Il passo tra l'agire ed il fare, coatta ripetizione stantia, può essere quanto mai breve. Frangenti è nato da un'ipotesi, una scommessa: trovare un modo di comunicare il pensiero e l'azione che fosse differente, che riuscisse a dilagare oltre al milieu di Movimento ed i suoi siti. Per dare corpo a questa riflessione persone diverse si sono incontrate, confrontate, scoperte per trovare un modo di organizzarsi all'interno di questo ambizioso progetto. A volte ci sono riuscite, a volte meno. Nel corso di questi due anni più volte si è sentita l'esigenza di cambiare, di trasformarsi, scontrandosi però con diversi limiti, di volta in volta: dalla distanza geografica agli impegni personali di ognuno, dal carattere individuale di chi vi partecipava al problema della virtualità, dalla repressione poliziesca alle miserie o le bellezze dell'anarchismo di oggi. Trovandoci di fronte ad un bivio, è preferibile sospendere i contributi: in seguito alle nuove riflessioni e necessità, si è insinuato tra chi scrive un senso di inadeguatezza nel guardare e proseguire le pubblicazioni all'interno della forma editoriale che ci siamo fin qui dati. Tuttavia, poiché non possiamo né rifiutare l'affinamento e la crescita della riflessione, sull'altare di un progetto originario, cercando di trovare stimolo nell'identica riproposizione di una forma che rischia di diventare automatismo sterile, né possiamo affermare a cuor leggero che l'ipotesi che diede vita a Frangenti non sussista più e che questo periodico si sia rivelato qualcosa di superfluo nella nostra azione quotidiana, pensiamo occorra fermarsi e sostare al bivio. E riflettere. L'avventura che ci ha condotte a questo punto è, come scrissero molti anni fa, un'avventura senza rimpianti. La strada che ci si spalanca davanti, in una società che ha distrutto l'avventura, è nonostante ciò la certezza che l'avventura della distruzione della società può proseguire su altri e diversi percorsi, resi possibili anche dal tragitto fatto insieme. Che ne sarà di queste relazioni, di questi progetti, di questo giornale nessuno lo può sapere. Come nessuna può sapere il momento in cui le scintille dell'attacco, invece di affievolirsi nel vento della memoria, continueranno a volteggiare incendiando la rabbia della sterpaglia sociale. L'importante è continuare a pensare e discutere, senza arrendersi al dolce suono affabulatorio delle sirene del fare.
Autore: Kavarna
Quattro appuntamenti fra Modena, Tolmezzo, Ferrara e L’Aquila…
Su Notre-Dame…
L’incendio
Louis ***
La struttura della cattedrale di Parigi non ha ancora finito di consumarsi che già tutti i poteri istituiti al gran completo invocano di serrare i ranghi attorno a quel simbolo di sottomissione. È stato tosto ricordato in continuazione che per secoli quel monumento ha visto passare nella sua navata re, papi, imperatori ed altri presidenti di tutta Europa, anzi del mondo. In piena crisi sociale, mentre da mesi si insiste con la cantilena che le casse sono vuote, che il trattamento omeopatico dell'ingiustizia, della povertà e della miseria costa decisamente troppo, essendo le ceneri ancora calde, ecco piovere milioni a profusione e in maniera indecente. Tutto il bel mondo si congratula di fronte alla cosiddetta generosità di alcuni miliardari: rispetto all’importo del salario minimo garantito (Smic), il loro obolo non vale dieci euro! E rispetto all'utilità reale di quei dieci euro per un lavoratore con un salario da fame, vale soltanto pochi centesimi il loro obolo? Senza contare che non si possono assolutamente escludere secondi fini di ottimizzazione fiscale e pubblicitaria. Ma la cosa più grave è che attraverso tale propaganda fatta nel nome del «patrimonio», dell'«arte» e della «cultura», è proprio l'immagine universale di tutti i potenti a venir riaffermata: potenze politiche, religiose, economiche, tecnologiche, finanziarie, mediatiche... Non è un caso che tutti i potenti, o quasi, del pianeta si siano commossi. Ciò che deve essere ricostruito al più presto non è tanto