Speranza
di Albert Soubervielle
Noi ci culliamo — talora inebriandoci — con fallaci parole che rappresentano solo vaghe astrazioni. Pretendiamo che la speranza sia il nostro sostegno, se non la nostra guida, nell'aspra lotta che conduciamo nel corso della nostra effimera esistenza. E coloro che considerano la speranza una chimera a volte sono solo disillusi che, dopo molte speranze infrante, dubitano di tutto e di se stessi. Ma, a parte questi disincantati dalla vita, tutti gli esseri umani non vedono forse nella speranza il faro luminoso che li guida e verso cui tendono i loro sforzi? Essendo la speranza in un futuro migliore l'unica vera ragione di vita, per tutti? È così che il credente si rassegna al triste destino della sua vita terrena, contando ingenuamente in una ricompensa nell'aldilà. Questo è anche il motivo per cui l'eterna vittima pone il proprio futuro nelle mani di un padrone e non si scoraggia, sebbene costantemente ingannata. Sono queste fallaci speranze che contribuiscono a prolungare miseramente una vita sociale talmente assurda e monotona. Sperare significa credere in un’ipotetica felicità e aspettarsela ingenuamente dagli dèi, dai padroni o dal cieco caso. Farsi cullare da una speranza ingannevole significa far addormentare ogni energia in se stessi, talvolta è rinunciare persino a qualsiasi idea di lotta, significa preparare un avvenire che è solo un ritorno del passato e una triste continuazione del presente. Non dobbiamo avere alcuna fiducia cieca; non crediamo in niente; nessuno può migliorare la nostra vita meglio di noi stessi. Acquisiamone coscienza e mettiamo la nostra energia in continua attività. Lottiamo e reagiamo contro tutto ciò che ostacola la nostra esistenza. La speranza indebolisce e imbroglia. Ci fa marcire nel tran-tran di un’ebete ingenuità o sprofondare in un tetro scoraggiamento. La volontà, madre dell'azione, è un reale fattore di vita. Bisogna agire, non sperare.
(l’idée anarchiste, n.5, 8 maggio 1924)
Un'arte antica
«A dirla in breve, tutti i Numi aborro» Eschilo, Prometeo incatenato
Molti secoli dopo la tragedia di Eschilo, il figlio di un contadino scozzese si imbatté in un fenomeno che il Prometeo della leggenda non avrebbe rinnegato: il fuoco, come conoscenza e come arte. Venuto ad annettere alla Corona britannica le isole del Sud Pacifico, James Cook descrisse così nel suo diario la visione che gli apparve quando raggiunse le coste australiane nel 1770: «Ovunque siamo, vediamo fumo durante il giorno ed incendi di notte... Quel continente è un continente di fumo». Questa arte del fuoco abilmente gestita dagli aborigeni consentiva loro di coltivare terre aride (con la tecnica agricola del debbio), di favorire certe sostanze che attirano le prede, di formare boschi aperti o mantenere praterie erbose che favorivano la caccia. Ogni giorno, centinaia di fuochi aborigeni mantenevano ciclicamente un paesaggio a mosaico che alternava campi, praterie e foreste aperte. La specificità pirofila di parte della flora australiana di arbusti è tale che ancora oggi addirittura un quinto di quelle specie hanno bisogno del fuoco per la germinazione dei loro semi. Ma cosa volete che un piantatore di bandiere capisca in materia d'arte prometeica, lui che fin dal suo primo approccio si rivolse a colpi di moschetto agli abitanti di quelle terre? Dopo aver ampiamente sterminato gli aborigeni (passati dai 750.000 dei tempi di Cook ai 20.000 del 1920) e represso non senza resistenza le loro pratiche incendiarie al fine di introdurre bestiame e recinti, i coloni non si resero nemmeno conto che i loro allevamenti estensivi di pecore avevano sterilizzato il terreno di quel fragile ambiente in meno di una generazione. Se a questo si aggiunge il fatto che l'Australia è diventata a poco a poco una gigantesca miniera a cielo aperto (con 60.000 miniere abbandonate e 400 ancora attive), si arriva ai giganteschi incendi che stanno devastando quel continente dal mese di novembre.In primo luogo, quel megafire ha fatto abbondantemente parlare di sé perché sta divorando un paese ricco sorpreso dalla sua furia, al punto che il suo governo attende ormai l'arrivo delle piogge estive come se fossero un nuovo