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Riceviamo e diffondiamo:

dalla parte di chi ruba nei supermercati”
Brevi considerazioni su esproprio, etica del farlo e terrorismo mediatico.

Questo nostro bieco mondo occidentale ha certamente un dogma imperante su tutti gli altri: se non hai denaro sei escluso.
Escluso dagli agi e dai confort consumistici (che nulla hanno a che vedere con la gioia) ma anche dai servizi essenziali per la sopravvivenza nel mondo urbano (ospedale, mobilità, luce-acqua-gas in casa etc).
Senza denaro sei inutile, sei dannoso e sei eliminabile, anzi, è auspicabile che tu venga eliminato il prima possibile.
Senza denaro non mangi. In un mondo in cui la filiera produttiva e distributiva degli alimenti passa  (quasi) esclusivamente dalle catene di grande produzione-distribuzione, se non puoi pagare il “prodotto” non avrai di che riempirti lo stomaco.
Il nostro mondo occidentale è un corollario di vetrine, negozi, magazzini straripanti di merce, tra cui il cibo.
I supermercati, gli ipermercati, i grandi magazzini, i “mall” alla yankee sono le grandi cattedrali del consumo: lì trovi di tutto, dai vestiti alla pizza surgelata, passando per i prodotti di cosmesi per animali domestici. Va da se che anche in queste cattedrali del consumismo senza denaro sei un ospite indesiderato.
Sono numerosi oramai (molti più di quanti non passino nei giornali) gli esempi in cui alcuni avventori entrano in un supermercato, prendono ciò che vogliono ed escono senza pagarlo.
Furto. Esproprio. Taccheggio.
Il concetto è tanto elementare quanto criminoso cercano di farlo apparire i tutori della legge: ho voglia/bisogno di qualcosa, non ho il denaro che mi dite che mi necessita per averlo, lo prendo lo stesso. Lineare come un filo a piombo.
C'è stato un tempo in Italia in cui gli espropri dei supermercati e dei negozi di lusso era una pratica collettiva rivendicata: quei benedetti anni '70 in cui l'orda d'oro dava il suo assalto al cielo. Ma senza scomodare i nonni, basta andare nella grecia del 2010 (e anche di oggi a dire il vero) e queste azioni, rivendicate come atti politici contro il denaro, sono cosa comune.
Prendere la merce, in tanti, non pagarla, distribuirla fuori nelle strade, goderne in collettività.

Oggi i fatti di cui parlano i giornali (“beccata mentre rubava la bistecca alla Conad”) sono essenzialmente espressione individuale di un bisogno: cibo o vestiti che il singolo o al massimo una coppia attuano di nascosto.
Di nascosto, sempre, per non finire al gabbio per aver fregato una bottiglia di vino da un maledetto scaffale che ne vomita centinaia ogni mese; di nascosto dalle videocamere di sorveglianza, dai guardioni, dagli infami “finti clienti” pronti a fare la spia e di nascosto dai clienti veri, più sbirri degli sbirri, che ti denunciano alle cassiere in nome del rispetto della legalità. I servi più odiosi sono quelli che si sostituiscono al padrone nell'imporre il suo ordine.
Quando poi succede che becchino qualcuno c'è sempre l'attenuante o l'aggravante riguardo al tipo di bene che è stato rubato e all'identità del reo : se di prima necessità, ovvero cibo, allora la legge è più incline alla magnanimità, come a sottolineare il fatto che se sei un morto di fame un po' di compassione la posso avere.
Se sei la vecchietta italiana con la pensione minima c'è che è perfino disposto a pagarti la spesa ma se sei la rumena clandestina sei fortunata se non ti linciano sul posto.
La legge prende in considerazioni che ci sono sempre più “morti di fame” e quindi la soglia di tolleranza per non esacerbare le condizioni di crisi socio-economica può tendere al rialzo.
Ma i casi in cui vengono sorpresi ladri “di lusso”, che magari taccheggiano una bottiglia di spumante o un profumo costoso allora apriti cielo. Il furto questa volta è inaccettabile perchè non più espressione di una necessità impellente, ma di un piacere e soprattutto non è recuperabile. Chi ruba la bistecca per disperazione, nel momento in cui la caritas o un ennesimo servizio assistenziale para-statale si proporrà di aiutarlo, molto probabilmente accetterà, ma chi ruba col gusto di farlo, per il piacere di sottrarre al proprio censore un bene di cui godere, difficilmente si farà convincere a smettere con la promessa del minimo garantito.
Sì ho rubato per il gusto di un prodotto non necessario alla mia sopravvivenza, ma per godere di qualcosa di piacevole che la società fondata sulla ricchezza mi proibisce di avere!
Il furto con gioia è un attentato troppo potente alla civiltà della merce, alla santità della proprietà privata, all'idolatria del denaro: questo tipo di furto non deve passare liscio mai.
Non crediamo sia un caso che abbiano da poco cambiato le leggi su furto e rapina, aumentando le pene per entrambi i reati.

