Operazione Renata.
Alle 4 questa mattina perquisizioni negli spazi e in casa di compagni e compagne fra Trento, Bolzano, Rovereto. 7 arresti, 6 con misure cautelari in carcere e 1 con misure cautelari ai domiciliari. I reati contestati sono 270 bis e 280 bis.
Perquisizioni al Tavan e alla Palestra Popolare di Trento, alla Nave dei Folli e al Cabana di Rovereto, alla Katakombenstube di Bolzano. Alcuni arrestati in trasferimento in altre carceri.
Reparti celere presenti in diversi punti della città (Palazzo Regione, Municipio, Palazzo del Governo).
Oggi alle 16.00 punta al Tavan, Via Muredei 34/3 Trento
AGNESE, GIULIO, NICO, POZA, RUPERT, SASHA, STECCO LIBERI!
TUTTI LIBERI TUTTE LIBERE MALEDIZIONE
Autore: Kavarna
Ritrovamento di microspie ambientali messe dai soliti spioni
A un anno di distanza dall'ultimo ritrovamento di un gps nella macchina di una compagna e di un compagno di Cremona (qui trovate il link: https://csakavarna.org/?p=3497), ecco che abbiamo fatto un'altra scoperta. All'interno della stessa macchina, nel lato passeggero, è stata ritrovata una microspia collegata ad una scheda della Vodafone (protetta da un codice pin) con tanto di microfono situato all'altezza del tettuccio della macchina. Il lavoro certosino ha riguardato l'interno dell'auto, di cui i collegamenti sono stati nascosti all'interno della guaina isolante. Il tutto è stato collegato al sistema elettrico della macchina e la microspia, in questo caso, entra in funzione quando la macchina si accende. Riguardo a questo aggeggio del controllo non ci è dato sapere quando è stato messo. Sarà che per gli spioni farsi beccare lo scorso anno con le mani nella marmellata non è stato facile. Peccato che quelle mani non sono sporche di dolci sapori, ma di sangue. Quel sangue che risponde a guerre, controllo, repressione e gabbie. Solo disprezzo per chi spia la vita delle persone. La passione della libertà è più forte di ogni autorità. Qui sotto trovate le foto:
Tagliare è possibile
Se il silenzio fa paura, forse è perché l’assenza di suoni familiari tende a rimandarci a noi stessi. Quando si avanza nell’oscurità troppo silenziosa, non è raro parlare, fischiettare un motivetto, o riflettere ad alta voce per non farsi prendere dall’angoscia. Non è cosa semplice e può anche richiedere un po’ d’esercizio, perché la nostra mente è condizionata a identificare il silenzio col pericolo, il buio col rischio. È l'angoscia a generare il vuoto, la sensazione di trovarsi sul bordo dell'abisso e di non essere capaci di distogliere lo sguardo dal baratro che si apre davanti a noi. Ma è proprio in momenti come questi che si tende a sentirsi più vicini a se stessi, senza intermediari, con una presenza mentale ed emotiva assai più sostenuta. Difficile ritrovare ancora silenzio od oscurità nel mondo moderno. I rumori industriali ci accompagnano incessantemente, i dispositivi emettono costantemente i loro suoni elettronici, e d’altronde c'è quasi sempre qualcuno che riempie il vuoto col suo chiacchiericcio insopportabile quanto superficiale. Oggi la paura del vuoto, l’angoscia del silenzio, è sublimata tra le altre cose da una connessione permanente. Mai da soli, mai in silenzio, mai davanti all'abisso. Quindi, mai faccia a faccia con noi stessi. I richiami e le voci “interiori”, tutto quell’universo che costituisce l'immaginazione, la coscienza, la sensibilità, la riflessione e il sogno ad occhi aperti vengono ammutoliti, ignorati, appiattiti e sostituiti dal continuo bombardamento di informazioni, voci, messaggi, appuntamenti, imposizioni a consumare, richiami all’ordine. Il mondo moderno sta così esautorando l'universo interiore dell'individuo. Una volta annientato quest’ultimo, l’essere umano si ritroverà nella condizione ideale di accettare la schiavitù, o meglio di accogliere la schiavitù senza neanche disporre delle capacità di comprendere