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A proposito di Kavarna

...la passione per la libertà è più forte d'ogni autorità...

«Scopo del terrore e dei suoi atti è di estorcere totalmente l'adattamento degli uomini al proprio principio, affinché anch'essi riconoscano, in definitiva, ancora solo uno scopo: quello dell'autoconservazione. Quanto più gli uomini hanno in mente senza scrupoli la propria sopravvivenza, tanto più diventano marionette psicologiche di un sistema che non ha altro scopo che mantenere se stesso al potere»
Leo Löwenthal, 1945

Ecco, ci siamo. Da poche ore è stato dichiarato lo stato d’emergenza sanitaria su tutto il territorio nazionale. Serrata quasi totale. Strade e piazze semi-deserte. Proibito uscire di casa senza una ragione ritenuta valida (da chi? ma dalle autorità, naturalmente). Proibito incontrarsi e abbracciarsi. Proibito organizzare qualsivoglia iniziativa che preveda anche solo un minimo di presenza umana (dalle feste ai raduni). Proibito stare troppo vicini. Sospensione di ogni socialità. Ammonimento a stare chiusi in casa il più possibile, aggrappati ad un qualche dispositivo elettronico in attesa di notizie. Obbligo di seguire le direttive. Obbligo di portare sempre con sé una «autocertificazione» che giustifichi i propri spostamenti, anche se si esce a piedi. Per chi non dovesse sottomettersi a simili misure è prevista una sanzione che può prevedere l'arresto e la detenzione. E tutto ciò per cosa? Per un virus che tuttora divide gli stessi esperti istituzionali a proposito della sua effettiva pericolosità, come dimostrano le stesse polemiche fra virologi di pareri opposti (per non parlare della sostanziale indifferenza che gli mostrano non pochi paesi europei)? E se anziché il coronavirus, con il suo tasso di mortalità del 2-3% ovunque nel mondo tranne che nel nord Italia (chissà se è l'acido nucleico ad incattivirsi a contatto con la polenta, oppure se è la schiatta padana ad essere gracilina), fosse arrivato in queste lande un Ebola capace di decimare la popolazione dell’80-90%, cosa sarebbe accaduto? Si passava direttamente a sterilizzare i focolai tramite bombardamenti?  Certo, tenuto conto dei legami tra le dinamiche delle società industriali e la moderna concezione occidentale della libertà, non sorprende che per arginare un contagio virale si applichi una politica che impone a tutti gli arresti domiciliari e il coprifuoco. Ciò che stupisce semmai è che tali misure vengano recepite così passivamente, non soltanto tollerate, ma introiettate e giustificate dalla quasi totalità delle persone. E non solo dai menestrelli di corte che invitano tutti a starsene a casa, non solo dai cittadini perbene che si incoraggiano (e si controllano) a vicenda sicuri che «andrà tutto bene», ma persino da chi oggi — davanti allo spauracchio infettivo — non è più disponibile a sentire i (fino a ieri osannati) ritornelli contro lo «stato di eccezione», preferendo schierarsi a favore di una fantomatica materialità dei fatti. Per quel che vale, giacché mai come nei momenti di panico (con l'eclissi della ragione che comporta) ogni parola risulta inutile, torniamo sullo psicodramma popolare in corso nel Belpaese, sui suoi effetti sociali più che sulle sue cause biologiche.  Che questo virus provenga dai pipistrelli o da qualche laboratorio militare segreto, cosa cambia nell'immediato? Nulla, una ipotesi vale l'altra. Al di là della mancanza di informazioni e di competenze più precise al riguardo, resta pur sempre valida una banale constatazione: virus simili possono essere effettivamente trasmessi da determinate specie animali, così come fra i tanti apprendisti stregoni delle «armi non convenzionali» ci può ben essere qualcuno di più cinico o sbadato. E allora?  