«Rendiamo omaggio a un vulcano? Alle voci sotterranee che lo annunciano, alla cupa aridità che lo circonda, a quella cappa minerale che improvvisamente si spalanca in un raggio di fulmini che frantuma l'orizzonte?» Annie Le Brun
Lo scorso 8 ottobre, in un incontro con la stampa, il presidente cileno Sebastián Piñera aveva definito il proprio paese «una vera oasi dentro un'America Latina confusa», potendo infatti contare — a differenza dei suoi vicini — su «una democrazia stabile». Solo dieci giorni dopo, venerdì 18 ottobre, davanti alla rivolta che deflagrava nelle strade del paese, è stato costretto a decretare lo stato d'emergenza e a disseminare Santiago e le altre città di militari come non se ne vedevano dai tempi di Pinochet. Questa clamorosa smentita della pacificazione sociale raggiunta è stata subito seguita da un’altra, quella della propaganda statale imperante. Domenica 20 ottobre, spalleggiato dai suoi generali, Piñera spiegava ai giornalisti come i disordini fossero opera di «gruppi violenti... in guerra contro tutti i cileni che vogliono vivere in democrazia. Siamo in guerra contro un nemico potente e implacabile che non rispetta nulla e nessuno». Ma poiché le immagini diffuse ovunque nel mondo stavano semmai dimostrando al di là di ogni possibile dubbio l’esatto contrario, ovvero come «tutti i cileni» (ad eccezione dei tirapiedi del potere) stessero prendendo parte alla protesta, due giorni dopo il presidente ha chiesto pubblicamente «perdono per non aver compreso in tempo il malessere sociale». Ecco qui un magnifico esempio di come ogni sicumera istituzionale, nonostante le sue tronfie apparenze ed i mezzi a sua disposizione, possa rischiare di svanire da un momento all'altro. Pur avendo reso impensabile ogni alternativa radicale all'obbedienza, chi ha forgiato questo mondo a propria immagine e somiglianza non può impedire che la riproduzione della miseria quotidiana venga interrotta. Se non più da una tensione utopica o da un progetto rivoluzionario, almeno dall’imprevisto. Quell’imprevisto che sfugge immancabilmente a chi si ostina a misurare la realtà, a calcolarla attraverso la triste computazione della politica. Che i parametri ed i criteri usati siano istituzionalmente sciatti o sovversivamente scaltri, cosa importa? Resta il fatto che non si incatenano i vulcani. Se già in passato raramente le insurrezioni sono state il frutto della strategia vincente messa in atto da un’organizzazione efficace nel portare avanti la giusta politica, oggigiorno una simile ipotesi può fare breccia solo nella più sinistra dabbenaggine. Ipotesi ridicola da avanzare soprattutto in paesi che vantano una democrazia di stampo più o meno occidentale, laddove la cosiddetta «coscienza di classe» è stata sradicata da decenni di confortevole (tele)consumo — ma dove in compenso può covare una rabbia, un malessere, un'angoscia, una disperazione di vivere, che non sono eliminabili né con un programma di partito da attuare, né con una rivendicazione specifica da reclamare. Si tratta di foschi sentimenti che si accumulano per anni, non certo per presentarsi alla fine a pretendere i dovuti interessi. Il più delle volte si limitano a brontolare in maniera minacciosa, incutendo timori (e suscitando speranze) tanto comprensibili quanto fuori luogo. Ma quando hanno occasione di manifestarsi, lo fanno in maniera terribile. Non attraverso radicati movimenti di lotta dotati della loro brava legittimità politica da sbandierare per raccogliere unanime consenso, ma attraverso inaspettate esplosioni sociali. Improvvise ed incontrollabili, come l'eruzione di un vulcano. È quanto sta accadendo da un mese esatto dall'altra parte dell'oceano, in Cile, dove il magma incandescente si è sparso nelle strade delle città come sui pendii del Nevados de Chillán, incenerendo ogni cosa al suo passaggio. Come tutte le esplosioni sociali, anche questa ha avuto bisogno di un banale pretesto che ne facesse da scintilla. La chispa, in questo caso, è stata l'annunciato aumento del biglietto dei trasporti pubblici durante le ore di punta. È bastato qualche giorno di agitazione, con un rifiuto di massa di pagare il balzello, per spingere il governo a tirar fuori tutta la sua feroce tracotanza. Ancora una volta, l'ottusità