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In febbraio uscirà una nuova rivista di critica radicale: Chrysaora

Ecco i due editoriali di presentazione:

Distruzione necessaria

Riuscire ad esprimere sé stessi, ad esempio attraverso l’arte, non è affatto facile e scontato. Quando ciò che si vorrebbe rappresentare in una determinata forma ne prende una diversa si prova talvolta frustrazione e sconforto.

Scrivere su carta ciò che si ha in mente è altrettanto complesso, tanto più avventurarsi nella creazione di una rivista. Le immagini dei nostri desideri e tensioni sono costrette ad accontentarsi di parole che sembrano sempre inadeguate.

La paura della critica, che a volte può anche essere aspra e dura, per qualcuno può portare alla difficoltà e al quasi rifiuto di scrivere. Così molte idee e intuizioni rimangono vaganti nella mente, mentre aspettiamo che a scrivere sia qualcuno con esperienza e capacità di scrittura che presumiamo essere migliori delle nostre.

Rinunciare a mettersi in gioco è un’ottima scorciatoia che di certo non va contro ad un sistema sociale che tenta in ogni modo di annientare nei singoli individui la coscienza delle proprie potenzialità.

Ci manteniamo scrupolosamente entro i limiti delle competenze che ci sono state assegnate e perché mai dovremmo cercare di oltrepassarli dal momento che nessuno può fare più di quel che può fare?

Tuttavia la critica delle gerarchie e degli specialismi, frutto di questa società, comporta anche venire ai ferri corti con sé stessi spogliandosi delle proprie incertezze e insicurezze per mettersi infine a nudo. Ciò può essere doloroso, ma è l’unico modo per rendersi conto che le nostre rinunce non sono nella maggior parte dei casi dettate dalle nostre incapacità quanto piuttosto da un modo di vivere e pensarci che vorrebbero abituarci ad accettare.

Spogliatevi dunque della vostra singolarità o del vostro isolamento, che è la radice di ogni disuguaglianza e di ogni discordia, e consacratevi pienamente all’Uomo vero, alla Nazione o allo Stato”: così ci hanno insegnato a esistere in questo mondo.

La vita, oltre ad essere stata privata della dimensione dell’avventura e dell’ignoto - perché facciamo tutti ciò che sappiamo e che siamo nati per fare -, è stata inoltre trasformata dal progresso tecnologico in un avvilente serie di numeri e dati, ricreando una realtà sempre più virtuale e alienante. La nostra esistenza è diventata sempre più smart e siamo quasi ormai inconsapevoli di cos’era la vita prima di questo Stato di cose. La loro Storia, che studiamo sui banchi di scuola, è quella che vorrebbe farci credere che la strada intrapresa fosse l’unica possibile. Eppure questa strada è lastricata di menzogne e atrocità. Devastazioni ambientali dipinte con la retorica della green economy e dello sviluppo sostenibile mentre le foreste vengono abbattute. Non si contano più le specie di piante e animali estinte o costrette a vivere in gabbie negli allevamenti intensivi e per la sperimentazione scientifica. Gli habitat naturali vengono distrutti per fare spazio alle linee dell’alta tensione, alle fabbriche ed alle autostrade. Neppure gli abissi degli oceani restano incontaminati, attraversati dalle dorsali di fibra ottica e minati dalle trivellazioni. Tutto ciò per alimentare la cementificazione forsennata e la crescita cancerogena della megalopoli che crea e soddisfa bisogni e modi di vivere completamente nuovi e funzionali al Dominio.

Tutto viene inquinato: l’aria, il mare, la terra. Gli equilibri della natura, come le stagioni, sono ormai sconvolti. Le precipitazioni aumentano con eventi estremi e devastanti, mentre altrove avanza il deserto.

La visione produttivistica e antropocentrica ha fatto sì che il selvatico diventasse addomesticato: boschi impenetrabili violati da sentieri tracciati per la gita fuori porta della domenica pomeriggio, spiagge privatizzate e agghindate per il turismo estivo cos’hanno in comune con le dune brulicanti di vita selvatica?