Ciò detto, dovrebbe essere fin troppo scontato che nel mondo attuale è l'informazione a decretare ciò che esiste. Letteralmente, esiste solo ciò di cui parlano i media. E ciò che tacciono, non esiste. Da questo punto di vista, ha ragione chi sostiene che per fermare l'epidemia basterebbe spegnere la televisione. Senza l'allarmismo mediatico che attorno ad essa è stato sollevato, inizialmente solo qui in Italia, nessuno avrebbe prestato grande attenzione ad una imprevista forma influenzale, le cui vittime sarebbero state ricordate solo dai loro cari e da qualche statistica. Non sarebbe la prima volta. È ciò che è accaduto con le 20.000 vittime provocate qui in Italia a partire dall'autunno del 1969 dall'influenza di Hong Kong, la cosiddetta «influenza spaziale». All'epoca i mass-media ne parlarono parecchio, era dall'anno precedente che seminava morte in giro per il pianeta, eppure venne considerata semplicemente come una forma influenzale più virulenta del solito. Tutto qui. Del resto, ve lo immaginate cosa avrebbe provocato in Italia la proclamazione dello stato di emergenza nel dicembre del 1969? Alle autorità avrebbe senz'altro fatto comodo, ma sapevano di non poterselo permettere. Sarebbe stata l'insurrezione. Si dovettero accontentare della paura seminata dalle stragi di Stato. Ora, è sensato ritenere che un virus estremo-orientale sia esploso nel mondo con tale virulenza solo qui in Italia? È assai più verosimile che solo qui in Italia gli organi d'informazione abbiano deciso di dare risalto alla notizia dell'arrivo dell'epidemia. Che si sia trattato di una precisa scelta o di un errore di comunicazione, questo potrà essere a lungo materia di dibattito. Ad essere fin troppo palese, in compenso, è il panico che hanno scatenato. E a chi e a cosa esso giovi. Perché, bisogna ammetterlo: non c'è nulla in grado di seminare terrore più di un virus. È il nemico perfetto, invisibile e potenzialmente onnipresente. A differenza di quanto accade con gli jihadisti medio-orientali, la sua minaccia estende e legittima pressoché all'infinito la necessità di controllo. Non vanno sorvegliati di tanto in tanto i possibili carnefici (alcuni), ma sempre e comunque le possibili vittime (tutti quanti). Non è sospetto «l’arabo» che si aggira con fare losco in luoghi considerati sensibili, ma chi respira perché respira. Se si trasforma un problema sanitario in un problema di ordine pubblico, se si pensa che il modo migliore per curare sia quello di reprimere, allora diventa chiaro il motivo per cui uno dei candidati al ruolo di super-commissario della lotta contro il coronavirus fosse l’ex-capo della polizia ai tempi del G8 di Genova 2001 ed attuale presidente della principale industria bellica italiana (ma poiché gli affari sono affari, alla fine gli è stato preferito un manager dalla formazione militare, l’amministratore delegato dell’agenzia nazionale per gli investimenti e lo sviluppo dell’impresa). Si tratta forse di rispondere alle esigenze espresse in Senato da un noto politico, il quale ha dichiarato che «questa è la terza guerra mondiale che la nostra generazione è impegnata a vivere, destinata a cambiare le nostre abitudini più dell’11 settembre»? Dopo Al-Qaeda, ecco il Covid-19. Ed ecco anche i bollettini di questa guerra al tempo stesso virtuale e virale, i numeri di morti e feriti, le cronache dai fronti di battaglia, la narrazione degli atti di sacrificio e di eroismo. Ora, a cosa è mai servita nel corso della storia la retorica della propaganda bellica, se non a mettere da parte ogni divergenza e mobilitarsi per fare quadrato attorno alle istituzioni? Nel momento del pericolo, non ci devono essere né divisioni né tantomeno critiche, ma solo unanime adesione dietro alla bandiera della patria. Così, in queste ore all’interno dei palazzi si sta ventilando l’ipotesi di dare vita ad un governo di salute pubblica. Senza dimenticare un primo effetto collaterale niente affatto sgradito: chiunque esca fuori dal coro non può che essere un disfattista, meritevole di linciaggio per alto tradimento.  