È uscito da pochi giorni un appello che chiama tutte le donne ad una manifestazione nazionale “per l’eliminazione della violenza sulle donne”, che dovrebbe tenersi a Roma il prossimo 26 novembre; un appello incentrato, al di là degli slogan e delle belle parole, sulla richiesta allo Stato di diritti e di “presa di coscienza” delle Istituzioni.
Si dimentica e si omette completamente che cosa sia lo Stato cioè il momento organizzativo del potere e, quindi, del sistema socio-economico-politico, in questo momento, capitalista neoliberista.
La violenza maschile sulle donne e il ruolo che a queste è destinato sono costruiti in maniera assolutamente funzionale a questa organizzazione economica basata sulla gerarchia, sul comando, sull’autoritarismo, sulla meritocrazia, sul controllo. Un organismo economico-politico che ci costruisce a suo uso e consumo, che ci usa come riproduttrici, come destinatarie del lavoro di cura, come lavoratrici quando serviamo e quindi come lavoratrici di serie B perché si arroga il diritto di rimandarci “a casa” in qualsiasi momento, può mai essere un interlocutore? Uno Stato che, attraverso l’emancipazionismo, ha cooptato e continuare a cooptare nella struttura di potere le donne che si prestano, in cambio della promozione sociale e della collocazione di classe, a perpetuare l’oppressione su tutte le altre donne – meccanismo usato anche con i/le migranti e le differenze sessuali –, uno Stato che, attraverso le sue istituzioni, dall’istruzione all’informazione, dalla sanità al lavoro, preposte alla trasmissione dei valori dominanti, ribadisce e impone, in ogni ambito della vita, questa divisione del lavoro e dei ruoli basata sulle differenze di classe, genere e razza, può mai essere un interlocutore di qualsivoglia specie?
Nell’appello si legge: ”Non c’è nessun piano programmatico adeguato. La formazione nelle scuole e nelle università sulle tematiche di genere è ignorata o fortemente ostacolata, solo qualche brandello accidentale di formazione è previsto per il personale socio-sanitario, le forze dell’ordine e la magistratura.” Si pensa davvero, che insegnare la pace nelle scuole, insegni a non fare la guerra? Questi “brandelli accidentali di formazione” non sembra abbiano impedito o impediscano a giudici e polizie di ogni tipo di reprimerci violentemente nelle piazze quando lottiamo per la casa, contro il massacro sociale, contro la distruzione della scuola pubblica, contro il militarismo – che è cultura dello stupro- o contro le guerre umanitarie e la distruzione dei territori. Possiamo mai avviare un’interlocuzione con quelli/e, magistrati e forze dell’ordine, che ci condannano nei tribunali e che hanno il compito di soffocare ogni forma di dissenso?
Le donne non sono oche da cortile che starnazzano in luoghi protetti e che non sanno guardare al di là del loro recinto!
In questo momento storico il neoliberismo, in quanto ideologia a tutto campo, ha rotto il vecchio patto sociale e ha chiuso, in modo unilaterale, ogni spazio di mediazione attraverso il PD, annessi e connessi, che si sono assunti l’onere di naturalizzare la società neoliberista nel nostro paese. In questo scenario, qualsiasi lotta corporativa – com’è la lotta delle donne quando è incapace di connettersi alle altre lotte e cerca, al contrario, il dialogo con le istituzioni – perde di senso in termini di antagonismo e di lotta di classe dal basso e purtroppo ne acquista, sempre di più, in termini di lotta di classe dall’alto. Le lotte corporative che hanno successo oggi sono quelle condotte dai lobbisti per conto delle multinazionali.
Il femminismo non è lotta corporativa, è ben altra cosa! Il femminismo è consapevolezza dei meccanismi che informano l’oppressione e la violenza su di noi ed è quindi alterità a questa società; è ricerca di vie di fuga, è riconoscimento del nemico, è autorganizzazione e autodeterminazione al di fuori di ogni rapporto con le Istituzioni. Non è spartizione di soldi pubblici, non è contrattazione né collusione, non è concertazione, non è vertenza sindacale.