Da anarchici ci sembra fondamentale ribadire che l'esproprio è sempre giustificato, giustificabile (e soprattutto godereccio!) quando mosso da un principio di classe: rubare ai ricchi.
La catena di “furti in appartamento” o “truffe agli anziani” di cui si legge sui giornali locali da anni a questa parte è l'ennesimo tassello di quella guerra tra poveri che distrugge il senso di solidarietà tra sfruttati.
L'esproprio ai danni di un nemico, se mosso da consapevolezza, è qualcosa di più del riprendersi ciò che la società di classe mi toglie per semplice condizione di povertà, è un gesto di insubordinazione contro la logica del privilegio.
Io povero, io sfruttato, io escluso (o io che per scelta decido di non farne parte) dal ciclo di benessere del capitalismo mi riprendo da te che sei parte attiva della mia sottomissione, un po' di quello che desidero.
Ma il furto acritico, mosso dai poveri contro altri poveri (vedi i furti d'oro o della pensione sotto il materasso al vecchietto di turno) non ha nulla di tutto questo.
La necessità porta a non farsi troppi scrupoli, questa è una realtà vecchia come il mondo, ma è proprio l'assenza di questa sensibilità che concorre al mantenimento di questo mondo sempre più razzista, sempre più insensibile, sempre meno solidale in cui gli sfruttati si scannano tra loro lasciando tranquilli gli sfruttatori.

Senza nessun generico richiamo a una mitica appartenenza dei “poveri” tutti in una grande famiglia, basterebbe la semplice consapevolezza che ci sono dei responsabili della nostra condizione di disagio, di oppressione, di repressione tanto economica quanto sociale: questi responsabili sono coloro che mantengono le redini del dominio e della proprietà.
Attaccare la loro proprietà, invece che rifarsi più facilmente delle briciole di un altro dominato, ci pare un minimo gesto di consapevolezza e il potenziale inizio di una critica più profonda alla proprietà privata nel suo insieme.

Dopo Claudio, Mattia e Niccolò anche Chiara è finalmente libera. La sua liberazione è stata un po’ più complicata di quella dei suoi tre compagni: la revoca degli arresti domiciliari ad opera dei giudici del Tribunale di Torino è stata infatti preceduta di qualche giorno da quella dei giudici della Corte d’Appello dell’Aquila che le hanno tolto la Sorveglianza speciale appioppatale lo scorso settembre. I giudici abruzzesi hanno ravvisato un’incompetenza territoriale del questore di Teramo a richiedere la misura di prevenzione, dato che la maggior parte dei “comportamenti disdicevoli” alla base della Sorveglianza speciale di Chiara erano stati messi in atto a Torino.

E già che siamo in tema di comunicazioni tribunalizie ci sono state novità anche rispetto alle beghe giudiziarie per la resistenza alla retata del febbraio 2015. In primis c’è stata la sentenza per Erika, Paolo, Luigi, Marco e Toshi: Erika è stata assolta mentre i quattro compagni sono stati condannati a sette mesi, pena che hanno già interamente scontato in custodia cautelare.