Come già detto, noi non sappiamo se questa emergenza sia il frutto di un premeditato progetto strategico o di una corsa ai ripari dopo un errore compiuto. Sappiamo però che — oltre a spianare ogni resistenza al dominio di Big Pharma sulle nostre esistenze — servirà a diffondere e consolidare la servitù volontaria, a far introiettare l'obbedienza, ad abituare ad accettare ciò che è inaccettabile. Cosa c'è di meglio per un governo che ha perduto da tempo ogni minima parvenza di credibilità, e per estensione per una civiltà palesemente in putrefazione? La scommessa lanciata dal governo italiano è enorme: istituire una zona rossa di 300.000 chilometri quadrati come risposta al nulla. Può una popolazione di 60 milioni di persone scattare sull'attenti e gettarsi ai piedi di chi le promette di salvarla da una minaccia inesistente, come un cane di Pavlov sbavava al semplice suono di una campanella? Si tratta di un esperimento sociale il cui interesse per i risultati travalica i confini italiani. La fine delle risorse naturali, gli effetti della degradazione ambientale ed il costante sovraffollamento annunciano lo scatenamento un po’ dovunque di conflitti la cui prevenzione e gestione da parte del potere richiederà misure draconiane. È ciò che alcuni hanno già battezzato «ecofascismo», le cui prime misure non saranno molto dissimili da quelle prese oggi dal governo italiano (che infatti farebbero la delizia di ogni Stato di polizia). Per testare su larga scala provvedimenti del genere, l'Italia è il paese catalettico giusto e un virus è il pretesto trasversale perfetto.  Finora i risultati per gli ingegneri di anime ci sembrano entusiasmanti. Con pochissime eccezioni, tutti sono disponibili a rinunciare ad ogni libertà e dignità in cambio dell'illusione della salvezza. Se poi il vento a favore dovesse cambiare direzione, per impedire l’effetto boomerang potranno sempre annunciare che il pericoloso virus è stato debellato. Per adesso a farne le spese sono stati i detenuti uccisi o massacrati nel corso delle rivolte scoppiate in una trentina di penitenziari dopo la sospensione dei colloqui. Ma ovviamente non si è trattato di imbarazzante «macelleria messicana», bensì di lodevole disinfestazione italiana. Che l'emergenza offra a chi esercita l'autorità la possibilità di adottare pubblicamente comportamenti fino a ieri tenuti segreti, lo si nota anche nei piccoli fatti di cronaca: a Monza una donna di 78 anni visitata al policlinico perché affetta da febbre, tosse e difficoltà respiratoria, è stata sottoposta a Tso dopo aver rifiutato di farsi ospedalizzare per sospetto coronavirus. Poiché il Tso, istituito nel 1978 con la famosa legge 180, può essere applicato solo a cosiddetti malati psichici, quel ricovero coatto è stato un «abuso di potere» (come amano dire le anime belle democratiche). Uno dei tanti commessi quotidianamente, solo che in questo caso non è stato necessario minimizzarlo od occultarlo, ed è stato reso pubblico senza che si sollevasse la minima critica. Allo stesso modo, a Roma sono stati arrestati sette stranieri rei di... giocare a carte in un parco. È il minimo che potesse capitare a possibili untori privi di ogni «senso di responsabilità». Già, la responsabilità. Si tratta di una parola oggi sulla bocca di tutti. Bisogna essere responsabili, sollecitazione che viene martellata di continuo e che tradotta dalla neo-lingua del potere significa una cosa sola: bisogna obbedire alle direttive. Eppure non è difficile capire che è proprio obbedendo che si evita ogni responsabilità. La responsabilità ha a che fare con la coscienza, il felice incontro fra sensibilità ed intelligenza. Indossare una mascherina o stare tappati in casa solo perché l'ha dettato un funzionario del governo non denota responsabilità attiva, bensì obbedienza passiva. Non è frutto di intelligenza e sensibilità, ma di creduloneria e dabbenaggine condite con una buona dose di pavidità. Per essere un atto di responsabilità dovrebbe sorgere dal cuore e dalla testa di ogni individuo, non venire ordinato dall'alto ed imposto dietro minaccia di punizione. Ma, come è facile intuire, se c'è una cosa che il potere teme più di ogni altra è proprio la coscienza. Perché è dalla coscienza che nasce la contestazione e la rivolta. Ed è proprio per sterilizzare ogni coscienza che veniamo bombardati 24 ore su 24 dai più futili programmi televisivi, intrattenimenti telematici, chiacchiericci radiofonici, cinguettii