lo stato in cui si trova. Catturato nella rete. Sicuramente, tutto ciò non è una novità. La storia dell'oppressione non è cominciata con lo smartphone. Non molto tempo fa, il condizionamento della mente umana avveniva principalmente attraverso una galassia di campi. Il campo di lavoro costituito dalla fabbrica, il campo dell'educazione che è la scuola, il campo del controllo rappresentato dall’autorità familiare e dai luoghi di culto. Tuttavia, nonostante i fili tessuti tra tutte queste strutture di dominio, restava ancora, relativamente parlando, un sacco di vuoto. E questo vuoto, questi interstizi, hanno permesso di alimentare la rivolta in quei campi, contro quei campi, e viceversa. Il prigioniero che si ribella ha, malgrado tutto, gli occhi rivolti verso un orizzonte che va al di là di quelle mura, poco importa se l’immaginario di quell’orizzonte ci piace oppure no. Se i campi di qualsiasi tipo non sono certo spariti, la ristrutturazione capitalista e statale in corso, in particolare attraverso la creazione sempre più estesa di tecnologie, al di là di uno maggiore sfruttamento e di un controllo ancor più totalitario, mira all'eliminazione di ogni vuoto. Il bisogno di una connessione permanente è al centro di questa sinfonia mortale. Una volta connessi, siamo sempre un po’ al lavoro, un po’ in famiglia, un po’ al supermercato, un po’ al concerto. Legati da guinzagli elettronici, si è costantemente esposti alle ingiunzioni del potere, attorniati da intimazioni a consumare, nudi agli occhi del controllo. Diventiamo totalmente a disposizione del capitale, schiavi che indossano invisibili collari. Qualcuno ha detto che se la società è una prigione a cielo aperto, le garitte moderne devono essere le antenne e i ripetitori di comunicazione che ovunque ostacolano la vista del cielo azzurro e il filo spinato è costituito da tutte quelle fibre ottiche e da quei cavi elettrici. Per chi sogna di arrestare la riproduzione del dominio, diventa allora essenziale riuscire a guardare altrove e altrimenti. Non che il commissariato dietro l’angolo non debba più attirare l'attenzione del nemico dell’autorità, o che la vetrina della banca non meriti di essere fracassata, o che il tribunale non debba ricevere visite rabbiose, ma è pur vero che il dominio ha disseminato sul territorio una grande quantità di strutture relativamente piccole e poco protette da cui dipendono sempre più cose, per non dire quasi tutto. È in quelle piccole cose che la rete invisibile che ci rinchiude e che consente la ristrutturazione del capitale e dello Stato si materializza. È là che possono essere attaccate le arterie del dominio che irrigano i campi dello sfruttamento e dell’oppressione; è là che possono essere finalmente messe a tacere le protesi tecnologiche e i loro squilli schiavizzanti. Perché tagliare non è solo necessario, è anche possibile. L'11 febbraio 2019, a Mérey-Vieilley, vicino a Besançon (Doubs), un ripetitore telefonico è stato messo fuori servizio da un devastante incendio. Il traliccio posto in mezzo alla foresta si è improvvisamente incendiato, lambito da fiamme nient’affatto accidentali. Un operatore responsabile della gestione delle antenne di telefonia mobile nella regione ha rivelato perfino: «Questo atto ha messo fuori uso altri nove ripetitori. Per dare un’idea, ciò significa ogni giorno parecchie decine di migliaia di comunicazioni interrotte». Saranno necessari diversi mesi prima che l'antenna sia completamente ripristinata. E questo incendio ci ricorda che altri tre avevano già distrutto altre antenne nella capitale bisontina da settembre: a Chapelle-desBuis, a La Jourande, ad Amagney. «Piromani, anarchici, vendetta nei confronti di un operatore?» recitano stentatamente i commentatori in cerca di ipotesi poliziesche, quando ciò che è certo è che i nodi di questa rete sono a portata di mano di