una testimonianza passata della nostra storia comune, quanto un simbolo presente del loro potere. Questa testimonianza del passato, per quanto importante sotto certi aspetti, qui non viene comunque mai messa in una prospettiva critica: la rivoluzione francese o la Comune non sono che pagine nere nella storia della cattedrale, e di conseguenza pagine oscure della stessa Storia. Ciò che è bruciato è anzitutto un mito, ed è questo che bisogna piangere e restaurare. Come ha detto molto bene Macron nel suo discorso del 16 aprile, «ognuno al proprio posto, ognuno nel proprio ruolo», e il mondo continuerà a poter credere nei miracoli. Ed è appunto ciò che ha cercato di venderci: «Non cadiamo nella trappola della fretta» per avanzare nella soluzione della crisi sociale. L'importante è ripristinare l'immagine turistica dell'unità nazionale e del potere dello Stato. Questo potere è d'altronde così straordinario da essere in grado di seccare querce secolari per ben più di una decina di anni pur di ricostruire con esse una struttura monumentale nei prossimi sessanta mesi. Ciò che il potere francese non è proprio riuscito a fare con il saccheggio simbolico di alcuni negozi di lusso sugli Champs-Elysees, ovvero far condannare i rivoltosi nel nome del presunto sogno universale dei consumatori di poter «un giorno» accedere al mito della ricchezza, sta cercando di farlo con questo incendio piuttosto provvidenziale per esso. La sua priorità è quella di restaurare l'immagine dell’unità nazionale minata da cinque mesi di grave crisi sociale: «Sta a noi ritrovare il filo del nostro progetto nazionale, quello che ci ha fatto, che ci unisce, un progetto umano, appassionatamente francese (sic!)». Di fronte a una tale sfida, chi potrebbe non comprendere la meschinità, la piccineria, l'egoismo perfino, della contestazione societaria qualora continuasse a voler ridefinire il senso perduto di una convivenza da reinventare. Nell’intervento di Macron, si vuole esplicitamente far passare il significato della storia davanti ad una «falsa impazienza» necessariamente illegittima della contestazione. «Domani la politica ed i suoi tumulti riacquisiranno il loro diritto, lo sappiamo tutti, ma il momento non è ancora arrivato». Perché mai la vita realmente vissuta deve finire sempre col rovinare la sua immagine idilliaca che i potenti cesellano così minuziosamente per il nostro bene? Affermare la permanenza e la continuità della Francia e dei suoi simboli significa automaticamente tentare di autolegittimare un potere che pretende d’esserne l’incarnazione. Significa simmetricamente tentare di lanciare l'anatema sui contestatori del potere nel nome di una storia presumibilmente imperitura, tanto più grande delle piccole preoccupazioni quotidiane degli uni e degli altri. Il vantaggio di questo genere di discorso è che alla fine renderà palpabile che la critica al potere diventi sempre meno dissociabile dalla critica della sua storia: la storia come la conosciamo è pur sempre la storia raccontata dal potere. Beninteso non si tratta di raccontare altrimenti la stessa storia, con gli occhi dei vinti, ma di rompere la loro storia, di spezzare il riferimento mentale che consente loro di credere di essere la storia. Quanto meno, visto che per loro mi sembra alquanto difficile, è necessario soprattutto che i dominati, quelle persone che non contano nulla, cambino storia, abbandonino la struttura mentale e nazionale che sola legittima i potenti di questo mondo. Solo cambiando storia potranno fare loro la propria storia, solo spezzando i riferimenti temporali e geografici del potere riusciranno, e riusciremo, a spezzarlo. Passi per il fatto che lo Stato francese cantore della laicità diventi, in questa storia di cattedrali, l'araldo di «Notre-Dame» e di una cristianità pienamente consapevole. Da parte mia, preferisco ricordare il giorno di Pasqua del 1950, il 9 aprile, proprio nella cattedrale di Parigi, dove Michel Mourre ei suoi amici proclamarono in piena funzione religiosa la morte di Dio.