Agli altri quattro compagni che per la medesima resistenza erano stati allontanati da Torino sono stati invece revocati i divieti di dimora e potranno quindi tornare in città, in attesa del processo che per loro inizierà il 14 giugno.

macerie @ Marzo 20, 2016

tratto da : www.finimondo.org
La giungla non c'è più. Hanno raso al suolo quella umana di Calais, così come stanno abbattendo quella in Amazzonia. I luoghi selvaggi sono un abominio intollerabile per un mondo asettico e sterilizzato dove il solo rischio ammesso è quello di timbrare con qualche minuto di ritardo il cartellino della sopravvivenza quotidiana. Tutto deve stare in ordine, tutto deve essere sotto controllo. Che i dannati della terra si suicidino se vogliono sbarazzarsi della loro disperazione, ma che non vengano ad insozzare il tappeto davanti alla porta o quello davanti allo schermo, che non protestino, che non si ribellino. Così nelle strade rimarranno solo cittadini, più o meno soddisfatti ma pur sempre in fila.
È proprio vero: «Le foreste precedono gli uomini, i deserti li seguono». Quello che pubblichiamo è un articolo apparso in Francia poche settimane prima della devastazione della «giungla» di Calais — che rende chiaro sia cosa c'era in gioco sia come mettere i piedi sul tavolo — e pubblicato sul n. 5 di Paris sous tension nel gennaio di quest'anno.
A Calais, il 2016 comincia come è terminato il 2015: col rafforzamento delle misure repressive contro gli indesiderabili (clandestini, senza documenti, fuorilegge, ribelli,…), con dichiarazioni di guerra in atto da parte del governo e della sua polizia contro di loro. Il tutto con l’appoggio esplicito di una parte della popolazione, la più esecrabile, quella che ha scelto la xenofobia come palliativo alla sua esistenza miserabile, e che giubila nel vedere il governo — che non fa mai abbastanza, a suo parere — sciogliere le briglie e decidersi ad utilizzare grandi mezzi. E l’adesione passiva di coloro che di fronte alla gravità della situazione si schiereranno comunque dalla parte dello Stato, pretendendo che esso ristabilisca l’ordine, con la sola preoccupazione di mantenere le loro piccole comodità, il loro piccolo commercio, la loro piccola auto integra, il loro piccolo tran tran, la loro piccola tranquillità mentale, per consentire loro di vivere la propria vita senza prestare attenzione al mondo che li circonda.
Come in tanti altri angoli del mondo, a Calais oramai da anni sempre più persone affluiscono per passare in Inghilterra, per passare una frontiera che è loro preclusa poiché non dispongono dei documenti idonei, non corrispondenti alle esigenze dei decreti, non avendo diplomi o curricula vitae da esibire per vendersi sul mercato del lavoro, o magari perché mantenere nella paura del domani questa manodopera a buon mercato è un buon mezzo per addomesticarla e per disporne a piacimento. Da anni si stanno perciò organizzando tra di loro per sopravvivere, nell’attesa di poter tentare la propria fortuna e varcare illegalmente la frontiera, riuscendo a superare i numerosi ostacoli che separano un punto del territorio da un altro per chi è indesiderabile per lo Stato e per il mercato. E siccome in una situazione ostile molto spesso l’unione fa la forza, sono arrivati in migliaia (tra i 4500 e i 6000) ad abitare, in un accampamento di fortuna, una zona ormai conosciuta col nome di «Giungla». Gli sbirri, che erano soliti distruggere tende e capanne all’epoca in cui queste erano isolate le une dalle altre, non osano entrare nella «giungla» per far sloggiare gli abitanti. E quegli abitanti, non facendosi più cacciare un giorno sì e un giorno no, si stanno organizzando in piccoli gruppi e insieme per intrufolarsi nei tir di merci, e accedere al tunnel della Manica o al porto.
Ma ecco che, da diversi mesi, imprese come Eurotunnel e SNCF Réseau Ferré hanno ristretto l’accesso al Tunnel e rinforzato drasticamente il suo controllo, la prima assumendo un centinaio di cani da guardia, la seconda erigendo lungo i binari delle barriere alte alcuni metri e sormontate da filo spinato. Dal canto loro, gli sbirri, più numerosi e ormai equipaggiati con droni, beneficiano di un decreto (un jolly concesso loro con l’instaurazione dello stato d’emergenza) che consente di arrestare qualunque pedone sulla strada che conduce al porto, e di rifilarlo ai loro compari giudici che potranno condannarlo a 6 mesi di carcere. O gaudio, manifestano in coro il presidente della regione (che reclama l’intervento dell’esercito per man-te-ne-re-l’or-di-ne!), il sindaco di Calais e il