chiunque e possono essere disfatti con le stelle come complici. D’altronde è accaduto anche in altre regioni, dove le torri delle telecomunicazioni sono state prese di mira da alcuni sabotatori: nello Cher (quattro tra il 26 e il 30 novembre 2018), in Alsazia, nel Sud, in Gironda (Casseuil, il 24 dicembre), nel Gard (Bernis, il 23 dicembre), in Vendée (Saint-Julien-desLandes, l’11 dicembre), nell’Île-de-France (Villeparisis, il 12 novembre), in Isère (Grenoble, il 29 gennaio), per citare solo i più recenti… Aggiungiamo gli abili sabotaggi di ciò che collega sotterraneamente i piloni, le centrali telefoniche e i data center: le fibre ottiche. A volte tranciando semplicemente i cavi, altre volte incendiando gli armadi di distribuzione che costituiscono i ripetitori locali in un quartiere, in una zona industriale o commerciale... A cui si aggiungono anche altri differenti sabotaggi dei flussi del trasporto (ferroviario e autostradale) e di energia, come nell’Île-de-France, nel Drôme, le Hautes-Alpes, l’Hérault, l’Ain, nel Nord,… Un'identificazione di questi nodi tecnologici ormai vitali per lo Stato e il Capitale, che ovviamente si estende anche oltre i confini, poiché queste pratiche interrompono regolarmente i flussi, in particolare in Italia, in Belgio, in Germania o in Svizzera. Un compagno anarchico è stato appena incarcerato in questo paese il 29 gennaio, accusato, oltre che dell'incendio di una decina di camion dell'esercito nel settembre 2015, di quello che ha distrutto nel luglio 2016 un'antenna-radio utilizzata dai Servizi di polizia di Zurigo. Questi pochi esempi, sicuramente ben lungi dall’essere esaustivi e tutti avvenuti solo negli ultimi mesi, mostrano comunque che un po’ dappertutto, tagliare è possibile. È possibile in modo autonomo, in tempi di relativa calma, ma anche in periodi più intensi in cui la rabbia mostra i denti, come è recentemente accaduto in Francia. In seno alla guerra sociale, tutta questa miriade di sabotaggi diffusi e continui contro le infrastrutture di telecomunicazione, dei trasporti, di energia, può aprire un panorama ancora più ampio anche per coloro che sanno di battersi in territorio ostile e che non intendono abbassare la testa. Noi ci troviamo già dietro le linee nemiche che ci accerchiano, quindi perché non agire di conseguenza? Disorganizzare le forze avversarie piuttosto che competere con loro in uno scontro simmetrico. Colpire e sparire, per riapparire altrove e colpire ancora, piuttosto che occupare fortezze particolarmente favorevoli alla repressione. Al contrario degli autoritari che non riescono a concepire il tentativo di sconvolgere il mondo se non attraverso la presa dei templi del potere e la gestione di grandi masse, in una sorta di simmetria distorta con un nemico molto meglio attrezzato, e se noi anarchici sviluppassimo piuttosto l’agilità dei piccoli gruppi, le capacità dell'individuo, i rapporti interpersonali di reciprocità, di fiducia e di conoscenza, verso una diffusione delle ostilità piuttosto che verso una loro centralizzazione e concentrazione? Un tale modo di organizzarci ci apparirebbe molto più interessante per attaccare un nemico sempre più tentacolare ma che rimane dipendente dall'interconnessione tra tutti i suoi strumenti ed edifici. Di fronte alla diffusione nel territorio di una grande quantità di piccole strutture di trasmissione di onde, di energia o di dati, nulla è più adatto di una costellazione di piccoli gruppi, che agiscono in piena autonomia, capaci di coordinarsi tra loro quando ha senso per loro, per praticare in modo diffuso la buona vecchia arte del sabotaggio contro le arterie del potere. Nel silenzio che questi sabotaggi impongono alle macchine, nel disturbo che infliggono al «tempo reale» del dominio, ci ritroveremo di fronte a noi stessi. E questa è una condizione essenziale per una pratica di libertà.