telefonici... mastodontica impresa di formattazione sociale il cui scopo è la produzione dell'idiozia di massa. Ora, se si considerassero le ragioni avanzate per dichiarare questa emergenza con un minimo di sensibilità e di intelligenza, cosa ne verrebbe fuori? Che uno stato di emergenza inaccettabile è stato dichiarato per motivi inverosimili da un governo inattendibile. Può infatti uno Stato che ignora le 83.000 vittime provocate ogni anno da un mercato di cui detiene il monopolio, e che gli frutta un ricavo netto di 7,5 miliardi di euro, essere credibile quando afferma di istituire in tutto il paese una zona rossa per arginare la diffusione di un virus che — a detta di molti fra gli stessi virologi — contribuirà a provocare la morte di alcune centinaia di persone già ammalate, ammazzandone magari qualcuna direttamente? Forse che per impedire che ogni anno 80.000 persone crepino per l'inquinamento atmosferico, lorsignori hanno mai pensato di bloccare su tutto il territorio nazionale le fabbriche, le centrali elettriche, le automobili? Ed è questo stesso Stato che negli ultimi dieci anni ha chiuso oltre 150 ospedali ad invocare oggi maggiore responsabilità? Quanto alla materialità dei fatti, ci sia permesso di dubitare che si voglia affrontarla veramente. Di certo non lo vogliono i sinistri imbecilli che di fronte al massacro attuato in ogni ambito da questa società sono capaci solo di tifare per la rivincita dello Stato sociale buono (con la sua sanità pubblica e le sue grandi opere utili) sullo Stato liberale cattivo (taccagno con i poveri e generoso con i ricchi, del tutto impreparato ed approssimativo ad affrontare la “crisi”). E ancor meno lo vogliono i bravi cittadini pronti a rimanere a digiuno di libertà pur di avere briciole di sicurezza. Perché affrontare la materialità dei fatti significa anche e soprattutto considerare cosa si voglia fare del proprio corpo e della propria vita. Significa anche accettare che la morte ponga fine alla vita, perfino a causa di una pandemia. Significa anche rispettare la morte, e non pensare di poterla evitare affidandosi alla medicina. Tutti moriremo, nessuno escluso. È la condizione umana: soffriamo, ci ammaliamo, moriamo. A volte con poco, a volte con tanto dolore. La medicalizzazione forsennata, con il suo delirante proposito di sconfiggere la morte, non fa altro che radicare l’idea secondo cui la vita va conservata, non vissuta. Non è la stessa cosa. Se la salute — come l'OMS si vanta di sostenere fin dal 1948 — non è la semplice assenza di malattia, bensì il pieno benessere fisico, psichico e sociale, è evidente che l'umanità intera è una malata cronica, e non certo a causa di un virus. E questo benessere totale come dovrebbe essere ottenuto, con un vaccino ed un antibiotico da assumere in ambiente asettico, oppure con una vita vissuta all'insegna della libertà e dell'autonomia? Se negli ospedali spacciano così facilmente la «presenza dei parametri vitali» per «forma di vita», non è perché si è ormai dimenticata la differenza fra vita e sopravvivenza? Il leone, il cosiddetto re degli animali, simbolo di forza e bellezza, vive mediamente 10-12 anni finché è libero nella savana. Quando si trova in uno zoo, al sicuro, la durata della sua vita può raddoppiare. Chiuso in una gabbia è meno bello, meno forte — è triste ed obeso. Gli hanno tolto il rischio della libertà per dargli la certezza della sicurezza. Ma in questa maniera non vive più, può al massimo sopravvivere. L'essere umano è il solo animale che preferisce trascorrere i suoi giorni in cattività piuttosto che in natura. Non ha bisogno di un cacciatore che gli punti contro un fucile, ci sta volontariamente dietro le sbarre. Circondato ed intontito da protesi tecnologiche, la natura non sa più nemmeno cosa sia. Ed è felice, persino orgoglioso della superiorità della sua intelligenza. Avendo imparato a fare di conto, sa che otto giorni da essere umano sono più di uno da leone. I suoi parametri vitali sono presenti, soprattutto quello considerato fondamentale dalla nostra società: il consumo di merci.  