prefetto, chiedendo la prigione o la deportazione per ogni immigrato colpevole di intrusione nelle zone portuali o nel sito dell’Eurotunnel (passaggi obbligati, in assenza di un portale spazio-temporale, per passare la frontiera), di scontri con la polizia (diventati necessari per tentare di introdursi nei siti in questione, oltre ai sempiterni benefici), di degrado e di «infrazioni di diritto comune» (sane reazioni frutto di frustrazione, delusione, collera, disperazione, rabbia…). Si tratta di oliare il tritacarne giudiziario, di far gravare la mannaia del carcere o dell’espulsione (il che significa nel meno peggiore dei casi ricominciare daccapo) sulla testa dei migranti che non si comportano come i burocrati, i funzionari, i giudici, i politici, si aspettano da loro: da vittime.
I sogni d’ordine e di pacificazione dei governanti di ogni pelo non saranno soddisfatti nei tempi a venire. A riprova di ciò, il 17 dicembre quasi un migliaio di persone si sono spostate lungo l’autostrada in direzione del tunnel. Col Natale che si avvicina si formano lunghe code nei pressi del centro commerciale, e pensano che avranno più possibilità di introdursi in un tir. E, dato che la polizia non è dello stesso parere, si succedono ore di scontri. Il 25 dicembre si ricomincia, in 2500 attraversano il centro di Calais dirigendosi al tunnel della Manica, ma la polizia li respinge. Sulla via del ritorno, a fare le spese della frustrazione e della rabbia sono le automobili: specchietti retrovisori e parabrezza infranti, tergicristalli piegati. Alcuni sbirri in divisa vengono feriti. In questi giorni oscuri in cui l’odio più cieco raggiunge l’egoismo più meschino, in cui la sottomissione più codarda prospera sull’assenza generale di speranza in una vita radicalmente altra, non si dovrà attendere a lungo prima di udire gli strilli per metà indignati per metà interessati della pacifica e laboriosa popolazione che si è allineata a fianco dell’ordine.
I genitori si lamentano… i bambini di una vicina scuola materna hanno fortemente avvertito gli effluvi dei gas lacrimogeni usati in dose massiccia dalle forze dell’ordine: i migranti sono pericolosi, gli occhi dei nostri bambini bruciano ancora.
I commercianti si lamentano… una cosa simile all’approssimarsi del Natale è una catastrofe; le persone non osano più fare le loro compere nel settore, e i loro percorsi in auto durano 8 volte più a lungo; i migranti non rispettano le nostre tradizioni, le compere di Natale sono sacre!
I rivieraschi si lamentano… alcuni immigrati hanno sfondato i cancelli dei giardini per passare, i bambini sono terrorizzati: i migranti sono minacciosi, non è che un giorno queste persone si introdurranno in casa per divorare i nostri figli?
I portuali si lamentano… che disastro non allontanare il centro di accoglienza attorno al quale si è sviluppata la «giungla» (dove ormai sopravvivono 4500 esseri umani). Da settembre, sono 7500 in meno i passaggi di tir: i migranti costano, fanno crollare il nostro giro d'affari.
Gli automobilisti si lamentano… «è la prima volta che viene rotto il mio specchietto retrovisore, proprio il giorno di Natale, che colpo!», «Il mio tettuccio è malconcio, quegli energumeni lo hanno preso a bastonate, che violenza, ma in che mondo viviamo!».
I «calaisiani in collera» (gruppo dai connotati ambigui, composto in maggioranza da agenti di sicurezza, che tutte le notti fra le 20.30 e le 5 pattuglia i dintorni della «giungla», sorveglia i dintorni della strada per prevenire il passaggio di migranti in direzione del tunnel) si lamentano… la popolazione di Calais non si è ancora unita a loro per combattere gli immigrati.
I trasportatori si lamentano… 36 milioni di euro di perdita a causa degli imbottigliamenti o dei controlli anti-immigrazione, dichiara un dirigente d'azienda per cui «il discorso politico si occupa sempre del problema di Calais da un’angolazione umanitaria, senza tenere conto degli aspetti economici»: i 20 migranti morti nella regione da giugno nel tentativo di raggiungere l'Inghilterra non si sono lamentati, loro, per il crollo del loro giro d'affari, quelli che sono sopravvissuti nemmeno.
Considerate le grosse difficoltà di mantenere l'ordine a Calais davanti ad individui che non rinunciano a proseguire il loro cammino — sulla strada di un esilio che in gran parte sono stati costretti ad affrontare, spinti dalle proprie condizioni di vita — verso la direzione che hanno scelto, l'Inghilterra, negli ultimi mesi lo Stato si è limitato a gestire il disordine. In due mesi, 1800 persone arrestate a Calais sono state spedite (attraverso l'aeroporto del Marck) nei centri di detenzione, carceri per stranieri, in tutta la Francia (Nîmes, Vincennes, Marsiglia, Tolosa, Rouen...) allo scopo di isolarli e scoraggiarli a ritornare.