«Oggi, giorno di Pasqua nell'Anno Santo, Qui, nell’insigne Basilica di Notre-Dame di Parigi, Accuso la Chiesa Cattolica Universale di deviazione mortale delle nostre forze vive a favore di un cielo vuoto; Accuso la Chiesa Cattolica di frode; Accuso la Chiesa Cattolica di infettare il mondo con la sua morale mortifera, di essere il cancro dell'Occidente decomposto. In verità vi dico: Dio è morto. Noi vomitiamo l'agonizzante insulsaggine delle vostre preghiere, perché le vostre preghiere hanno copiosamente concimato i campi di battaglia della nostra Europa. Andate nel deserto tragico ed esaltante di una terra in cui Dio è morto e mescolate di nuovo questa terra con le vostre mani nude, le vostre mani di superbia, le vostre mani senza preghiera. Oggi, giorno di Pasqua nell'Anno Santo, Qui, nell’insigne Basilica di Notre-Dame di Francia, proclamiamo la morte del Cristo-Dio perché finalmente viva l'Uomo».
Mi rendo conto come questo genere di discorso sia provocatorio, oltraggioso e caricaturale, specialmente perché non si può più parlare oggi dell'Uomo (con la U maiuscola), che in definitiva non è che il figlio troppo Naturale di un Dio (con la D maiuscola). Ma il discorso presidenziale è altrettanto provocatorio, oltraggioso e caricaturale, oltre che sprezzante: la domanda che tuttavia si può porre è sapere se ne sia almeno consapevole.
Colmar, 17 aprile 2019 [trad. da qui]
Giù la maschera
Non faceva molto caldo quel giorno. Eppure il sole aveva brillato per tutto il giorno sulla capitale francese. Il 4 aprile 2019, alcuni uomini sono atterrati sull'asfalto di un qualsiasi aeroporto parigino. Venivano dalla Libia e avevano una missione: chiedere l'accordo di quello Stato per scatenare una vasta offensiva militare. Quegli uomini arrivati in tutta fretta erano emissari del maresciallo Haftar, capo dell'esercito nazionale libico (ANL). Parigi aveva dato il via libera. Qualche ora dopo, migliaia di soldati dell'ANL si sarebbero messi in marcia per conquistare Tripoli, la capitale libica nelle mani del governo di unità nazionale (GNA), riconosciuto dagli organismi internazionali come il «governo legittimo» di un territorio lacerato tra milizie, parlamenti, gruppi paramilitari, mercenari e jihadisti. Dal 4 aprile, le battaglie hanno causato centinaia di morti e feriti fra i combattenti e la popolazione. Mentre le truppe dell'ANL avanzavano, decine di migliaia di persone erano in fuga, 13000 delle quali solo per sfuggire alla battaglia di Tripoli che era iniziata. Migliaia di altre si apprestarono a salire a bordo di barche improvvisate nel tentativo di raggiungere un’Europa che aveva trasformato il Mediterraneo in un gigantesco cimitero. ANL e GNA, una guerra tra due blocchi di potere, uno detestabile come l'altro. Ma non è tutto, non è mai «solo» questo. Altre forze operavano all'ombra dei ministeri e dei palazzi dorati, come in tutti gli altri conflitti che insanguinano il Nord Africa, il Medio Oriente e l’Africa centrale: interessi geopolitici, interessi commerciali, equilibri di potere e di potenze, conquiste di mercato, accesso alle risorse, basi militari,… tutto intrecciato. Ma prima, facciamo un veloce ritratto del maresciallo Haftar – ci aiuterà a capire il resto. Nel 1969, Khalifa Belqasim Haftar partecipa al colpo di Stato che porta al potere il colonnello Gheddafi. Nel 1987, forte del suo addestramento in prestigiose scuole sovietiche, guida il corpo di spedizione dell'esercito libico contro il Ciad, il cui sanguinario dittatore Hissène Habré è sostenuto da Francia e Stati Uniti. Sconfitto e catturato, Haftar viene imprigionato a N'Djamena, la capitale del Ciad, dove cambia bandiera e riceve l’incarico dagli Stati Uniti di comandare una «forza Haftar» in Ciad per rovesciare Gheddafi. Altro fallimento: nel 1990, dopo l'elezione