C'è un che di paradossale nel fatto che gli abitanti della nostra titanica civiltà, così appassionata di superlativi, si agitino in preda al nervosismo di fronte ad uno dei più minuscoli microrganismi viventi. Come osano poche decine di milionesimi di centimetro di materiale genetico mettere a repentaglio la nostra pacifica esistenza? È la natura. Detto brutalmente fra noi, considerato ciò che le abbiamo fatto sarebbe anche giusto che ci spazzasse via. E tutti i vaccini, le terapie intensive, gli ospedali del mondo, non potranno mai farci nulla. Anziché pretendere di domarla, dovremmo (re)imparare a convivere con la natura. In società selvagge, cioè senza rapporti di potere, non in Stati civili.  Ma questo comporterebbe un «cambio di comportamento» assai poco gradito a chi ci governa, a chi vorrebbe governarci, a chi vuole essere governato.

Finimondo, 12/3/20

Che la vita sociale si svolga a distanza, in fondo, non è una novità.
Ormai da tempo le persone vengono persuase che il modo migliore per
comunicare e avere relazioni sia quello che utilizza un dispositivo.
Protesi dell’essere umano, lo smartphone e i suoi affini, hanno
trasformato i modi di stare assieme, di informarsi, imparare,
comunicare, scrivere, leggere. Il passo successivo è una robotizzazione
del vivente, la tecnica che pervade ogni luogo, ogni aspetto della vita
quotidiana. Un superamento della natura e del naturale a favore di
esseri e luoghi artificiali. Uno scenario simile non ha bisogno di vita
sociale, non ha bisogno di relazioni, emozioni, pensieri, ha bisogno
solo di ordine, disciplina, regolamentazione, macchine. Forse ora il
Dominio prova a fare un passo in avanti e utilizza un problema
sanitario, la diffusione di un virus, per arrivare quanto meno ad
un’irreggimentazione generalizzata, il resto poi andrà da sé. Viene in
mente la fantascienza, ma gli Stati hanno strumenti ormai lontani secoli
a cui attingere senza dover ricorrere all’ignoto. Il distanziamento
sociale imposto per legge che prevede il divieto di baci e abbracci e la
soppressione della gran parte delle attività sociali, ricorda gli stati
d’emergenza, in cui si impongono regole di vita sociale da rispettare
per non incappare in denunce e arresti. E in effetti la istituzione di
zone rosse e di postazioni di controllo, la limitazione della libertà di
circolazione, l’obbligo dell’isolamento domiciliare per chi provenga da
zone considerate infette con possibilità di controllo da parte delle
forze dell’ordine, ma soprattutto il divieto di assembramenti, cioè di
riunioni pubbliche, è la gestione poliziesca di una problematica
sanitaria. Non a caso nelle dieci regole consigliate dallo Stato
italiano per evitare la diffusione del virus, si prevede che in caso di
febbre si debbano contattare prima i carabinieri. Ma gli stati
d’emergenza sono le misure previste anche in situazioni di conflitto o
insurrezionali, come accaduto di recente in Cile. Lo Stato decreta per
legge che i cittadini sono sua proprietà e può disporne come meglio
crede. Non è per questioni sanitarie, né di benessere della popolazione
che si impongono gli stati d’emergenza, ma per far introiettare regole,
infondere disciplina. E in effetti, per ottenere obbedienza, il modo più
sicuro è quello di spargere terrore, diffondere paura. Creare ansia e
panico, divulgare continuamente dati, rendere tutto sensazionalistico ed
eccezionale. Incutere paura è una pratica di guerra e di tortura, nonché
di governo e anche in questo gli Stati sono specializzati. E la guerra è
ritornata prepotentemente in auge dopo essere stata allontanata e
cancellata per lunghi anni. Oggi la guerra è qui, anzi ovunque. I capi
di Stato si dichiarano in guerra contro un nemico alquanto singolare, un
virus, ma non è lui il loro avversario né il loro obiettivo, ma i loro
stessi sudditi.
Per tale motivo la questione in gioco, forse più importante, è quella di
tenere vivo il pensiero critico, senza minimizzare nulla. Dopo aver, a
braccetto con l’Economia, industrializzato e devastato la natura,
desertificato il pensiero, ora si annullano le emozioni. Niente baci,
niente abbracci.
Tuttavia, se il Dominio ci vuole totalmente dipendenti da sé, se lo
Stato cancella la vita sociale e in parte anche economica, ciò significa
che non abbiamo bisogno dello Stato. Che possiamo autorganizzare le
nostre iniziative, le nostre forme di educazione, le nostre economie, i
nostri svaghi. E anche in questo caso non abbiamo bisogno di ricorrere
alla fantascienza ma all’esperienza, alla memoria, alla volontà e al
coraggio.
Uno dei modi ce lo stanno suggerendo i detenuti in lotta nelle carceri
italiane che questo stato d’emergenza vorrebbe sepolti vivi. E che la
normalità sia interrotta si, ma dalla rivolta.

Biblioteca anarchica Disordine

Via delle Anime, 2/b Lecce disordine@riseup.net

In questi giorni tutta l'Italia è diventata, più che mai, un carcere a cielo aperto di sperimentazione sociale.

Negli occhi dei politici, dei giornalisti, degli scienziati e degli economisti non si può che notare la paura. Occhi terrorizzati da un luogo del mondo che potrebbe essere l'epicentro di un sogno di tutte le persone sensibili: il crollo della civiltà.