[Avis de tempêtes, n. 14, 15/2/19 a questo link potete scaricare il nuovo numero] Traduzione Finimondo.org
Manifesti in solidarietà alle/ai compagne/i di Torino sparsi un po’ di qua, un po’ di là
Libertà per tutt*: un approfondimento su Torino e dintorni e un avviso ai vili
Ultime notizie. Tutti i fermati per lo scoppiettante corteo di sabato sono liberi con obbligo di firma. L'unica accusa rimasta in piedi è resistenza. Avanti tutta! Larry, Giulia, Silvia, Nicco, Beppe e Antonio liberi! Che la Scintilla torni al mittente!
Parva favilla...
Le scintille sono un po' come le ciliegie, una tira l’altra. La scorsa settimana nei palazzi del potere, fra conti di bilancio e protocolli consolari, è stata tutto un balenìo. Da un lato il ministro dell'Economia (grigio e triste come solo chi è dedito al denaro può esserlo) non ce l'ha più fatta a negare ancora l'evidenza: ma quale ripresa produttiva, ma quale rilancio industriale, il Belpaese è in recessione! Dall'altro lato, è esplosa la più grave crisi diplomatica italiana del dopoguerra con un governo europeo tradizionalmente amico, quello francese. I rapporti fra i dirigenti dei due paesi, già incrinati da tempo, sono saltati del tutto dopo l’incontro — avvenuto martedì 5 febbraio — fra un ministro nonché vicepresidente del Consiglio italiano ed alcuni esponenti del movimento di protesta che da mesi scende in piazza in tutta la Francia per far cadere il proprio governo. L’inquilino dell’Eliseo si è letteralmente infuriato ed era fin troppo facile prevedere una sua plateale reazione per... diciamo giovedì 7 febbraio? Ecco, a questo punto, al nostro inetto governo né di destra né di sinistra che, dopo il fallimento dell'inetto governo di centro-destra (eletto dal popolo) e quello dell'inetto governo di centro-sinistra (eletto dalle banche), si è a sua volta cimentato nell'impresa ridicola quanto irrealizzabile di rianimare il nostro inetto e cadaverico sistema sociale, cosa restava da fare? Cosa, se non boccheggiare e tentare di aspirare aria altrove? È questo un compito di cui si fa puntualmente carico un altro ministro nonché vicepresidente del Consiglio italiano, il Bullo degli Interni. Quando l'indice di gradimento del suo governo scende da una parte, lui lo fa prontamente alzare dall’altra. Non potendo mettere a tacere i fischi spezzando le reni a chi sta in alto, alle istituzioni finanziarie mondiali o alla Francia (è un bullo da social, mica un uomo forte nella vita), ancora una volta ha cercato di strappare applausi scatenando la repressione contro chi sta in basso. A chi è toccato questa volta? Avendo già raso al suolo le baracche dei rom («nicht lebenswert», secondo il lessico nazista, esseri che non meritano di vivere dato che non votano, non lavorano, non pagano le tasse), avendo già chiuso le frontiere agli stranieri poveri (quelli che sbarcano dai gommoni con le tasche vuote, che l'invasione di chi arriva in yacht col portafoglio gonfio è benedetta), avendo già sbattuto in galera un latitante sfuggito per decenni alla giustizia italiana ed aver annunciato pari trattamento per altri suoi simili (ex-estremisti di sinistra militanti della lotta armata contro lo Stato, mica gli ex-piloti della Nato in volo sopra Cermis o gli ex-amministratori delegati alla ThyssenKrupp di Torino), ha trovato una nuova preda da ostentare agli infoiati di legalità. Giovedì 7 febbraio, poche ore prima che il governo francese richiamasse il proprio ambasciatore a Roma (fatto accaduto in passato solo dopo l'ascesa di Mussolini), le forze dell'ordine hanno fatto irruzione in uno spazio occupato anarchico di Torino, l'Asilo, con lo scopo di sgomberarlo ed effettuare alcuni arresti fra chi è sospettato di battersi con troppa veemenza contro le politiche razziste istituzionali. Il testimonial delle forze dell'ordine, il guardiano delle patrie frontiere, il protettore degli interessi imprenditoriali, il custode del patrimonio immobiliare pubblico, viste le circostanze non poteva scegliere miglior bersaglio. Ha mandato i suoi scagnozzi nella città-retrovia della