del presidente del Ciad Idriss Déby, vicino al leader libico, viene spedito d’urgenza negli Stati Uniti. Ormai soprannominato «l’uomo degli americani», Haftar si installa vicino a Langley – sede della CIA – e continua a lavorare senza successo per il rovesciamento di Gheddafi. Nel 2011, Haftar ritorna in Libia durante la rivolta che porterà alla caduta del colonnello Gheddafi. All'inizio del periodo di transizione, elevato al grado di tenente generale, comanda per un breve periodo la componente terrestre delle forze armate libiche. Ma gli islamisti, maggioritari nella ribellione vittoriosa, non gli perdonano d’essere un «uomo degli americani». Ancora un fallimento: Haftar ritorna negli Stati Uniti nella sua casa in Virginia alla fine del 2011. Rientrato in Libia all'inizio del 2014, in un paese spaccato in due (area di Tripoli e area di Tobruk) e con un discreto sostegno internazionale (tra cui Francia, Arabia Saudita ed Egitto), il maresciallo decide di creare una propria forza armata, alla quale si uniscono milizie locali ed elementi dell'ex-esercito libico. Nel frattempo, «l’uomo degli americani» che voleva affermarsi come l'uomo forte del paese, diventa discretamente anche «l’uomo dei francesi». Mentre l'Eni, la compagnia petrolifera italiana, si aggiudica importanti contratti per i pozzi di petrolio sotto il controllo del governo di Tripoli, la Total si rifà coi depositi sotto il controllo dell'ANL di Haftar. È infatti nel castello di La Celle Saint-Cloud, negli Yvelines, e alla presenza dello stesso Macron, che nel luglio 2017 viene firmato un primo cessate il fuoco tra il governo di Tobruk, di cui Haftar è il braccio armato, e quello del suo rivale di Tripoli. Sebbene gli aiuti francesi inizialmente siano volutamente discreti, ciò non sfugge certo all'attenzione di molti libici che hanno visto operare le forze speciali francesi, naturalmente nel nome della «lotta al terrorismo», accanto ai soldati di Haftar. D’altronde, neanche il fatto che quei soldati dispongano di materiale bellico prodotto in Francia impedisce alle aziende belliche francesi di vendere il loro arsenale anche al governo avversario di Tripoli. Il gioco sanguinario è ben noto: le armi sono vendute come dosi, dosi di morte, in funzione degli obiettivi che lo Stato conta di realizzare. Niente di più semplice, visto che si vendono alcune centinaia di blindati a un campo, e all'altro, volendo favorirne la superiorità, si vendono i lanciarazzi appropriati. Il primo campo è soddisfatto del proprio acquisto, il secondo lo è ancor più nel vedere i nuovissimi blindati esplodere in fondo ai mirini dei loro congegni telecomandati. Ma i più felici di tutti sono le aziende e lo Stato francesi, che hanno realizzato profitti da entrambe le parti perseguendo nel frattempo il proprio programma strategico. La ragione di Stato non ha nulla, assolutamente nulla a che vedere con le chiacchiere sul rispetto per la vita umana, la libertà, il diritto o la giustizia. Questa Repubblica francese di libertà, uguaglianza e fratellanza è putrida quanto i cumuli di cadaveri rivoltosi su cui è costruita e che continua ad accumulare in tutto il mondo. Se decenni di guerre sporche e di operazioni «antiterroristiche» condotte dagli Stati Uniti e da Israele hanno associato questi due Stati nell'immaginario della stragrande maggioranza della popolazione mondiale a porcherie di ogni sorta nel nome dei loro interessi particolari, la Francia è in generale riuscita a preservare la propria immagine di «paese dei diritti umani». Nonostante le numerose schegge sul suo stemma durante la guerra d'Algeria e la feroce repressione delle lotte di liberazione nazionale nelle sue colonie, continua a pavoneggiarsi come se non fosse successo nulla. Ci sbaglieremo, ma è anche usando questo capitale culturale