Vai al contenuto

A proposito di Kavarna

...la passione per la libertà è più forte d'ogni autorità...

— Guarda, c'è un individuo fermo in mezzo alla strada ed ha un’arma fumante in mano! Chi sarà mai? — Un temibile terrorista, non ci sono dubbi. — No, aspetta, indossa un’uniforme: è un bravo tutore dell’ordine… Sono davvero poche le parole in grado di provocare uno sdegno pressoché unanime. Violenza è una di queste poiché richiama il sangue, il dolore e la morte: il nostro stomaco protesta, sommerso da un senso di nausea. Il che non impedisce a nessuno di noi di vivere in mezzo alla violenza, di giustificarla, di applaudirla, di impiegarla. Sia detto una volta per tutte, ogni sua condanna assoluta è un’autentica ipocrisia. Il mondo non sarà mai un convento dove impera la pace dei sensi e degli stomaci. È allora interessante notare come coloro che più si scagliano a parole contro la violenza siano gli stessi che ne fanno largo uso, dopo averla sottratta istituzionalmente al singolo individuo. Chi detiene il monopolio della violenza ricavandone enormi benefici, lo Stato, non ama concorrenti e si premunisce contro di loro. Da un lato cosparge la violenza di zolfo, in modo da farla apparire intoccabile a chi avesse l’ardire di avvicinarvisi. Dall’altro, nel caso in cui fallisca questo sotterfugio, ricorre alla calunnia contro chi rifiuta di privarsi di tale possibilità. Figuriamoci poi quando quest’arma viene puntata contro lo stesso Stato! Ieri i nazisti invitavano la popolazione a fare attenzione ai partigiani perché erano tutti “banditi”, oggi i democratici fanno altrettanto con i ribelli considerati tutti “terroristi”. In ogni epoca e latitudine, il potere ha bisogno di demonizzare i propri nemici. Così, dopo la confisca della violenza, ecco la confisca delle parole che la indicano. Dopo l’ipocrita condanna della violenza, ecco l’ipocrita condanna del terrorismo. Uno Stato nemico del terrorismo? Impossibile, è una contraddizione in termini. Un simile Stato dovrebbe come minimo sciogliere l’esercito e la polizia, preludio alla sua scomparsa. Il terrorismo infatti si caratterizza per essere una violenza indiscriminata al servizio del potere. Terroristi sono i soldati che bombardano interi territori causando migliaia di vittime fra i civili. Terroristi sono gli uomini in divisa che caricano le manifestazioni rompendo teste e spezzando ossa a chiunque si pari loro davanti. Terroristi sono i magistrati che li sostengono con le leggi, i politici che impartiscono loro ordini, gli industriali che li riforniscono di armi. Terrorista è lo Stato, qualsiasi Stato, che impone i propri voleri con la minaccia della galera o della miseria. È vero, esiste anche un’altra forma di terrorismo. Quando le anime in pena che vagano per l’inferno terreno della merce rinunciano ad ogni speranza, ad ogni tensione vitale, ad ogni gioia di vivere, qui ed ora, ecco che la loro violenza tende a svuotarsi d’ogni coscienza e a diventare cupa. Chi crede in Dio può abbandonare questa insopportabile condizione umana per raggiungere quella divina, incamminandosi sulla strada del martirio. Chi è privo d’ogni fede può solo sfogare la propria bile per questo eterno desolante presente. Religiosi o laici che siano, non è più l’odio per chi impone la tristezza quotidiana a guidare le loro azioni, ma solo il rancore verso chiunque la accetti. Tuttavia questa fine del mondo può venir vista non solo come un tramonto, ma anche come un’alba la cui luce scalda il cuore e affina la vista degli individui che sono intenzionati a colpire i propri nemici. La loro violenza non è mai cieca perché sa distinguere fra chi esercita l’autorità (o la insegue) e chi la subisce, fra chi se la ride dall’alto del suo scranno e chi si lamenta dal basso della sua disperazione. Una violenza, questa, che non vuole conservare alcun vecchio privilegio, né rivendicare alcun nuovo diritto, bensì negarli tutti. E che nasce dalla consapevolezza che i cancelli della società carceraria in cui siamo tutti rinchiusi non hanno chiave e quindi vanno forzati.

Il problema — disse Alice — è di sapere se è possibile dare ad un’unica parola un mucchio di significati diversi. Il problema — disse Humpty-Dumpty — è di sapere chi dev’essere il padrone. Punto e basta.