di chi detiene il potere si è rivelata un ingrediente fondamentale per la generalizzazione della rivolta. Le maniere forti del generale Javier Iturriaga, unite all'atteggiamento strafottente della classe dirigente, non hanno fatto altro che alimentare ulteriormente la protesta, che è presto dilagata in tutto il paese. Lo stato di emergenza decretato venerdì 18 ottobre da «Piñera cagón» non ha spaventato nessuno. Anziché assistere ad un immediato e scodinzolante ritorno all'ordine, i militari si sono visti circondati ed affrontati da migliaia di uomini e donne che hanno eretto barricate, saccheggiato negozi, incendiato autobus, distrutto stazioni metropolitane, dato alle fiamme palazzi. Settimana dopo settimana, né gli arresti di massa o gli occhi bucati nelle strade, né le torture o gli stupri nelle caserme, sono riusciti a fermare insorti resi forti dalla consapevolezza che non avevano più nulla da perdere a rifiutare la quotidianità imposta (l'urlo di guerra con cui gli insorti cabili avevano aperto il terzo millennio, «non potete ucciderci perché siamo già morti», è stato ripreso a modo loro dagli insorti cileni: «ci hanno derubato a tal punto che ci hanno rubato anche la paura»). Ovviamente il pretesto iniziale della sommossa è stato dimenticato in fretta, motivo per cui il dietrofront del governo sul rincaro delle tariffe non ha calmato affatto gli animi. Ovviamente il governo ha proposto un tavolo di confronto «ampio e trasversale», a cui le forze politiche di sinistra si sono rifiutate di partecipare fintanto che i militari erano in strada. Ovviamente queste stesse forze si sono guardate bene dall'indire subito uno sciopero nazionale per contrastare la repressione statale, dovendo prima appurare di avere davanti un «popolo» da rappresentare, e non pochi «vandali» da legittimare. Ovviamente più la rivolta continuava imperterrita, più i partiti di destra e di sinistra trovavano un compromesso per dare vita ad una Unità Nazionale salvifica delle istituzioni. Tuttavia, fino ad ora la routine politicarda si è rivelata del tutto incapace di placare una rabbia che, non riconoscendo leader, non presta nemmeno margini di manovra al recupero. Alla sua genesi avranno anche contribuito i riverberi provenienti dai rondò in Francia o dalla comune di Quito in Ecuador, ma gli insorti cileni non hanno portavoce pronti a farsi intervistare, né assemblee da cui farsi rappresentare, né confederazioni alle cui decisioni sottostare. E ciò che da un lato getta nel panico la classe dirigente, dall'altro mette in imbarazzo l’aspirante ceto dirigente.
«L'idea che sarebbe possibile “radicalizzare” una lotta importandovi tutto il bazar di pratiche e di discorsi reputati essere radicali disegna una politica da extraterrestri» Comitato Invisibile, "Ai nostri amici", 21 ottobre 2014
«Siamo completamente sopraffatti, è come un'invasione straniera, extraterrestre, non so come dire, e non siamo attrezzati per combatterli» Cecilia Morel, moglie del presidente Piñera, 21 ottobre 2019
Considerato come i fatti che stanno accadendo in Cile siano ricchi di suggerimenti e spunti su cui riflettere per riuscire a pensare l'insurrezione, a cogliere le possibilità da giocare per renderla irreversibile, non ci sembra davvero un caso se vengono taciuti sia dagli organi di Stato che da quelli del contro-Stato. Mentre il presidente Piñera mette al sicuro la sua famiglia mandandola in Australia, i vari militanti di sinistra mettono al sicuro la propria ideologia parcheggiando il loro cervello in Rojava, o avviluppandolo in un gilet giallo. Perché in Cile non c'è un partito rivoluzionario da sostenere, non c'è un leader carismatico da seguire, non c'è un esercito di popolo a cui aderire, non c'è una bandiera da agitare, non c'è un territorio da difendere; e non ci sono nemmeno lotte sociali da far convergere, classi proletarie da ricomporre, movimenti di base da organizzare. Il che spiega il motivo per cui i cantori della conflittualità alternata, del potere parallelo, della destituzione, davanti all'esplosione cilena che sta distruggendo tutto... si limitano ad annotare la brutalità della repressione che ha scatenato. Non si tratta di ritardo storico o di ottusità ideologica. Si tratta, oseremmo dire, di