come scudo che la Francia è sempre riuscita (soprattutto nell'ultimo decennio) a fare guerre senza subire troppi danni o a vendere le proprie competenze guerrafondaie a tutte le latitudini. Facciamo l’esempio dei regimi oggetto di certe critiche e sostenuti militarmente dalla Francia, come l'Arabia Saudita nella sua guerra allo Yemen, il Congo in preda ad eterne «guerre civili» spesso in un contesto di competizione nello sfruttamento di risorse e di metalli preziosi, l'Egitto tra le ribellioni e la loro sanguinosa repressione, il Marocco durante la rivolta del Rif, eccetera eccetera. E questo, naturalmente, quando non spaccia le sue tecnologie nucleari e non dispiega le sue forze speciali per «combattere i terroristi» nel Ciad, nel Mali o in Siria sul versante YPG. Ma la maschera non cade. Non è caduta ieri, non cade oggi di fronte al classico esempio di «guerra per procura» che sta conducendo il maresciallo Haftar. Lo Stato francese può tranquillamente continuare a far risplendere il suo stemma di valori repubblicani. Per altro, gode anche di un ampio consenso tra i suoi sudditi – ma sì, diciamolo, di un ampio consenso. Magari di un consenso passivo, tacito, ovvero generato, o come si voglia dire, però c’è, e di fatto sostiene la politica del proprio Stato. Con l'eccezione delle ondate emotive legate alla situazione internazionale nel corso delle due guerre del Golfo o di quella nell'ex-Jugoslavia – ma tutto ciò risale a molto tempo fa – e mentre scendere in piazza per esprimere la propria opposizione all’orribile affare tricolore di morte è il minimo in un territorio dove non si è persa l'abitudine di dimostrare, la maschera rifiuta ostinatamente di cadere. Eppure le cose sono ormai chiare: dall'inizio delle rivolte e della loro conseguente repressione in Nord Africa e Medio Oriente, le vendite di armi made in France sono passate da 4,8 miliardi di euro nel 2012 a 6,8 miliardi di euro nel 2013, poi a 8,2 miliardi nel 2014, a 16,9 miliardi nel 2015 e a circa 20 miliardi di euro nel 2016. Le esportazioni di armi rappresentano quindi più del 25 per cento di tutte le esportazioni dalla Repubblica mortifera. Lungi da noi l’idea di voler svalutare la rabbia che è scesa in strada negli ultimi mesi, dobbiamo notare che alla rabbia di fine mese manca qualcosa, se non parecchio. Manca, ad esempio, una certa profondità per guardare oltre le proprie cipolle, oltre una mera, insipida e sempre più costosa sopravvivenza. Quando giustamente protestiamo contro i poliziotti che mutilano dei manifestanti, quando denunciamo le aziende che forniscono armi alle divise locali, come non fare il legame tra queste stesse aziende e il fatto che fabbricano le armi che mutilano e uccidono in molti altri paesi generosamente riforniti dall'industria francese, e su ben altra scala? Quando protestiamo contro il prezzo del carburante e l’aumento della sua tassazione da parte dello Stato, come non fare il legame con le guerre e i massacri per il petrolio in cui lo Stato francese è quanto meno corresponsabile, se non mandante (come pare sia il caso oggi del maresciallo Haftar, dittatore militare in divenire)? Non si tratta di puntare il dito contro qualche schiavo in particolare, ma del meccanismo di servitù volontaria che mira a renderci tutti vittime e carnefici, a meno che la catena di sottomissione non venga spezzata. Si tratta di capire che lo Stato di questo paese è uno Stato nel senso più ampio del termine. Uno Stato che si occupa di tutto: organizzare elezioni e mutilare i suoi manifestanti, insegnare ad altri regimi i diritti umani e assumere mercenari, predicare la pace ai paesi belligeranti e simultaneamente condurre operazioni militari a destra e a manca, schiacciare e torturare (cos’altro è il carcere?) coloro che disturbano o sono superflui e mettere