Carceri in fiamme dove chi è recluso tenta la cosa più bella che ci sia: evadere dalla gabbia. Pestilenze e possibili untori che vagano nelle città della rovina endemica. Gabbie di vetro che dividono sofferenti e santificatori, in un continuo susseguirsi giornaliero di impennate di numeri degli infetti, come le morti provocate da una brutale guerra. Le minacce di selezione sulla vita e la morte fanno il resto. Grida avulse e stanche degli oppressori e dei loro tirapiedi dello spettacolo passano dallo state a casa al dobbiamo cambiare il nostro stile di vita. E le domande che sorgono sono le seguenti: e chi una casa non ce l'ha? E per i fortunati, se quella casa è sempre stata una gabbia? Di quale stile di vita stiamo parlando? Da che pulpito viene la predica, da chi tuttora non si fa scrupoli a sfruttare, devastare e uccidere questo mondo.

Il dominio è la realtà. Essa sta fagocitando tutto. Se la cultura si plasma sulla continua informazione data in tempo reale, giocando sulla presunta evidenza e non sulla sensibilità, l'effetto è quello di azzerare la riflessione. Il falso si innesta nei sensi per occupare terreno nel nostro sempre più ristretto spazio immaginario. Una realtà dove l'informazione ha occultato la conoscenza, non permettendo più di cogliere i fatti, faticando a metterli in relazione con le idee. Quando niente si inventa, ci si accontenta di essere replicanti dell'approssimazione.

Disimparare a sentire è lo spirito del tempo. Ma, oggi più che mai, fuori dagli schermi è buio pesto. E non è detto che dalle macerie di questa putrida civiltà infettata dal virus del potere, e della suadente servitù che la regge, non possano sbocciare germogli di vita appassionata. E qui torna alla mente una congiunzione storica. Uno dei primi attacchi della Comune di Parigi al fuggi fuggi dei padroni parigini nel 1871 fu l'incendio dell'anagrafe della città: un buon modo di bruciare ogni riconoscimento. L'altro ieri, nel carcere di Foggia, prima dell'evasione di una settantina di prigionieri, i ribelli hanno distrutto tutti gli incartamenti e documenti che riguardavano le loro identità. Come dire, quando la vita brucia cercare di rendersi non identificabili è una questione di saggia sicurezza individuale.

Ecco l'ennesimo atto di come sia chiaro che la sedizione attizzi la creatività di chi insorge contro le proprie condizioni di oppressione. Per spezzare il proprio contagio della servitù e scatenare l'ammutinamento di chi ancora riesce a sentire.

Come approcciarsi a questo insieme di eventi straordinari che sta colpendo l’Italia oggi ed il mondo domani? Della Cina poco si può sapere anche a causa del pesante filtro di notizie che sappiamo esserci su quel paese.

Oggi 9 marzo, 27 carceri bruciavano in rivolta

Oggi 9 marzo sono stati bruciati 51 miliardi di euro a Piazza Affari.

Oggi 9 marzo è andata in fumo la trattativa sul prezzo del petrolio e ne è crollato il prezzo.

Oggi 9 marzo tutta Italia si ritrova in un’esistenza equiparabile all’obbligo di dimora.

Come alimentare e diffondere il germe dell’insubordinazione? Come rendere la situazione irrecuperabile per lo Stato? Come dare corpo ad un’idea di mondo e di vita radicalmente differente?

Alcuni spunti potrebbero provenire dal modo in cui pensiamo la lotta contro il carcere. Il carcere non è un problema in quanto disorganizzato. Non critichiamo il carcere perché è un modo di controllare e pacificare gli individui. Non si può discutere se il carcere sia più o meno adeguato come punizione o modo di intenderla. O meglio, questi temi sono solo una parzialità del problema, parzialità che non ricrea la totalità per semplice addizione delle sue parti.

Allo stesso modo non si può porre la questione intorno alla gestione organizzata o meno da parte dello Stato dell’emergenza sanitaria, l’adeguatezza delle cure e del sistema diagnostico. Come non si può ridurre la questione n-COVID 19 ad una paranoia collettiva, fobia di massa, manipolazione mediatica. Altrettanto non si può scendere nel tecnicismo di definire la malattia, paragonarla all’influenza, guardare all’eziologia o all’incidenza statistica. Superficialità che porta poco lontano.

Il campo anarchico è quello di un mondo altro e conseguentemente di un modo altro di intendere la vita.

Critichiamo il carcere perché è parte di questa società, elemento risolutivo di problematiche generate da questo mondo. Come applicare lo stesso principio alla questione della salute?

Forse dovremmo guardare davvero a quelle che sono le cause, l’eziologia, ma per criticarla, per distruggere la mitologia del determinismo biologico e per evidenziare la molteplicità della causalità possibile.