Ormai lo Stato si dà nuovi mezzi per perseguire un obiettivo, quello che è condizione della sua esistenza e che gli conferisce legittimità: imporre l'ordine a Calais — ovviamente con la forza. Dare la caccia ai «migranti», quindi. Come testimoniano le ripetute richieste di intervento dell'esercito da parte del presidente della regione, l'arrivo di un veicolo blindato cingolato della gendarmeria utilizzato in casi estremi per domare assembramenti ostili di notevole dimensione (come accadde nel novembre 2005 quando una parte del territorio si infiammò per diverse settimane), o ancora il getto di grandi quantità di lacrimogeni dentro il campo stesso colpendo l'insieme dei suoi abitanti senza alcuna discriminazione.
In quest'ottica, l'apertura di un campo al centro della «giungla» è la spina dorsale del progetto governativo, progetto terrificante per ogni persona non ancora sorda alle sofferenze umane, non ancora insensibile di fronte alla fredda negazione dell'esistenza dell'individuo nel nome di interessi superiori, e profondamente convinta dell'impossibilità per ognuno di vivere liberi in un mondo fondato sull'autorità. È da lunedì 11 gennaio che questo campo è già in funzione. Con 125 container prefabbricati di 12 metri di lunghezza. L’uno sull'altro. Ogni container ha 6 letti sovrapposti. Ogni persona dispone di 2,33 metri quadri. Né doccia né cucina. In tutto 1500 posti. Il campo è recintato. Dotato di telecamere di sorveglianza. Controllo biometrico all'entrata.  Dopo due mesi di propaganda nella «giungla», solo 114 cosiddetti «volontari» (è evidente che non è la volontà a spingere a tale scelta, ma la necessità di sopravvivere e i suoi calcoli) hanno accettato di recarvisi una volta terminati i lavori. Ecco quindi cosa annunciano i tempi a venire: internamento nel campo dietro ricatto per una parte dei migranti della giungla con identificazione e registrazione obbligatorie, e trasferimento forzato per gli altri (gli impiegati della associazione La Vie Active che gestisce il campo aiutati dal Soccorso Cattolico, Salam, l'ostello dei migranti e Act'Aid hanno già cominciato a convincere ad andarsene i 500 abitanti della «giungla»), invio in centri di detenzione e/o espulsione per parte di loro. Poiché l'obiettivo dello Stato è di assumere il controllo totale della zona, di afferrare il più possibile nelle sue reti ognuno dei suoi abitanti (reti di cui la polizia, le amministrazioni come l'OFPRA [Ufficio Francese di Protezione dei Rifugiati e Apatridi], e le associazioni umanitarie costituiscono di volta in volta le differenti maglie) e di chiudere totalmente la frontiera con l'Inghilterra, ciò passa attraverso la distruzione della «giungla», uno spazio dove arrangiarsi per sopravvivere e organizzarsi insieme in maniera autonoma è ancora possibile.
Una buona notizia ci arriva proprio mentre stiamo scrivendo queste righe. Una buona notizia per ogni persona che desidera la distruzione delle frontiere, e che ci ricorda che è sempre possibile agire. La notte fra il 15 e il 16 gennaio due mezzi di cantiere sono stati incendiati nelle vicinanze del campo. Mezzi che appartenevano alla società Sogéa, che ha effettuato l'installazione dei container. Una buona notizia che dice anche: chi vuole lottare può darsi i mezzi. A Calais come altrove.
*
Fra le aziende che collaborano a tale progetto, spartendosi i 20 milioni di euro della torta (progettazione e funzionamento), citiamo:
Logistic Solution
fornitrice dei contenitori La PME Logistic Solution e già partner regolare dei militari e del ministero della Difesa, fornisce anche dei container nel cantiere di Mururoa in associazione con Sodexo Defense Services. È anche fornitrice dell’esercito egiziano.
ATMG
sorveglianza del sito durante i lavori, così come nei cantieri Eiffage, Bouygues, ecc.
Biro Sécurité
Dispositivo biometrico del campo e di sorveglianza del centro d’accoglienza Jules-Ferry e della zona «tampone» fin dal marzo 2015.
Association La Vie Active
Associazione di «utilità pubblica», gestisce, oltre al campo, più di 70 stabilimenti e siti, nel settore dell’infanzia, dell’adolescenza, del sociale, degli handicap, degli anziani.
Oltre agli alberghi Première Classe, Kyriad, Quality Hôtel e Campanile di Loon Plage e di Ambouts-Cappel, che affittano le loro stanze ai CRS (polizia antisommossa).

