responsabilità personali – perlomeno in questa sede.
In ogni caso, che questo giornalista si sia presentato come un compagno, volenteroso difensore della memoria di Soledad, ingannando i suoi ignari informatori, o che si sia dichiarato per ciò che è, l’affamato cronista in cerca di un cadavere da sezionare che gli è stato servito con dovizia di particolari, la cosa non cambia. In altre parole, che costui abbia aggirato dei dementi o abbia trovato dei complici consapevoli, è lo stesso. Non siamo in tribunale, la buona o cattiva fede non interessa (imbecilli e stronzi sono ugualmente pericolosi). Per altro, prese di distanza pubbliche (così sollecite in altre circostanze) in questo caso non le abbiamo sentite dai citati informatori. Anzi. Le uniche parole pronunciate pubblicamente in merito sono state di apprezzamento di tale libro in quanto corretto e veritiero.
Che si tratti di verità o di menzogna non ci interessa, non è questo il punto.
A noi tutto questo sembra pazzesco. La scorrettezza di ciò ci sembra di un’evidenza tale che soltanto la condivisione della nefandezza di questi tempi miserabili può far passare con un’alzata di spalle. Questi metodi non possono passare. A questi informatori va detto da ogni dove che si devono fare i cazzi propri; che parlino di se stessi.
Ma che almeno tra chi ha a cuore la propria dignità non passi il principio che le proprie vite, le nostre vite, oggi o domani, possano diventare carne da macello per le manovre del primo politicante o imbecille di turno, ci sembra sia veramente il minimo da difendere.
Torino, 3 dicembre 2003