Per questo abbiamo voluto rendere pubblico questo testo sulla filosofia della scienza, redatto molti anni fa e mai uscito per evidente specificità dell’oggetto del discorso.

Specificità che forse avremmo dovuto affrontare prima, per non farci trovare ora cognitivamente impreparati all’impensabile che ci troviamo a dover affrontare.

Se non troviamo un modo altro di guardare alla questione, allora meglio accettare la gestione dello Stato di questa epidemia. Meglio stare in casa. Se invece critichiamo queste misure è perché pensiamo che ad essere malata sia la società, e far morire la società possa dare la possibilità di far sopravvivere un’umanità diversa.

Le questioni sono molte, ed occorre trovare i modi per affrontarle. In primo luogo un senso dell’esistenza qualitativo e non quantitativo. Una visione globale del rapporto tra specie umana ed ambiente circostante, compreso il ruolo ecologico della malattia. L’accettazione della morte come scotto della libertà e l’ineluttabilità del ritorno inesorabile del mondo naturale all’interno del mondo antropizzato.

Occorre ragionare sul ruolo sociale all’interno dell’insorgenza e diffusione di questo virus, approfondendo ad esempio le relazioni tra sovraffollamento urbano, assuefazione agli antibiotici, flussi globalizzati di persone e merci, inquinamento atmosferico ed omologazione di abitudini e caratteristiche corporee.

Il senso della questione, come per la lotta contro il carcere è quello di rifiutare questo mondo perché genera gabbie e vogliamo assistere quindi al suo crollo, così dovrebbe essere quello di riuscire a comunicare che anche in questo caso è sempre questa organizzazione sociale a generare i disastri ed a volerne gestire le soluzioni. Distruggere questa organizzazione del mondo abbiamo sempre saputo sarebbe stato doloroso e terribile, frutto come siamo di questo esistente e come siamo profondamente legati ad esso ed al suo funzionamento.

Sappiamo tuttavia anche che il disastro avviene già ogni giorno.

Ogni giorno che non succede nulla.

Per raccogliere riflessioni, esperienze e contributi è possibile contattare la mail editricecirtide@autistici.org

Qui di seguito il link per scaricare il libro: Riflessioni epistemologiche sulla scienza ed i concetti di verità e causa

P.S. Il testo non viene proposto in una forma rielaborata ed impaginata per l’urgenza di proporre materiale di riflessione ed approfondimento, accettando il rischio della parzialità e delle lacune. Si consigliano, in particolare, i riferimenti al testo del genetista R. Lewontin.

Uno sguardo sulla rivolta nel carcere di ieri a Modena da parte di alcuni solidali. Ricordiamo che anche in altre carceri sono scoppiate le rivolte, come in quello di Cremona dove un'intera sezione è stata distrutta dagli insorti e in altre due sono andati a fuoco materassi e suppellettili. E se scattasse il contagio della rivolta?

Sulla rivolta e il massacro nel carcere di Modena

Nel primo pomeriggio di oggi, 8 Marzo 2020, è scoppiata una rivolta nel carcere di S.Anna di Modena. Il fatto è stato chiaramente percepito dall' esterno in quanto si elevavano dai bracci della struttura tre colonne di fumo, nonchè per il via-vai importante di guardie, oltre che per la presenza di un elicottero della Polizia che sorvegliava l' area. Si sono così radunati vari parenti dei reclusi, solidali e altri spettatori nelle zone adiacenti, vedendo sfilare i GOM in antisommossa e sentendo distintamente alcuni spari. Dopo qualche tentativo di allontanamento da parte dei Vigili, le persone si sono comunque radunate davanti al carcere; dove si sono viste sfilare camionette, ambulanze a pulmini della Penitenziaria. A una certa, dopo varie richieste di notizie da parte dei parenti, sono usciti il Maggiore della Penitenziaria e un' emissaria della direttrice del carcere dicendo loro che, durante le contrattazioni coi rivoltosi chiusi nel braccio, sono stati loro riconsegnati i cellulari per chiamare i loro cari. Domandavano quindi ai familiari di rispondere al telefono invitandoli a uscire. Verso sera, davanti un nutrito gruppo di antisommossa, sono usciti gli sbirri scortando alcuni dei detenuti e delle detenute dando loro colpi da ammanettati, qualcuno è uscito in barella. Già in quelle ore qualcuno ha scorto un sacco contenente un corpo morto. Si è riuscito a parlare con alcuni reclusi nel braccio adiacente il campo durante i fatti, che davano notizie di trasferimenti e di essere gli ultimi ancora da trasferire dalla sezione, edicendo che li stavano massacrando. Sono state trasferite 80 persone, pare a Bologna, Reggio Emilia, Parma, Piacenza e Ascoli, per mezzo di almeno quattro pulman di penitenziaria e altre camionette. I media di regime, ricostruiscono la vicenda come partita dalla sezione lavoranti, ed estesasi poi a tutto il carcere; dove i detenuti avrebbero bruciato materassi e si sarebbero asserragliati in almeno una delle strutture, pare da qualche video impossessandosi dell' armeria. Durante la rivolta sarebbero morte tre persone, la cui identità non è stata precisata, così come la causa esatta del decesso.Due sarebbero invece in rianimazione. Si parla di gravi danni alla struttura e di distruzione di documenti. Salienti tra le cause dello scoppiare della rivolta sarebbero la negazione dei colloqui e la mancanza di mediatori causa IL virus, oltre che la sicurezza sanitaria interna alla struttura. A sera inoltrata parevano esserci ancora rivoltosX asserragliatX; LA SITUAZIONE è IN CONTINUO EVOLVERSI.