Per difendere gli interessi di chi auspica un mondo di confini tracciati dal filo spinato la guerra è stata una costante fonte di massacri, tragedie ed eccidi. L’idea della difesa della Nazione o dello Stato ha giustificato genocidi ed atrocità, alimentando uno sviluppo tecnico e scientifico che ha prodotto aberrazioni come il nucleare ed i campi di sterminio nazisti, dove l’organizzazione tecnica dell’annientamento ha poi segnato l’organizzazione della vita sociale per tutto il secolo seguente fino al nostro presente.

Questa società crea il proprio disastro. Dalla sua distruzione non avremmo nulla da perdere se non la sua miseria.

Tuttavia è la realtà che viviamo quotidianamente. La realtà profondamente nociva e insostenibile concepita come intoccabile e indistruttibile da chi sostiene ancora che questo modo di vivere possa essere parzialmente migliorato e riformato, da chi non riesce e non vuole immaginare un qualcosa di radicalmente altro a questa esistenza perché le parole come distruzione e ignoto suonano ancora stonate alle sue orecchie.

Per qualcun altro, invece, queste parole evocano la curiosità di un’avventura e aprono alla possibilità che possa esistere un modo diverso di vivere. Sappiamo che la necessaria distruzione non porta con sé certezze sul domani, e non saremo noi a fare promesse su un futuro prevedibile e calcolabile, perché non è ciò che ci interessa. Piuttosto preferiamo interrogarci oggi su come far divampare il fuoco della rivolta perché l’unica cosa che possiamo augurare a questa civiltà che ci soffoca è la sua fine. Queste sono le domande che vogliamo porci attraverso Chrysaora.

Chrysaora è il nome di alcune specie di medusa. Ci siamo ispirati a questi animali per la particolarità del loro comportamento e della forma del loro corpo. Dal greco spada dorata, in lingua aborigena vengono chiamate fiume di fuoco per la pericolosità delle cellule dei loro tentacoli che possono iniettare un dolorosissimo veleno.

Alcune di queste cellule urticanti sono attivate dal sistema nervoso mentre altre scaricano il loro veleno in maniera indipendente. Gli scienziati, che tanto provano a formulare, quantificare, determinare e dare una spiegazione razionale della vita, non sono ancora riusciti a capire con certezza il funzionamento di queste cellule. Similmente, chi cerca di determinare qual è la causa e qual è l’effetto tra pensiero e azione non potrà mai capirne la complessità. Pensiero e azione coesistono e non si escludono a vicenda, anzi. Il pensiero dà vita all’azione ma avviene anche il contrario, quando è l’azione ad innescare pensieri e riflessioni che leggendo un libro non sarebbero magari mai nati.

Per noi l’agire anarchico non dovrebbe essere uno schema fisso né un accumulo di esperienze che ci rendano individui più o meno puri e rivoluzionari o semplicemente la ricerca forsennata di punti militanza per ottenere la stellina di cui fregiarci ai concerti o agli aperitivi di movimento.

Piuttosto potrebbe significare partire da sé stessi per sé stessi, abbandonando ogni modello, la logica del fare e del consenso, ed impegnarsi nel capire cosa si vuol fare della propria vita. Per quanto possa essere difficile, bisogna  guardarsi allo specchio e cercare la consequenzialità tra ciò che si pensa, ciò che si sente e come si desidera agire in una continua ricerca di modi per distruggere questo mondo. L’impegno nell’approfondire e nell’affinare le idee e l’azione come può non partire dall’iniziativa individuale e autonoma?

Partire dall’individuo non esclude ovviamente l’importanza dell’unione e del confronto con gli altri. Le chrysaore, ad esempio, in alcuni momenti della loro vita preferiscono nuotare da sole, mentre in altri si ritrovano in grandi banchi che contano anche migliaia di individui. Come questi animali riescono a vivere sia da soli che in molti, la nostra scelta di associarci non cambia il fatto che l’individuo esiste prima di tutto perché è sé stesso e non perché appartiene ad un gruppo.

Riuscire a pensarsi come causa non è cosa ben vista in questa società. Sono parole già dette, ma l’anarchismo ha ancora molto da interrogarsi riguardo a questo pensiero stupendo, approfondendo la complessità del rapporto tra l’individuo e gli altri tanto a livello relazionale che organizzativo.

In primo luogo perché non per forza deve esistere un centro: ci sono diverse forme organizzative possibili. La chrysaora non ha un cervello ma una rete di neuroni acentrica. Eppure riesce lo stesso a muoversi e a catturare le sue prede.