Tratto da "Quale guerra", numero unico, inverno 2003/2004

Alcuni giorni fa è girata, tramite passaparola e articoli di giornale,
la notizia dell’omicidio di una ragazza di 34 anni di Bergamo, Viviana.
L’ennesimo atto di violenza patriarcale: picchiata brutalmente a calci e
pugni dal suo convivente per motivi di gelosia, Viviana è morta dopo sei
giorni di coma in seguito ai traumi riportati. In questo periodo in cui
lo Stato ci impone di stare rinchiusx in casa, pretendendo perfino di
decidere quali dovrebbero essere i nostri affetti principali (al cui
vertice stanno ovviamente la famiglia di sangue e la coppia stabile), i
casi di violenza di genere sono ancora più numerosi del solito. Coppia e
famiglia sono i pilastri dell’ordine sociale eteronormativo funzionale
allo Stato. Nella retorica degli ordini imposti da papà-Stato, del
#restiamo a casa e delle bandiere tricolori vengono rilanciati valori
familistici e patriottici dal marcio odore fascista. Molte donne e
persone LGBT si trovano in questo momento in situazioni di difficoltà in
quanto costrette a una convivenza forzata in relazioni oppressive o con
una famiglia che non le accetta, impossibilitate ad andarsene e private
della possibilità di raggiungere le proprie reti di supporto, composte
soprattutto dai legami di amicizia.
Alcunx di noi hanno conosciuto Viviana in uno squat o in un concerto
punk, o l’hanno magari incrociata a una manifestazione. Da diversi anni
ci si era persx di vista, ma chi l’ha conosciuta la ricorda come una
ragazza dolce, solare, amabile, che non meritava certo una fine così
orribile.
Non dimenticheremo niente e non perdoneremo niente. Perché non si dica
mai più che il patriarcato non esiste o è acqua passata. Perché le
nostre relazioni siano finalmente liberi scambi tra individui e non
gabbie di possessività. Perché questa civilizzazione assassina crolli
con tutte le sue fondamenta, comprese quelle cementate dentro di noi.
Ciao Vivi

Scritto da alcunx compagnx, amiche e amici

“Perché il desiderio di estraneità non diventi mutilazione rassegnata, ma si armi contro ogni forma di autorità e di sfruttamento. Perché dal Potere del dialogo (con cui si pensa di risolvere tutto) e dal dialogo del Potere (che invita tutti ad una ragionevole contrattazione) si passi ad un sentimento di radicale inimicizia verso l'esistente, di distruzione di ogni struttura che aliena, sfrutta, programma e irreggimenta la vita degli individui. Il nero del cane (questo animale cui generalmente si associa l'idea di sottomissione, di servile mansuetudine) è proprio la volontà di uscire dal gregge della servitù volontaria e di aprirsi alla gioia della ribellione. Non il nero in cui tutte le vacche sono uguali (sia pure nel loro essere contro o fuori), bensì quello in cui scompare il confine tra la demolizione e la creazione, tra la difesa oltranzistica di se stessi e la costruzione di rapporti di reciprocità con gli altri.”

Oggi, in questo periodo di emergenza sanitaria, diventa di particolare importanza condividere e approfondire riflessioni sui temi della malattia e della sicurezza della vita. Per questo riproponiamo dei testi di Canenero, scritti tra gli anni '94 - '95, che possono aiutarci ad avere uno sguardo più lucido sulla situazione, poiché inseriti al di fuori del flusso mediatico delle notizie in cui invece noi siamo immersi.

Questa pandemia ha trovato impreparati tutti: dall’individuo che non si era mai posto tante domande su questa società a chi ha sempre trovato assurdo accettare di passare l’intera vita a respirare polveri sottili per poi ritrovarsi con un tumore. Ma anche negli ambienti cosiddetti radicali la critica sulla sicurezza della salute è venuta meno. Quello che sentiamo e leggiamo quotidianamente dai media e dai giornali è il costante bombardamento di notizie sui morti e i malati che il Coronavirus ha fatto. Dunque, come viene intesa la malattia e perché questo terrore di essa e della morte? In questa società la medicina è riuscita a creare l'opinione comune - o luogo comune - secondo il quale la salute deve essere necessariamente medicalizzata, ogni malattia o sintomo devono essere nell’immediato curati, spesso senza chiedersi nemmeno troppo l'insieme delle cause che li hanno generati. La maggior parte delle persone, di fronte al rischio di ammalarsi, si affida ciecamente nelle mani dei medici e degli esperti, rassegnandosi all’espropriazione della propria vita in cambio di una esistenza menomata ma garantita.

Infatti, sotto questa coltre di paura collettiva che lo stato e i media hanno creato, in particolar modo riguardo alla diffusione del virus, le persone si fidano del parere degli esperti senza porsi più di tanto la domanda se la distanza di sicurezza, la mascherina e i domiciliari forzati possano davvero essere la soluzione a questa pandemia.