***

Parigi sotto tensione

(giornale anarchico su Parigi e oltre)
Lasciarsi sfruttare, scegliere un padrone (o farselo imporre) e in generale comportarsi come tutti; è questa la libertà? No di certo. Superiamo questa amara constatazione che facciamo – troppo – regolarmente. Riflettiamo e discutiamo di tutto ciò che ci opprime, ci sfrutta e ci impedisce di emanciparci. Puntiamo il dito contro i responsabili, i collaborazionisti, i loro progetti e le loro strutture che contribuiscono alla perpetuazione e allo sviluppo del dominio e dello sfruttamento. Facciamo risuonare le diverse manifestazioni di insubordinazione e di attacco, le rivolte più o meno estese nello spazio e nel tempo. Perché il dominio e lo sfruttamento si incarnano in persone, in uffici, in strutture, in veicoli, ecc. ben reali e raggiungibili dall’immaginazione di ciascuno-a. Ecco la nostra convinzione: noi possiamo darci i mezzi per riprendere in mano la nostra vita, alzare la testa, agire e rispondere colpo su colpo al «migliore dei mondi» da noi stessi, in modo diretto e autonomo. Senza sottometterci, né comandare. E, al di là di ogni cinismo o rassegnazione, siamo capaci di sognare e di immaginare una vita e dei rapporti altri rispetto a quelli che ci vengono imposti. Questo giornale vuole quindi essere un miscuglio di ossigeno e di scintille, di idee e di sogni di libertà, di attacchi, di insubordinazione e di offensive disparate. Da individui di qui e di altrove che si mettono in gioco; con audacia, lucidità, speranza, disgusto, rabbia, gioia e fiducia in se stessi, nelle proprie idee e nei propri complici… Questo giornale desidera mostrare ed essere una convergenza di queste vite; vite come scommesse in tensione*…
*  gioco di parole con diversi significati: paris può significare Parigi, ma anche scommesse o sfide.

La violenza di genere ha sempre una valenza politica, dal mio punto di vista, poiché è uno strumento utilizzato per perpetuare il secolare dominio del genere maschile sulle donne. Poco conta se questo uso sia sempre consapevole o sia frutto di una mentalità che inferiorizza le donne fino a renderle proprietà maschile, dunque schiave dell’uomo. È un dato di fatto storicizzabile, da combattere alla radice.

Esiste, poi, un uso politico della violenza di genere e del femminicidio, il cui obiettivo non è ‘solo’ quello di terrorizzare le donne per mantenerle in condizione di schiavitù, ma anche quello di terrorizzare un’intera popolazione. Generalmente questo secondo aspetto va di pari passo con la guerra.
Nella storia se ne possono rintracciare innumerevoli casi; il più recente è quello della guerra che il governo di Erdogan sta portando avanti, con rinnovata ferocia, nei confronti della popolazione kurda.

Ciò che è avvenuto a Colonia e in altre città a capodanno è terribile, senza dubbio. E non deve stupire che la mentalità patriarcale faccia uso anche dei social network per organizzare violenze di massa. O continuiamo a pensare, stupidamente, che il patriarcato abbia a che vedere con il feudalesimo e nulla abbia a che fare con la modernità e le sue tecnologie?