E allora che bisogno c’è della politica, di qualcuno che ci dica, in parlamento, in assemblea o in piazza, quando, perché e cosa fare? Dovrebbero essere gli individui a decidere come, con chi e perché organizzarsi e agire, facendo sì che le decisioni nascano dall’incontro delle riflessioni e delle idee di ogni singolo in maniera non gerarchica.

Partendo da queste premesse c’è chi ha proposto un altro modo di organizzarsi. Un’idea di organizzazione senza vincoli formali, che, al netto dei nostri limiti in quanto nati e cresciuti in questà società, non dovrebbe avere nè capi nè ruoli bensì essere fluida e senza statuti a cui aderire. Questa organizzazione informale non avrebbe pretesa di durata né di accumulo quantitativo di forze e non si baserebbe sull’adesione a un programma a priori.

Perché non avventurarsi in questa selva di possibilità? Per chi vive all’ombra dell’efficienza sperimentare questo modo di organizzarsi sarebbe semplicemente assurdo. È stato perso di vista il valore della qualità pur di riuscire ad ascoltare il linguaggio freddo della quantità e della macchina che gira. D’altronde, guardandoci intorno, possiamo vedere tentativi di Libertà e forme di autonomia quasi ovunque annichilite. Essere spettatori di ciò sembra giustificare la scelta di restare passivi nel proprio angolino al riparo da tutto, pur capendo quanto questo mondo sia insostenibile.

Certo, sarà la scelta di non rischiare, di non mettere a repentaglio la propria quotidianità pur di rimanere nel proprio spazio sicuro, delimitato e circoscritto. Sarà la scelta di una magnifica prigione, ma che resta pur sempre una prigione. Così il sogno della casa in campagna, lontana dalla corsa frenetica della città dove si mangia “bene” e si respira aria pulita, in fin dei conti si mostra per quello che è: pura illusione di poter co-esistere col Dominio in una tregua armata pacificata. I tralicci e le linee dell’alta tensione, che scorgiamo quando osserviamo incantati un bel paesaggio campestre o durante una passeggiata nel bosco, ci ricordano costantemente che la civilizzazione non ha lasciato selvaggio quasi nessun luogo di questo Pianeta. Per questo l’attacco non ha un luogo preferenziale da cui partire essendo il potere, con le sue strutture e i suoi burattini, polverizzato attorno a noi. Non si tratta del luogo in cui si vive, città o campagna, ma come scegliamo di farlo: alla ricerca del nostro angolo tranquillo o seguendo la propria tensione verso le distruzione. Senza dimenticarsi, però, che sulla strada della distruzione randagia, per non rischiare di annegare nella militanza, occorre lasciarsi travolgere anche dai propri sogni. Per cominciare, potremmo chiederci: come si può continuare a restare indifferenti di fronte al disastro che ci circonda? Cosa ci trattiene dal provare a far deragliare il treno del progresso?  Fino a quando accetteremo la miseria esistenziale in cui ci costringono a sopravvivere e non tenteremo di diventare un fiume di fuoco e di rabbia?

Autonomia impossibile

Ciò che lascia esterrefatti di quest’epoca è quanto siamo poco sensibili nei confronti di ciò che ci circonda ed al contempo come ne siamo materialmente dipendenti. Se le sofferenze, l’oppressione, la privazione della libertà altrui ci lasciano ormai indifferenti, dal frutto del massacro consegue direttamente l’idea di cosa la nostra esistenza sia. Sapremmo immaginarci ancora esseri umani senza avere, ad esempio, un computer come appendice inorganica alla nostra corporeità?

Il cuore della questione è che viviamo in un mondo di relazioni che si snodano all’interno di uno spazio ed un tempo profondamente colonizzati dal potere, dall’economia e dalla tecnologia. Viviamo in un mondo basato su logiche quantitative e di accumulo che hanno creato un Dominio che cerca di annientare o assimilare tutto ciò che non è esistente grazie ed a causa di esso. Quanta libertà abbiamo di inventare il nostro modo di esistere e relazionarci con altri individui avendo di fronte a noi un mondo dato? E che dire di tutti gli altri esseri viventi non umani, costretti a vivere in fuga da un mondo che fino a ieri non apparteneva a nessuno ed ora è solcato da confini, mura e recinti, centrali e ferrovie, avvelenato fin nei suoi angoli più remoti?

