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Ubu a Washington

«Ma se loro hanno tanto osato, voi avete tutto permesso.
Più l'oppressore è vile, più lo schiavo è infame»
Chauteaubriand
Ebbene sì, lo ammettiamo. La notizia della vittoria di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca ha scatenato in noi, che viviamo da anni al culmine della disperazione, un'irrefrenabile eccesso di ilarità. Il cerchio si sta chiudendo. Distrutto il significato, devastata l'immaginazione, cancellata la memoria, calunniata la dignità, snobbata l'intelligenza, derisa la sensibilità, ecco l'idiocrazia trionfare, dilagare ed imperare fra l'attonito sbigottimento delle anime belle democratiche (parlamentari o extra-parlamentari che siano). Ubu — ovvero l'autorità più rozza, falsa, ignorante, pagliaccesca, volgare, piena di iperboliche declamazioni, vogliosa solo di omuncoli felici di ripetere in coro di essere «liberi, liberi, liberi di obbedire» — è oggi ovunque. Dirige le istituzioni, amministra l'economia, comanda la politica, anima la cultura, guida la protesta. Dal campo reazionario a quello sovversivo, passando per quello riformista, sono i figuri più infami ad emergere fra il consenso del loro pubblico di cortigiani.
Oggi che Ubu è entrato nella stanza dei bottoni della più grande superpotenza mondiale, smentendo i sondaggi che volevano gli Stati Uniti un paese composto per lo più da artisti fricchettoni californiani e da intellettuali radical-chic newyorkesi, tutti sono costretti a prendere atto di un'evidenza che sfonda gli occhi. Siamo nella merdre fin sopra al collo. Chissà, forse ci sarà anche qualche imbecille che, non potendo festeggiare la prima donna-in-quanto-donna a salire al vertice dei massacratori a stelle e strisce, si rallegrerà davanti tutto questo concime storicamente ineluttabile e dialetticamente funzionale alla distesa di fiorellini che viene. Noi no. Noi siamo sempre più vergognosi per l'infamia della nostra schiavitù e per l'impotenza della nostra rabbia. Al punto che avremmo quasi voglia di brindare al successo del miliardario yankee, il quale ci sembra abbia tutte le carte in regola per precipitare definitivamente questa umanità miserabile nell'abisso che merita, portandola all'estinzione assieme alle sue leggi che si devono rispettare e alle sue fiction che non si possono perdere, alle sue divinità celesti che si devono pregare e ai suoi idoli terreni che non si possono ignorare, ai suoi diritti che si devono rivendicare e alle sue serate a cui non si può mancare, alle sue merci che si devono consumare e ai suoi campionati di calcio che si devono vedere, ai suoi compromessi che non si devono criticare e ai suoi buffoni di corte che si devono applaudire.
Nessun'altra fine del mondo è possibile, nessuna, finché in testa e nel cuore e nelle mani non si radicherà (e non occasionalmente) l'esigenza e l'urgenza di un'inversione di tendenza, di uno scarto assoluto da tutto ciò che è Stato e autorità.