a disposizione del buon cittadino un apparato amministrativo onnipresente. Lo Stato francese non è diverso dai suoi omologhi, ma ciò che li contraddistingue sono in particolare i margini di cui ciascuno di loro dispone per difendere e imporre gli interessi intrecciati che i potenti hanno loro affidato nel quadro nazionale. Margini di manovra che creano responsabilità da pagare in un modo o nell'altro... E allora, lo stemma umanitario dello Stato francese deve essere fracassato una volta per tutte. Nel corso del XIX secolo, quando questo Stato si è consolidato sui cadaveri dei rivoltosi nelle colonie e sui cadaveri degli insorti di tante rivoluzioni affogate nel sangue (giugno 1848 e la Comune), un rivoluzionario anarchico, Ernest Cœurderoy, ha espresso un desiderio molto speciale. Constatando amaramente che i rrrivoluzionari liberali e socialisti trascorrevano il loro tempo ad immaginare uno Stato migliore, uno Stato più giusto... ma fondamentalmente uno Stato pur sempre totalitario per natura, per quanto adornato coi valori della Grande Rivoluzione, si è rivolto ai cosacchi. Hurrah! Auspicava la discesa dei cosacchi, di quelle energie vitali ostili alle chiacchiere e alla cultura politica, di quei terribili barbari che lasciano dietro di sé solo le rovine di ipocrite civiltà. Egli credeva che una vasta opera di distruzione di questo mondo fosse necessaria prima dell'inizio di una vasta opera di costruzione di un nuovo mondo. Oggi, di fronte alle guerre che lo Stato sta conducendo in tutto il mondo, di fronte alla repressione che scatena nelle strade e alle frontiere, di fronte al cannibalismo sociale che fomenta tra la popolazione e di cui approfitta per riaffermare la sua supremazia, le chiacchiere sono inutili. Le denunce sono inutili. Gli appelli alla coscienza sono inutili. È prima di tutto attraverso il fuoco che dobbiamo passare. Con audacia, per strappare la maschera che copre un bellicismo di cui ci vorrebbe tutti complici. Né la loro pace, né la loro guerra, Hurrah!
Tratto da Avis de tempêtes, n. 16, 15/4/19, traduzione Finimondo
Degli scribacchini, la ciclicità dell’obbedienza
Si potrebbe dare ragione ad uno scribacchino del potere, direttore di un giornale locale pieno di spazzatura? Se la coscienza spesso dice no, in questo caso la risposta è affermativa. Negli ultimi giorni tutte le stridenti voci del potere sono state chiamate a raccolta per difendere una giornalista del quotidiano La Provincia: essa ha fatto solamente il proprio lavoro nello spettacolarizzare, qualora ce ne fosse stato bisogno, le vite delle anarchiche e degli anarchici di Cremona. C'è da ammetterlo: il capo scribacchino ha ragione, come si fa a criticare chi fa solamente il proprio lavoro?
Sulla bocca degli stolti il lavoro diviene neutrale. Infatti Eichmann faceva solamente il proprio lavoro quando riempiva i treni di indesiderabili pronti per i campi di concentramento e le camere a gas? Per non parlare dei carabinieri, dei medici e dei secondini che hanno fatto solamente il loro lavoro con Stefano Cucchi. Cosa dire di chi metteva gli idrocarburi sotto terra nel caso Tamoil qui a Cremona, facevano solamente il proprio lavoro? E chi produce armi, sta facendo solamente il suo lavoro? E quando le scelte dei politici, degli economisti e dei tecnici riducono alla fame la maggior parte delle persone al mondo, essi stanno facendo solamente il proprio lavoro? E quando il carcere isola e tortura i prigionieri, come nel caso di Tommy e di tutti i compagni in galera e non solo, esso fa solo il suo lavoro o è nella sua funzione totalitaria isolare e torturare? Come non dare ragione all'antipatico scribacchino di potere? In sostanza, questi pochi esempi ci dicono che è solo una questione per cui qualcuno è impegnato «solamente a fare il proprio lavoro».