L’appello chiede “ la rapida revisione del Piano Straordinario Nazionale Anti Violenza”
E, così, lo Stato diventa carnefice, giudice, tutore e samaritano delle donne tutte attraverso le donne che si sono prestate e che si prestano ancora.
È dalla fine degli anni ’70 che il c.d. terzo settore è in costante crescita. Una miriade di ong, onlus e associazioni di volontariato si fa carico della realizzazione di “interessi pubblici” e della protezione dei diritti umani e sociali al posto delle istituzioni pubbliche o collaborando con esse. Un modello di rapporti tra cittadine/i e poteri pubblici in cui la partecipazione si paga profumatamente: lo stanziamento di fondi pubblici non è gratuito, ha il prezzo della depoliticizzazione del conflitto sociale. È un modello in cui si fa fatica a riconoscere il significato delle parole ed è facile smarrire la strada della liberazione. Dove riforma significa soppressione delle garanzie e regresso delle conquiste sociali ottenute con la lotta, dove antisessismo significa usare la violenza sulle donne come grimaldello di controllo sociale e leggi securitarie, dove un “movimento delle donne” come SNOQ non era altro che spartizione di posti di potere da parte delle donne che si sono prestate a naturalizzare il neoliberismo nel nostro paese.
Oggi, nella stagione neoliberista, non ha senso chiamare a raccolta tutte le donne perché non tutte le donne sono nostre sorelle, non sono nostre sorelle quelle che fanno il lavoro sporco di licenziare, dall’alto delle loro posizioni acquisite/privilegiate, altre donne, quelle che reprimono e condannano forti di una divisa o di una carica istituzionale, quelle che giustificano le guerre umanitarie, quelle che medicalizzano tutte le altre, quelle che partecipano, da posti di responsabilità negli ospedali e mimetizzate con il camice bianco dell’emancipazione, alla guerra alla 194, quelle che propagandano l’ideologia dominante e partecipano attivamente all’oppressione e alla violenza, questa sì, su tutte le altre donne e sugli oppressi tutti..
Per questo è necessario resistere, opporre resistenza personale, interpersonale, politica alla marea montante della normalizzazione e rimanere fortemente ribelli alle molteplici oppressioni, renitenti alla chiamata della leva, ferme nel nostro pensare femminista con una lucidità che respinge la disperazione, la delusione.
Tutto quello che è stato ottenuto con le lotte degli anni ’70 non è stato ottenuto perché è stato chiesto o contrattato, ma perché il femminismo diceva e voleva altro: voleva la luna, il sole, la vita, perseguiva il sogno della liberazione e si era autorganizzato al di fuori di ogni struttura istituzionale. Ed è proprio per questo che il potere ha tolto l’acqua ai pesci dando contentini e concedendo “diritti”, consultori pubblici e 194, proprio per riportare al controllo e alla ragione un movimento che non ne voleva sapere. E, in questo modo, è stato dato un colpo mortale al femminismo perché alcune in buona fede e alcune in cattiva hanno avallato la scelta istituzionale, hanno accettato la delega e la vittimizzazione, il controllo delle esperte e degli esperti, hanno riportato le donne sotto il controllo dello Stato.
Un controllo “moderno” e “partecipativo”… pericolosissimo!
Insieme a tutte le donne e alle compagne che rifiutano la delega, che continuano a lottare per la propria autodeterminazione, che si prendono ciò di cui hanno bisogno, che conquistano a spinta i propri diritti, che si autodifendono e si autorganizzano contro la violenza di genere esercitata dalle istituzioni, dagli uomini e dalle donne, insieme alle donne vessate dalla magistratura e richiuse in carcere o nei c.i.e., insieme a tutte quelle che si oppongono alla militarizzazione dei territori, alle “guerre umanitarie”, alle speculazioni e alle nocività, che siano un tav, un muos, un inceneritore o lo sfruttamento lavorativo, insieme a tutte quelle che ancora vogliono la luna.
Rimanere rivoluzionarie è il solo modo di costruire strade di liberazione.
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