Ricordiamo bene le aggressioni sessuali di gruppo in piazza Tahrir, al Cairo, quando orde di maschi circondavano le donne, le molestavano e le stupravano per ‘punirle’ della libertà che si erano prese scendendo in piazza a protestare. Ma dovremmo anche ricordare bene  come, nell’arco di breve tempo, si organizzarono i gruppi di difesa e autodifesa delle donne.
E così anche in India, e in tante altre parti del mondo.
Che oggi le aggressioni sessuali di gruppo – come quelle di Colonia – vengano ridotte ad una questione etnica o culturale, serve solo a coprire un dato di fatto, che noi donne abbiamo, invece, molto chiaro – anche se giornaliste & C. sembrano dimenticarsene molto facilmente quando si tratta di soffiare sul fuoco della xenofobia.

Quale donna non ha avuto a che fare con aggressioni sessuali di branco già dalle elementari, se non da prima?
Cosa c’entra la provenienza etnica, se non per dissimulare un problema molto più profondo che si chiama dominio patriarcale e che viene instillato nei maschi ancor prima che nascano?
Si tratta di un dominio che, pur manifestandosi con declinazioni  differenti, nella sostanza non cambia affatto.

Quando ero in Olanda, ad Utrecht, per ragioni di studio, mi si raccontava di come quel paese fosse avanti anni luce, quanto le donne fossero emancipate e quanto illuminati fossero gli olandesi coi loro matrimoni gay e lesbici, col loro antiproibizionismo ecc ecc…
Trovavo poco convincenti queste affermazioni, anche perché sapevo della genderizzazione della popolazione migrante in base alla divisione capitalistica del lavoro: per ottenere il permesso di soggiorno, alle donne immigrate veniva insegnato come diventare delle ‘brave casalinghe olandesi’ – che il lunedì lavano i panni, il martedì stirano, e via dicendo – mentre agli uomini venivano insegnati lavori di basso profilo, per tenerli al fondo della scala sociale e ‘razziale’.
Ma la conferma che l’Olanda non fosse affatto un paese meno machista di altri l’ho avuto durante il Queen’s day, quando, il 30 aprile, l’intera popolazione è in festa per il compleanno della regina (tutto vero!). Si tratta di una giornata in cui si rovesciano le consuetudini quotidiane, più o meno rigidamente mantenute per tutto il resto dell’anno. Una sorta di carnevale, nel senso più alienato del termine; una  ‘valvola di sfogo’. I festeggiamenti cominciano la sera del 29 aprile e proseguono per 24 ore – inutile dire che, poi, il primo maggio, tutti/e rientrano docili nei loro ranghi calvinisti, altro che festa del lavoro! – e per tutto quell’arco temporale gli olandesi (e le olandesi!) si scolano ettolitri di alcolici ed è molto frequente incontrare gruppi di maschi alti e biondi, ubriachi marci, che insultano e molestano le donne – soprattutto quelle che non hanno tratti somatici tipicamente nederlandse. Non sto qui a raccontare la serata che io e un’amica spagnola – entrambe basse e scure, quindi visibilmente non-nederlandse – abbiamo trascorso difendendoci da insulti e aggressioni da parte di vari branchi di olandesi, la cui mentalità machista è rafforzata da un’altrettanto forte eredità partiarcal-coloniale.

Tutto questo per dire che è inutile strapparsi i capelli per ciò che è accaduto lo scorso capodanno in alcune città europee, se lo si continua a leggere come una questione meramente etnica. Anche perché serve solo a dimenticarci che in quelle che vengono definite ‘altre culture’ molto spesso le donne lottano con una determinazione da cui noi avremmo soltanto da imparare.

Come le Imperial Ladies furono complici del patriarcato colonialista in nome della propria  – presunta – emancipazione da esportare, così l’etnicizzazione della violenza di genere è complice della crescente violenza di genere ‘intra-etnica’ nostrana, e dissimula, buttandolo sull’altro, il dominio dell’uomo  occidentale su tutte le donne – dall’autoctona mogliettina o ex fidanzata massacrata, alle bambine thailandesi stuprate dai turisti sessuali, alle donne ‘straniere’ sposate sperando che siano mogli sexy e remissive.

