Vai al contenuto

Chi più, chi meno

L'articolo che segue fu scritto in occasione dell'attacco al mondo occidentale, quella volta extra-europeo, del 2001; l'importanza dello scritto, a fronte del nuovo frammento di guerra globale che ha scelto Parigi per rendersi visibile, risulta quanto mai attuale.

Fino a quel giorno, potevamo godere in tutta tranquillità — chi più, chi meno — dei privilegi insiti nell'essere nati e vissuti nella parte giusta del pianeta, vale a dire in occidente, dove un tetto sulla testa e un pasto caldo non è negato "quasi" a nessuno. Sì, avevamo più volte sentito dire che il nostro benessere aveva come contropartita la miseria di miliardi di altre persone. Ma queste persone — peraltro tanto diverse da noi — erano altrove, a migliaia di chilometri di distanza e, come vuole il detto, lontano dagli occhi...
Quando qualcuno di loro, affrontando terribili traversie, osava spingersi fino a noi ed allungare le mani per elemosinare (o per rubare), non dovevamo fare altro che chiudere gli occhi (o chiamare la polizia). Poi tutto tornava come prima. È vero che all'ora di pranzo, tra un boccone di carne ed un bicchiere di vino, la televisione ci metteva sotto gli occhi immagini di guerre, carestie, fame e distruzione. Ma perché rovinarsi un buon pasto, quando è così facile togliere l'audio o cambiare canale? Quanto ai giornali, bastava limitarsi a leggere le pagine dello sport e degli spettacoli. Naturalmente, non tutti hanno mostrato tanta indifferenza verso i mali del mondo.
C'è anche chi, confondendo il cuore col portafoglio, ha mostrato la propria generosità facendo versamenti su conti correnti intestati ad associazioni umanitarie. Se non si può nutrire lo stomaco del povero, che si nutra almeno la coscienza del ricco.
Comunque, in questi ultimi anni, malgrado una certa reticenza eravamo tutti a conoscenza dei feroci conflitti che stavano insanguinando la Palestina, il Ruanda, la Somalia, la Bosnia, l'Algeria, il Kosovo... ma a noi, per far regnare la pace almeno in noi stessi, bastava eliminare questi luoghi dalla lista delle possibili località dove trascorrere le prossime vacanze. La guerra — coi suoi bombardamenti, le sue vittime, le sue macerie, i suoi posti di blocco, la sua crudeltà — non era cosa che ci toccasse, non era cosa capace di mettere in dubbio la tranquilla replica quotidiana della nostra esistenza. 
Fino allo scorso 11 settembre, appunto. Fino ad allora pensavamo che la "globalizzazione" comportasse solamente la crescita e l'espansione degli scambi commerciali, la penetrazione delle multinazionali nel mondo intero. Ci era stato assicurato che vivere in un "villaggio globale" prevede solo benefici, come quello di poter andare a fare la spesa tutti nello stesso ipermercato, dove è possibile trovare proprio di tutto. Pagato lo scontrino, ognuno poi se ne doveva tornare a casa propria (chi nella villa e chi nel tugurio), alla vita di sempre (chi nell'agio e chi nella sofferenza). Ma qualcuno non è stato d'accordo ed ha ritenuto che, se in oriente si deve consumare lo stile di vita occidentale, allora anche l'occidente doveva assaporare lo stile di vita orientale.
Come stupirsene? Del resto, se si fa di tutto per consentire che la Coca-Cola si possa bere a New York come a Gerusalemme, non si può certo impedire che gli attentati possano fare strage a Gerusalemme come a New York. Così lo scorso 11 settembre tutti abbiamo capito che ad essere onnipresente sull'intero pianeta non sono solo le merci, è anche il terrore con cui vengono imposte. Quel giorno tutto il mondo occidentale ha vissuto ciò che da molti anni si vive quotidianamente, nella parte sbagliata del pianeta: si contano i morti, si scava tra le macerie, si grida vendetta. È la guerra. Ma questa volta non si svolge lontano da noi, bensì fuori dalla nostra porta di casa.
[Hapax, febbraio 2002]