baratro antropologico. Gli abitanti della terraferma ben piantata nell'autorità non sono letteralmente in grado di capire gli abitanti delle stelle fluttuanti nella libertà. Ci sia permesso di fare qui un piccolo esempio. L'incendio di veicoli del trasporto pubblico è una pratica diffusa da anni fra le teste calde cilene, le quali sono state più volte criticate dagli accorti strateghi della rivoluzione (inorriditi da come si potesse fare ricorso ad azioni così poco comprensibili: bruciare degli autobus è vandalismo, non porta nessun consenso popolare!). Ma a partire dal 18 ottobre scorso, ecco che quella pratica acquisiva d'un tratto senso agli occhi di tutti. Ciò che era stato bollato come miopia diventava lungimiranza, e le parole scritte 7 anni fa in proposito da alcuni anarchici belgi («La gran maggioranza degli utenti dei trasporti pubblici li utilizzano per spostarsi da casa verso il lavoro, verso istituzioni, verso appuntamenti con burocrati, verso luoghi di consumo come il supermercato, lo stadio o la discoteca. Ciò fornisce una leggera spiegazione per comprendere l'importanza che il potere attribuisce ad una rete di trasporti pubblici che funzioni decentemente. Lo spostamento, la circolazione di persone è fondamentale per l'economia, per l'esistenza del potere... La mobilità totale e quotidiana della popolazione necessita di adeguate infrastrutture. L'importanza di queste infrastrutture per l'ordine sociale emerge al contrario allorquando queste vengono paralizzate, poco importa la causa: ritardi, caos, disordine, rottura della routine. Si potrebbe definire un terreno fertile per la libertà, ben altro rispetto alla riproduzione quotidiana dei ruoli, del potere, dell'economia... Paralizzare la circolazione orchestrata e condizionata significa null'altro che battersi per la libertà di tutti», Hors Service, n. 24, 7/1/2012) cessavano di apparire una difficile difesa ideologica per rivelarsi una felice quanto facile intuizione. In chi non crede in un progresso lineare che segue ferree leggi storiche — l'idiota determinismo che ha reso i marxisti «la peste della nostra epoca, la maledizione del movimento operaio» — diventa necessario preparare ed attuare fin da subito la rottura con l'esistente. Non attendere la Grande Sera che ineluttabilmente verrà in virtù di chissà quale meccanismo oggettivo, ma cominciare: cominciare, con volontà e determinazione, ad essere e fare ciò che non è mai Stato. Tutto il resto, al di là di chiacchiere più o meno dotte, emana un deciso afrore di riformismo. In un breve video girato nei giorni scorsi per le strade cilene si vede un ragazzo con un megaschermo al plasma ancora imballato sulle spalle che si sta allontanando dopo un saccheggio, il quale viene fermato da altri insorti che gli tolgono dalle mani il lussuoso dispositivo tecnologico per gettarlo nel fuoco fra danze e urla generali di gioia. Il ragazzo aveva capito che una black riot offre opportunità assai maggiori di qualsiasi Black Friday per poter infine godere delle merci più ambite, ma gli altri insorti (nessuno dei quali nerovestito e mascherato, tutti a volto scoperto come persone comuni) hanno capito che il senso della rivolta non è quello di rendere tutti partecipi del consumismo, ma di porre fine al mondo che conosciamo: a cosa può mai servire un televisore quando la rivolta è fuori dall'uscio di casa? A chi interessa lo spettacolo quando davanti agli occhi c'è finalmente la vita? Ora, cosa ci dicono i supermercati devastati, le infrastrutture distrutte, le chiese profanate e devastate, le sedi di tutti i partiti attaccate, le armerie assaltate, i monumenti abbattuti, l'intero paese messo a ferro e a fuoco da migliaia e migliaia di uomini e donne di ogni età, in preda all'inebriante desiderio che nulla possa continuare a funzionare come prima? Svanita l'illusione che si fosse davanti a un effimero sfogo di piazza, si tratta forse di un invito politico a redigere tutti assieme una nuova Costituzione, a ottenere un cambio della guardia nell'esercizio del potere? No di certo. Per creare una vita che sia tutt'altro bisogna, come diceva un poeta alla ricerca dell'oro del tempo, continuare ad avanzare nella sola maniera valida che ci sia: attraverso le fiamme.
Finimondo, 17/11/19