Storicamente questo processo si è via via approfondito. La pervasività dell’organizzazione sociale e dei suoi ritrovati nella nostra vita è aumentata a dismisura. L’essere umano, ormai antiquato, non sa più come vivere senza i suoi prodotti, facendo sì che siano ormai i prodotti, ed il modo di vivere e di lavorare che li rendono di fatto realizzabili, a mantenerlo in vita. C’è un dislivello tra le nostre possibilità umane di capire gli effetti di ciò che produciamo, in quanto elementi organizzati in un determinato sistema sociale, e ciò che realmente provochiamo in noi stessi e nel mondo che ci circonda con ciò che abbiamo reso possibile con il nostro lavoro. Siamo il frutto della nostra merce, dipendenti dalla forma di vita che ci è stata imposta nel corso dei millenni da chi, attratto dal mondo della quantità, ha voluto man mano consolidare il suo potere o conquistarlo a chi lo precedeva.

Di pari passo con lo sviluppo del Sistema Tecnico e la devastazione del mondo naturale, si sta delineando una prospettiva di gestione amministrativa dell’esistente dove la specializzazione diventa il fondamento della divisione sociale del lavoro e del modo in cui viene trascorsa la vita. Da un lato il controllo capillare dei comportamenti e delle forme di consumo nei luoghi più sviluppati, dall’altro il manganello e la minaccia militare nei luoghi di produzione o di estrazione delle materie prime: ne consegue che ovunque, nel mentre, si approfondisce la distanza tra chi, incluso, sapendo utilizzare ancora il linguaggio e il pensiero riesce ancora a capire come funziona il mondo e cosa significano determinati concetti od esperienze e chi, escluso, si arrende al consumo massificato di opinioni e paccottiglia offrendo il proprio sudore nel produrre e consumare ciò che viene vomitato dalle macchine.

Aprirsi ad altre conoscenze, rifiutare la specializzazione, non significa quindi per noi accumulare sapere e nozioni. Sommando polvere a polvere nulla prende vita. La qualità sta altrove, nella frammentazione di sé, nella ricerca di ciò che sfugge alle classificazioni, nell’alimentare le nostre capacità in mille direzioni diverse rafforzando la nostra abilità, in quanto individui, di pensare ed agire in modi sempre originali al di fuori delle logiche di questo mondo. Saremo individui inadeguati a mettere a ferro e fuoco il mondo finché non cominceremo ad abbandonare le certezze del calcolo e della quantità.

Se oggi esistiamo in quanto umani poiché viviamo in questo sistema sociale, mettendo a valore le potenzialità che esso ci offre e nutrendoci del suo fiele, cosa resta infine del nostro saper essere, triturati tra il dover esistere socialmente e l’assuefazione al presente Stato di cose? Tuttavia, anche se l’evasione dalla magnifica prigione del consumo e dell’abbondanza appare difficile se non impossibile, possiamo sempre agire sulle nostre relazioni, trasformandole sulla base delle nostre riflessioni, tensioni e sul mondo che ci circonda, alimentando verso di esso la conflittualità permanente, l’attacco e l’autonomia da partiti, movimenti e sindacati. È solo così che pensiamo possa essere assecondato il nostro desiderio d’utopia.

L’utopia, irreale per definizione in quanto luogo che non è, non per questo non può materializzarsi per infinitesimali attimi trasformando ed incidendo le carni delle realtà. Che il realismo si arrenda all’irrealtà della passione e del desiderio!