L’idea della sopravvivenza a tutti i costi, l’idea di una vita (sopra)vissuta il più a lungo possibile anche senza goderne intensamente, per quanto qualcuno di noi possa non trovarsi idealmente d’accordo, ci porta comunque ad affidare i nostri corpi nelle mani di chi quei corpi li vede solamente come macchine funzionali alla volontà dello stato di continuare a perpetrare il suo potere.

Nei diversi testi emerge, ad esempio, la critica alla tecnica e alla paura del nulla e dell’ignoto in quanto attraverso la lotta contro il terrore del nulla può essere letta l’intera storia della civiltà della tecnica. Perché, mentre per la società la sopravvivenza è un dovere, c’è chi pensa che la propria vita appartenga esclusivamente a se stessi. Qualcuno, di fronte alla consapevolezza di non voler più continuare ad esistere, decide, senza chiedere permesso a nessuno, di togliersi la vita, qualcun altro, di fronte all'incrollabile speranza di guarire dal tumore, decide di sottrarsi alla medicina e di fuggire dalla paura della morte andandole incontro. E altri spunti, per tentare, ancora un'altra volta, di dare alla ribellione la gioia randagia e l'impulso di una distruzione tanto auspicata da chi si sente straniero in territorio nemico. E questo territorio dicasi mondo intero.

Qui trovate il PDF per leggere e scaricare i contributi di Canenero:

Verso il tardo pomeriggio di ieri ritrovo un vecchio amico che non vedevo da tanto tempo. Nell'incrociarci in strada con queste maledette mascherine ci riconosciamo. Un incontro inatteso in epoca di quarantena, violata consapevolmente da alcuni in questa triste città che ormai non fa più differenze fra virtuale e reale. Mi dice subito: «Leggo sempre i manifesti in giro e le parole che scrivono gli anarchici. È incredibile come voi siate rimasti l'unica voce fuori dal coro a Cremona. Apprezzo anche se non condivido tutto quello che scrivete e difendete. Peccato che tutto questo, nel mondo di oggi, vi porterà ad avere solo grane personali e non la libertà di tutti che tanto sperate». Dopo questa battuta, a cui io rimango fra lo sbigottito e un piccolo senso di felicità, ci fermiamo a parlare degli anni passati a scuola insieme e ci lasciamo cordialmente con la promessa di rivederci.

Passando poi per via Manini, dove scorge una lapide che ricorda l'inizio della rivolta contro contro la dittatura fascista (Dall'epigrafe: “Da queste selci scaturì la favilla sanguinosa della riscossa. I cittadini del rione. 24 aprile 1945”. Nel quartiere di Sant'Imerio il giorno 24 aprile 1945, ebbe inizio l’insurrezione armata. Il primo atto fu uno scontro a fuoco in cui rimase ucciso un fascista genovese componente della Milizia, già noto ai partigiani come torturatore, che si stava attrezzando per fuggire dalla città), il cervello rincomincia a frullare riflessioni. Cosa c'è in quel senso di incertezza nel pensare e ripensare a quelle poche parole dette da una vecchia conoscenza con cui si è condiviso un pezzo di adolescenza? Il senso è difficile da trovare ma fin da subito sento un vuoto di estraneità dentro. La domanda che mi pongo è la seguente: «Davvero le anarchiche e gli anarchici sono rimasti l'unica voce fuori dal coro in questa desolante città?» Forse di primo acchito potrebbe sembrare, ma mi rifiuto di pensare che tutti gli oppressi di questa città si siano accomodati agli obblighi del potere. Non è possibile, non possono diventare tutti ciechi. E poi un senso di rifiuto mi pervade, per rigettare l'identità ribellistica che si forgia nella sicura alterità. Ci saranno ancora individui abbastanza determinati per mettersi di traverso al sistema di idiozia da cui questa epoca del contagio trae la sua forza consensuale? Quale liberazione in un mondo del tutto imbruttito?

Intanto arrivo a casa e un messaggio mi avverte che un mio compagno in questo pomeriggio ha fatto un incontro del tutto aspettato. I soliti sbirri gli hanno rotto le gonadi ed è stato denunciato per minacce, oltraggio a pubblico ufficiale e violazione delle norme sul coronavirus. A lui tutta la mia solidarietà e vicinanza. Ai fascisti di ieri (e di oggi) come agli sbirri di oggi (e di ieri) con le loro mani sporche di sangue va tutto il mio disprezzo. E non solo il 25 aprile, ma tutti i giorni. Sono sicuro che questo sentito stia nelle viscere anche delle mie compagne, dei miei compagni e anche di qualche altra persona ostile all'ordine sparsa in città.