Andando in profondità possiamo vedere qual'è il lavoro del giornalista ai giorni nostri. Aderente completamente alla realtà, risponde sull'attenti al potere del denaro, accrescendo con i propri articoli il fatto che i poveracci devono essere distrutti dall'ingiustizia latente, in cui i ricchi devono continuare a vivere beatamente rafforzando i loro privilegi. Il principio di presunta neutralità diventa sempre la foglia di fico: riducendo le idee a mere opinioni, diviene ripetitore incessante delle banalità del dominio. Ridurre il conflitto sociale a questione incomprensibile diventa lo scopo giornalistico: quando un detenuto si rivolta diviene un mostro, quando i giovani si ribellano diventano vandali e quando gli anarchici difendono certe forme di azione contro questo putrido esistente vengono chiamati terroristi. Utilizzando la tecnica dello scandalo per far risuonare la sinfonia stonata e martellante del potere, il giornalista si dimena nella miseria degli altri. Ridicolizzare, demistificare e falsificare ogni atto di ribellione è un regalo concesso ai propri amichetti in divisa. Denunciare piccoli scandali è il modus operandi di ogni scribacchino, per tenere in piedi e non criticare dalle fondamenta il più grande scandalo di oggi: questo mondo. Lo scribacchino eccelle in stupidità, confondendo luoghi e altro per un fine ben preciso: tenere i propri lettori nell'ignoranza e nell'obbedienza.
La libertà di stampa è una grossa fandonia quando si deve rispondere ad un padrone. Se esiste la servitù volontaria, come si può pensare in libertà? Suvvia, sta facendo solamente il proprio lavoro… Allora viene alla mente un fatto storico che sa di contemporaneo. Quando Goebbels eccitava Hitler e il popolo tedesco dicendo: «Noi non parliamo per dire qualcosa, ma per ottenere un certo effetto», come non sentire una similitudine con la produzione dell’opinione pubblica da parte dei media ai giorni nostri? La farsa dell'informazione senza sapere serve solo a consolidare lo sfruttamento, dove ormai l'adagio dadaista diviene una banalità agli occhi di chi guarda curioso questo mondo: «L’idiozia è sempre al potere».
Ecco perché la minaccia alla libertà viene anche perpetuata dallo scribacchino: esso in sostanza è l'avanguardia opinionista, che modella il ruolo imposto ad ognuno in questa società. Guai a chi si ribella!
Il vandalismo del pensiero e l'idea selvaggia della libertà come imprevisto generano i fiori maligni di un qualcosa di assolutamente altro, dove ogni sensibilità dovrebbe sentire che il potere va affrontato in ogni sua sfaccettatura, senza paura e con quella leggerezza del negativo che ha sempre contraddistinto chi lotta per un'Idea di libertà. Come ha fatto Tommy, perché il messaggio che il monopolio della violenza dello Stato, fomentato anche da chi indossa una divisa, possa essere attaccato è un concetto troppo pericoloso per chi vuole mantenere sopraffazione e privilegi. In questo Tommy non è solo, perché non è l'unico individuo che ha resistito ad un fermo di polizia, a Cremona come altrove.
I giornalisti sono una delle molteplici minacce alle infinite possibilità di trasformazione radicale dell'esistente, tentando di occultare ogni tensione contro l'autorità. A questo non si può rimanere muti come vorrebbero tutti i candidati sceriffi di questa città. Sopravvivere nell'eterna catastrofe chiamata quotidianità non è possibile per chi ha dei sogni.
Come scrisse René Char, è indispensabile cercare quel moto che potrà dar vita a «qualcosa che rovescerà completamente l'innominabile situazione nella quale siamo immersi».