lotta contro il progetto dell'Alta Velocità (per altro, questione «calda» con la Francia), per stroncare spazi e individui accusati di far parte di associazioni sovversive (per altro, altra questione «calda» con la Francia) che sostengono anche gli immigrati (per altro, ulteriore questione «calda» con la Francia e non solo). Quest'operazione metà di politica poliziesca e metà di polizia politica, ebbene sì, è stata chiamata «Scintilla». Come sua abitudine il Bullo degli Interni non ha atteso la fine dell'operazione prima di dare fiato allo stomaco e tirare il suo rutto preferito: «È finita la pacchia!». Rutto immediatamente amplificato dai mass-media, i quali si guardano bene dall'osservare che pacchia deriva da pacchiare («mangiare con ingordigia») ed indica una condizione di vita facile e spensierata, particolarmente conveniente, senza fatiche o problemi, senza alcuna preoccupazione di ordine materiale. Meglio non chiedere all'inquilino del Viminale — questo pingue rampollo di un dirigente d'azienda... nonché fin da ragazzino bramoso di apparire su schermi televisivi... nonché consigliere comunale appena ventenne in una grande metropoli... nonché europarlamentare assenteista ma con lauto stipendio... nonché segretario di un partito che in 80 anni dovrà restituire con comode rate bimestrali i 49 milioni di euro truffati allo Stato di cui oggi è ministro... nonché compulsivo appassionato del cosiddetto porn-food — quale sarebbe la «pacchia» dei dannati della terra e dei ribelli: una vita di elemosine o piccoli furti, ritrovi di fortuna, traversate in barcone, naufragi, sfruttamento, percosse, torture, fughe, nascondigli, discriminazione, arresti, sorveglianza continua, reclusione? I giornalisti non considerano molto professionale fare domande imbarazzanti, preferiscono sfidare il ridicolo e riportare pari pari le veline questurine senza nemmeno correggervi gli strafalcioni più grossolani, come ad esempio che i sei anarchici arrestati sarebbero i «leader storici» dell'Asilo. Già un leader è di troppo per gli anarchici, figuriamoci sei! Ma poi, avendo una trentina d'anni di età, come avranno fatto ad aver occupato storicamente un posto 24 anni prima? Non penseranno mica che l'asilo di via Alessandria all'epoca fosse funzionante e sia stato occupato dai suoi piccoli ospiti? Ad ogni modo, la scintilla poliziesca ha dato fuoco alle polveri della rabbia. Sabato 9 febbraio si è dipanata per Torino una nutrita manifestazione di protesta, conclusasi con scontri di piazza (ed ulteriori arresti) che hanno fatto piangere il trasversale Partito delle Persone Oneste, quella Grande Alleanza del Signorsì che inorridisce davanti a una vetrina infranta e rimane indifferente davanti al saccheggio della natura o al naufragio dell'umanità. Si è arrivati a sentire il questore di Torino indignarsi verso chi compie atti violenti sicuro della propria impunità... manco i manifestanti fossero poliziotti o carabinieri! Domenica 10 febbraio un altro corteo si è diretto verso il carcere cittadino, con l'intento di salutare chi vi era (appena stato) rinchiuso. Ed è in quel preciso momento che si è verificato l'imprevisto, sotto forma di ennesima scintilla. Un petardo lanciato, dopo aver superato il muro di cinta, ha dato il via ad un incendio diventato incontrollabile dopo aver lambito alcune bombole di gas. Un capannone all'interno è crollato, danneggiando un'intera ala del carcere. Ora, è evidente che davanti alle convulsioni di questa società putrefatta, chi sta in alto abbia le sue buone ragioni di Stato per togliere subito di mezzo chi dal basso potrebbe un domani soffiare sul fuoco. Come diceva un politico esperto (tre volte presidente del Consiglio francese), «fare politica non significa risolvere i problemi, significa mettere a tacere quelli che li sollevano». Ma dovrebbe essere altrettanto evidente che manganelli e galera non possono impedire ai problemi, sollevati non da qualcuno in particolare ma da una vita miserabile in generale, di accavallarsi ed esplodere. È il potere ad aver fatto seccare la prateria