Accennavo, prima, all’uso politico che il governo di Erdogan fa della violenza di genere. Perché non se ne parla? Crediamo davvero che stia facendo diversamente da Daesh-Isis?
Nell’attuale genocidio in corso in Kurdistan, l’accanimento contro le donne – kurde o filo-kurde – ha assunto aspetti terribili. Dalle donne crivellate di colpi perfino nella vagina alle combattenti ferite, torturate e trascinate nude fino alla morte con una corda al collo, alle bimbe di pochi mesi, alle ragazzine e alle donne incinte ammazzate dai cecchini, alle donne i cui cadaveri non possono essere recuperati dalle strade perché la polizia e l’esercito sparano su chiunque provi ad avvicinarsi. E potrei continuare, perché la lista è lunga

Oggi è il terzo anniversario dell’assassinio, a Parigi, di tre donne kurde, tre femministe che avevano dedicato le loro vite alla lotta con altre donne: Sakine Cansiz, Fidan Dogan e Leyla Söylemez. Un triplice assassinio in cui hanno grande responsabilità i servizi segreti turchi.

Pochi giorni fa, in una delle città kurde in cui la Turchia ha imposto da settimane un violento coprifuoco e le forze dello stato sparano a vista su tutto ciò che si muove – persone ed animali – altre tre femministe sono state ferite, torturate e poi violentemente ammazzate – i loro volti sono stati sfigurati da raffiche di colpi e, probabilmente, dall’esplosivo. Si chiamavano Sêvê Demir, Pakize Nayır e Fatma Uyar.

Ieri è stato dato fuoco alla sede di un’organizzazione femminista all’urlo di “Allahu Akbar”. No, non erano i miliziani di Daesh, ma le forze dello stato turco!

Ma alle nostre latitudini nessuna/o spende mezza parola su queste atrocità. Perché?
Di certo non soltanto perché di stragi e violenze se ne parla solo quando avvengono “nel nostro cortile”, ma perché gli stati occidentali sono complici delle politiche turche, non solo ingrassando il governo di Erdogan affinché blindi le frontiere a donne e uomini migranti, ma soprattutto perché la regione kurda è un laboratorio del confederalismo democratico, che fa paura all’occidente capitalista e ai suoi alleati arabi in quanto progetto antistatuale, cooperativo, egualitario, femminista ed ecologista.

Mai non sia che le anime belle, qui, si rendano conto di non vivere nel “migliore dei mondi possibili”! E magari decidano pure di rompere con la violenza di genere, lo sfruttamento del lavoro e la devastazione dell’ambiente – o almeno di non delegarne la soluzione agli apparati di potere.

Il nemico numero uno della Turchia, Abdullah Ocalan, ipocritamente consegnato – dal governo D’Alema – nelle mani del governo turco, dopo avergli fatto credere di poter essere in salvo in Italia, da anni è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza su un’isola turca; di lui, né i suoi legali, né i familiari hanno più notizie da mesi.
Alcuni anni fa, mentre era già rinchiuso in quella tomba di cemento e ferro, Ocalan mandò un messaggio alle Donne Libere kurde, che voglio riportare qui, perché è lo specchio delle miserie di tutti i “democratici” signorini nostrani che si occupano di mascolinità e ci costruiscono le loro “democratiche” carriere accademiche (oltre ai loro, frequenti, marpionamenti), senza nulla cambiare realmente nei rapporti tra generi:

Organizzatevi bene contro di noi e anche contro di me. Rispetto a una donna libera io non sono che un quarto di uomo. Ma che ci posso fare? Alla mia età è tardi per cambiare. Questa è la realtà del vostro presidente.
Gli uomini sono solo asini in calore, sono signori feudali in disarmo. Questi uomini credono che bastonare la donna sia un loro sacrosanto diritto. L’uomo è rozzo, molto rozzo; anche al migliore degli uomini puzza l’alito. L’uomo non va al di là del suo istinto. Ma allora cosa volete farci voi donne di un uomo così?

Alla brava e coraggiosa Sakine, i torturatori turchi avevano, fra altre violenze, tagliato i seni quando era loro prigioniera – pratica sadica che ancora oggi tanto Daesh-Isis che le forze dello stato turco utilizzano per terrorizzare e cercare di sottomettere e colonizzare le popolazioni. A lei la parola.

fonte: http://www.nicolettapoidimani.it/