messia. Poi, poiché a differenza del precedente storico di vastità ancora maggiore (un'area di 117 milioni di ettari era bruciata nel 1974-75, ossia undici volte più di oggi), questo non sta interessando solo l'interno più desertico ma direttamente il volto radioso del paese situato sulle coste orientali e meridionali: le metropoli di Sydney, Melbourne e Canberra, così come numerosi bacini di turisti (parchi nazionali e altre riserve naturali allestite). Per tre volte da novembre, è stato dichiarato lo stato d'emergenza per una settimana nelle province del New South Galles e della capitale, causando l'evacuazione forzata di 100.000 persone (tra cui 30.000 beoti vacanzieri) e l'intervento dell'esercito. Il dispiegamento sull'area di cinquemila soldati con ampi poteri — che vanno dalle evacuazioni forzate e le requisizioni di beni alla sospensione delle libertà in vigore — con aerei, gipponi blindati e navi da guerra, dà un assaggio di cosa sia una qualsiasi gestione statale di una catastrofe che mette in pericolo i suoi interessi. Un rapporto che consente anche di coordinare meglio pompieri e assassini in uniforme per gerarchizzare le priorità, poiché una infrastruttura critica da preservare viene sempre prima di qualsiasi abitazione, e una miniera di titanio, o tantalio, o torio, o nichel, o litio, o carbone, o tungsteno con cui l'Australia rifornisce a profusione l'industria di morte viene sempre prima di qualsiasi famiglia di koala. Senza ironia, la situazione è tale da venire descritta in loco «Chernobyl del clima». Non perché l'Australia è il terzo produttore mondiale di uranio con il suo radioso giacimento Ranger sfruttato nel bel mezzo del famoso parco naturale di Kakadu per rifornire le centrali giapponesi, ma perché le colonne di fumo rilasciato nella stratosfera da questi mega-incendi che si moltiplicano dall’Amazzonia alla Siberia e dal bacino del Congo all'Artico, fungono già da modello per studiare le conseguenze di un eventuale inverno nucleare. Tuttavia, proprio come Chernobyl o Fukushima, questa catastrofe non ha proprio nulla di «naturale», la sfrenata devastazione dell'ambiente non è un semplice errore di negligenza dell'attuale organizzazione sociale suscettibile di essere corretto una volta riconosciuto dai suoi dirigenti, ma una delle ovvie conseguenze del capitalismo. Come tutti i miti, quello di Prometeo è stato oggetto delle più diverse interpretazioni, poiché la loro funzione è proprio quella di mobilitare il passato in funzione dello sguardo da portare sul presente. E come avrebbe potuto sfuggirvi il Titano greco, lui che rubò con un atto di ribellione il fuoco sacro dell'Olimpo per portarlo agli umani, prima di essere condannato da Zeus a restare incatenato mentre un'aquila arrivava ogni giorno per divorargli il fegato? A partire da quel fuoco sottratto, simbolo di conoscenza, alcuni si sono soffermati ad esempio sugli scontati tormenti di Prometeo come una metafora della paura del futuro; altri l'hanno usato per mettere in guardia gli umani da una volontà di onnipotenza tecnica al limite dell'eccesso; e altri ancora lo hanno talvolta invocato in nome del destino mitico delle masse proletarie in marcia verso la grande sera. Ma cosa accadrebbe in fin dei conti se, invece di rifugiarsi dietro il mito di un necessario intermediario trafficante di fuoco, ci si sbarazzasse una volta per tutte della sua figura per voltarsi verso l'utopia e agire in prima persona? Quella delle coscienze individuali insorte, quella dei favolosi Titani che spezzano le catene forgiate dagli dèi moderni dell'autorità e del progresso. Oh, come sembrerebbe allora assurdo ad ogni essere la cui protesi tecnologica non serve né da coscienza né da cuore, chiedere ai tiranni di risolvere un problema di cui sono la causa! Oh, come sembra più che mai tempo di fermare tutto noi stessi sviluppando quest'arte antica, diffusa e mirata, contro tutto ciò che ci distrugge. Perché ciò che non aveva capito un esterrefatto James Cook prima che i suoi discendenti cospargessero l'Australia di veleni, è che il problema non è il fuoco, ma contro chi e contro cosa sia indirizzato.
Traduzione: Finimondo
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