Dalla rivolta di San Vittore a Milano

A Milano, nel carcere di San Vittore i detenuti sono sul tetto e stanno dando fuoco alla sezione. Alcuni compagni e compagne sono in presidio sotto il carcere e per stasera è chiamato un appuntamento alle 19.00 alla fermata di Sant’Agostino.

Nel frattempo la leader dell’Associazione nazionale dei dirigenti e funzionari di polizia penitenziaria Daniela Caputo propone: “l’esercito intorno a tutti i muri di cinta, punizione severa di coloro che stanno fomentando le rivolte, interdizione da subito di ogni accesso a esponenti o associazioni che in ragione delle loro campagne storiche di tutela e promozione dei diritti dei detenuti possano vedere la loro voce strumentalizzata da facinorosi e violenti” (fonte: media di regime).

Qui sotto alcuni aggiornamenti sulla situazione:

Da questa mattina sono 27 le carceri dove si stanno svolgendo proteste da parte dei detenuti, alcuni dei quali chiedono l’amnistia a causa dell’emergenza Coronavirus. E’ di otto detenuti morti il nuovo bilancio ufficiale diffuso dopo le rivolte di questi giorni: sei di questi sono detenuti deceduti nel carcere di Modena durante la rivolta dei detenuti di ieri pomeriggio. Per tre di questi ieri le fonti istituzionali sostengono che uno dei tre è morto per abuso di sostanze oppioidi, l’altro di benzodiazepine, mentre il terzo è stato rinvenuto cianotico, ma non si conosce il motivo di questo stato. Per gli altri 3 non ci sono notizie mentre in tutto sono 18 i detenuti ricoverati, in gran parte per intossicazione. Altri due morti per un’overdose da psicofarmaci si registrano negli Istituti penitenziari di Verona e Alessandria nella notte. I due erano stati protagonisti delle proteste e avrebbero, secondo le motivazioni ufficiali diffuse dai penitenziari, sottratto psicofarmaci dall’infermeria.

Una rivolta intanto è in corso nel carcere di Foggia dove alcuni detenuti sarebbero riusciti ad evadere, ma sono stati bloccati poco dopo all’esterno dell’istituto penitenziario dalle forze di polizia . A quanto si apprende i detenuti hanno divelto un cancello della ‘block house’, la zona che li separa dalla strada. Alcuni detenuti sono saliti sul tetto, altri hanno rotto le finestre, e all’ingresso della casa circondariale è stato appiccato un incendio. Negli scontri con la polizia un detenuto è rimasto ferito alla testa ed è stato portato via in barella. A San Vittore a Milano proteste sul tetto e incendi dentro il carcere, mentre a Palermo un tentativo di evasione dal carcere Ucciardone è stato bloccato dalla polizia penitenziaria. Le strade attorno a vecchio carcere borbonico sono chiuse. Ieri sera la protesta era scattata anche al Pagliarelli, il secondo carcere di Palermo. A Rebibbia a Roma, oltre a bruciare diversi materassi – alcuni reclusi avrebbero assaltato le infermerie.

A Pavia ieri sera i detenuti hanno bloccato per alcune ore due agenti di polizia penitenziaria, hanno rubato le chiavi delle celle agli agenti e hanno inscenato una forte protesta devastando diversi locali del penitenziario. […]

fonte: radiondadurto.org