Come un miraggio che permette agli sperduti viaggiatori nel deserto di compiere qualche passo in più prima di arrendersi al bisogno, l’utopia ci rende sensibili verso una possibilità che, in quanto irrealizzabile, non può vedere la luce. Come un’illusione provocata dal caldo, essa non garantisce nulla e non promette soddisfazione alle necessità dei bisogni: la responsabilità di ogni passo è dell’assetato che si avventura nel viaggio verso una fonte che immagina rinfrescante e non di ciò che pensa o è convinto di poter raggiungere. Per questo sentivamo il bisogno di immaginare una rivista come Chrysaora: una rivista che provasse ad offrire spazio al desiderio di ciò che non è. Una rivista a cui non chiedere come costruire mondi ma che potesse proporre solo qualche storta sillaba, secca come un ramo. Perché oggi possiamo solo dire ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Perché l’individuo che insegue l’utopia, come la chrysaora, sa senza poter realmente sapere. Queste meduse hanno un ciclo vitale molto particolare. Appena nata, la larva striscia sul fondale finché non trova un luogo sicuro e tranquillo con grande abbondanza di cibo: è qui che la planula comincia a crescere e si trasforma in un piccolo animaletto sedentario. Col tempo, però, la sua forma muta ancora e dalla larva si cominciano a sviluppare tante meduse, una attaccata all’altra, che infine si staccano dall’unico vecchio corpo e cominciano a nuotare nell’oceano. Il vecchio muore con il nuovo e nulla resta di ciò che era prima in ciò che sarà. Vediamo in questo una forma di individualità particolare: da un solo animale se ne generano molti. Esiste nella forma immobile un desiderio inespresso e inconoscibile di una dimensione di vita futura di cui non ha ancora mai avuto esperienza? Può un organismo che vive adèso al fondale desiderare, senza sapere come e quando, di librarsi dalla melma per scoprire le ignote vastità oceaniche fluttuando nella corrente? Egli si rende conto che solo allora potrà incontrare altri esseri liberi con cui nuotare insieme?

Non ci sentiamo così distanti da questo ipotetico sentire. Abbiamo la percezione di una mancanza, un desiderio inespresso, il sogno di un modo altro di esistere. Al contrario che per la chrysaora, la quale se non muore attraversa tutte le sue fasi, sappiamo che invece per l’essere umano non esiste storicismo o predeterminazione. Non diventeremo, prima o poi, esseri liberi per un processo evolutivo intrinseco alla specie umana o alle sue forme sociali. Esiste solo la volontà di cominciare, per quanto possibile, ad assaporare qui ed ora questa sensazione.

Per questo occorre ricominciare a saper essere a partire da sé stessi, per sé stessi. Desiderare la libertà di tutti perché sappiamo che saremmo in fondo incapaci di sperimentarla davvero se circondati da schiavi. Riscoprire la propria autonomia, temprandola nell’incontro e nello scontro egoista degli Unici. L’autonomia, assaporata nell’avventura della sua ricognizione, è l’unico cordone ombelicale che ci può dare la forza di abbandonarci alla leggerezza del negativo. Senza, saremmo persi nella paura di negare la nostra stessa esistenza nella radicalità del rifiuto di questo mondo e delle sue relazioni. Qui, infatti, occorre calcare la distanza tra chi ci fa vivere come se questo fosse l’unico mondo possibile e chi, disposto a farlo schiantare sui frangenti, anela a liberare la falena umana dalle luci riflesse dalla parete della caverna di sangue in cui è rinchiusa. Costi quel che costi, i freni d’emergenza non ammettono ripensamento.

La sperimentazione delle relazioni e del modo in cui viviamo, sia chiaro, non dovrebbe in nessun caso avere scopo: né dimostrativo né di anticipazione della vita futura. Nel primo caso si cadrebbe in una sorta di sperimentalismo volto a dimostrare la fattibilità, la sensatezza, il realismo della proposta da fare sul modo di reinventarsi la vita. Dall’altra si rifuggirebbe il conflitto e lo scontro con quanto, esistendo, distrugge l’unica ed autentica possibilità di reinventarci l’esistenza, travisando una ricerca di benessere, pacificazione e acquietamento, espressioni della logica dell’a poco a poco, dietro una cortina di radicalità e purezza della propria condotta e del proprio mondo relazionale. Le possibilità di vivere ciò che desideriamo sono talmente lontane e incongrue rispetto all’universo di oggi da sfidare qualsiasi tentativo di saperle spiegare con le idee di questo esistente. Come per una chrysaora appena nata è forse impossibile riuscire a descrivere la sensazione del nuoto nell’acqua limpida attraverso l’esperienza della melma del fondo molle.

Il nostro desiderio di essere cerca una lingua dai suoni ormai dimenticati per potersi esprimere con pienezza. Lingua appartenente a mondi ormai tramontati, forse nemmeno mai sorti. Non esistono parole che possano evocare ponti tra presente e futuro. Bisogna saper affrontare la paura, quasi un timore paralizzante, che giustamente ci coglie di fronte all’enormità dello sforzo che comporta avventurarsi sulla strada dell’arte della distruzione.