dell'esistenza umana, è il potere ad aver caricato di tensioni l'aria, non chi con i suoi movimenti provoca scintille. Qualsiasi fulmine proveniente dall'alto, qualsiasi fiammifero acceso in basso, potrebbe far divampare un incendio fatale. Il Bullo degli Interni può anche esultare per la democratica vittoria (consenso del 25% della popolazione adulta) ottenuta dalla sua coalizione alle elezioni regionali abruzzesi, ma resta il fatto che anno dopo anno l'astensionismo cresce inarrestabile. E all'indifferenza passiva che sprofonda nella muta rassegnazione potrebbe bastare uno sfavillante attimo per diventare quell'indifferenza attiva che insorge nella rivolta al grido: «che se ne vadano tutti». Nessuna configurazione politica, quale che sia il suo colore, è in grado di restituire allo Stato un consenso reale. Chi esercita il potere, in particolare in una simile situazione, non ha modo di evitare una pioggia di scintille durante le sue sempre più sbadate e sbandate manovre (non si è ancora chiusa la crisi diplomatica con la Francia che già si sta aprendo quella con Slovenia e Croazia, per via della storiella sulle foibe e degli sguardi languidi lanciati da alcuni politici all'Istria). Pensa davvero che, per far crollare la sua struttura tanto imponente quanto fragile, sia necessaria una colossale organizzazione, con grandi mezzi a disposizione ed un largo seguito alle spalle? Il piccolo petardo che ha raso al suolo quell'ala del carcere di Torino non gli dice niente? «Evidentemente, Signori, se voi temete per la moralità delle vostre mogli, l'educazione dei vostri figli, la tranquillità delle vostre cuoche e la fedeltà delle vostre amanti, la solidità delle vostre poltrone, dei vostri pitali e dell'ordine costituito, l'organizzazione dei vostri casini e la sicurezza del vostro Stato, avete ragione. Ma che farci? Voi siete marci e il fuoco è acceso».
Finimondo, 12/2/19
Torino, anarchici dimenticano di indossare gilet gialli e ricevono scarsa solidarietà dall’opinione pubblica
Nonostante l’ampia partecipazione al corteo in solidarietà all’Asilo Occupato appena sgomberato, quella che doveva essere una giornata di svolta per il movimento anarchico in Nord Italia non ha raggiunto i risultati sperati, ottenendo, dopo ore di sconti, fermi e qualche danno a Torino, solo un gran numero di critiche da parte dell’opinione pubblica e della cosiddetta società civile, che come sempre ha accusato gli anarchici di aver messo a ferro e fuoco mezza città. Nella realtà tuttavia le intenzioni erano ben diversi: nonostante sia stato tutto organizzato in poche ore, l’idea dei promotori era quella di ottenere finalmente solidarietà anche da settori esterni a quelli dei movimenti: per questo era stata comprato on line uno stock di gilet bianchi uguali in tutto e per tutto a quelli francesi; gli stessi gilet che quando l’italiano medio vede in piazza a Parigi dice guarda che palle hanno i francesi che se una cosa non gli va bene spaccano tutto o perchè gli itagliani kueste kose non le fanno. Insomma, doveva esserci finalmente una giuntura tra anarchismo e l’Italia che non scende in piazza, ma ciò non è avvenuto per una semplice ragione: il corriere di Amazon che doveva consegnare i gilet ha fatto tardi, quindi in strada sono scesi come al solito tutti vestiti di nero.
Accortisi del contrattempo, molti manifestanti che erano a conoscenza della strategia in programma hanno provato a metterci una pezza nelle maniere più fantasiose: alcuni hanno sfilato con una baguette sotto il braccio e durante gli scontri altri hanno usato lo stesso pane come arma contro i poliziotti; altri hanno provato ad intonare la Marsigliese ma non sapendo le parole e l’effetto non è stato dei migliori; un eroico manifestante ha infine lanciato un bidet incendiario oltre le mura del carcere delle Vallette, provocando l’incendio e il crollo di un capannone.
Le manifestazioni tuttavia non sono probabilmente terminate ed è probabile che dalla prossima i gilet gialli, ormai acquistati, facciano finalmente il loro esordio tra le file anarchiche.