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Atene, Grecia: Ribellione ogni ora, manifestazione ogni giorno

Mercoledì 31 luglio 2019, durante la rivolta nel quartiere di Exarchia (ad Atene) contro la scarcerazione dello sbirro che uccise Alexis Grigoropoulos, di 15 anni, alcuni membri di un gruppo politico hanno interferito con la continuazione della rivolta e hanno tentato di fermarla in via Arachovis.

Lo stesso gruppo politico, che senza motivo attacca gli immigrati a Exarchia, sta chiaramente cercando di controllare la piazza di Exarchia.

Li abbiamo avvertiti di smettere di attaccare gli immigrati senza motivo, altrimenti si troveranno faccia a faccia con noi. Devono interrompere la loro attività contro le rivolte a Exarchia e devono smettere di nascondersi dietro la copertura politica per le attività [riguardanti] gang e teppisti.

Questi gruppi, che si nascondono dietro la copertura politica, non stanno facendo attività contro la mafia, ma stanno attaccando gli immigrati senza motivo.

Molto chiaramente, ciò che questi gruppi stanno facendo è simile al modo in cui gli sbirri si comportano contro gli immigrati.

Per noi è chiaro, se tu, come immigrato, lavori per loro e loro guadagnano da te, non c’è problema nei tuoi confronti, ma se tu (come immigrato) non collaborerai con loro, verrai attaccato con la scusa di essere un criminale.

Steki degli anarchici migranti (via Tsamadou 19, quartiere Exarchia, Atene)

[Tratto e tradotto a partire da actforfree.nostate.net].


Atene, Grecia: Le proteste contro la scarcerazione del poliziotto che uccise Alexis Grigoropoulos si trasformano in rivolta

La scarcerazione di Epaminondas Korkoneas è arrivata dopo che un tribunale, lunedì 29 luglio 2019, ha ridotto la sua sentenza dall’ergastolo per omicidio premeditato a soli 10 anni di carcerazione, sulla sola base di un buon comportamento prima dell’omicidio, il che significa che qualsiasi poliziotto greco può sparare e uccidere bambini perché in precedenza non hanno mai ucciso nessuno. Un altro aspetto oltraggioso del caso è che l’ergastolo è stato ridotto a 10 anni nonostante il fatto che pochi anni fa, durante un processo, ha dichiarato pubblicamente in tribunale che “non chiederà perdono a un ragazzo di 15 anni per avergli sparato”. Allo stesso tempo Vasilis Saraliotis, che era di pattuglia con Korkoneas nella notte dell’omicidio, è stato reputato innocente di qualsiasi crimine, nonostante il fatto che non avesse fatto nulla per impedire al suo collega, accanto a lui, di sparare.

L’omicidio di Alexis Grigoropoulos che ha scatenato la rivolta del dicembre 2008.

6 dicembre 2008, pochi minuti dopo le 21:00 – Punto d’inizio della rivolta di dicembre. Due poliziotti estraggono le loro armi e uno di loro spara contro un gruppo di giovani che vanno in giro il sabato sera, nel cuore del distretto di Exarchia, nel centro di Atene, un’area con una lunga storia di rivolta contro l’autorità e di rivolte per ragioni socio-economiche e politiche, abitata principalmente da anarchici, anti-autoritari e liberali. Il proiettile della polizia arriva nel cuore e uccide il 15enne Alexandros Grigoropoulos.

Non appena la notizia dell’uccisione di Alexis si diffonde, principalmente attraverso internet, centinaia di persone del resto di Atene si radunano a Exarchia, circondata da centinaia di poliziotti antisommossa, che a loro volta infuriano ulteriormente le persone e il quartiere va rapidamente “in fiamme”, con barricate fiammeggianti e attacchi con pietre contro la polizia, durate per tutta la notte.

Quasi dalla stessa notte, la rivolta di Exarchia si diffonde in tutta la Grecia, con attacchi contro le caserme di polizia, anche nei villaggi greci. Proteste e manifestazioni, che si intensificano nella diffusa rivolta in Grecia, tutti i giorni e le notti per le settimane a venire, mentre gli edifici pubblici vengono occupati dai manifestanti in decine di città e paesi.

Al di fuori della Grecia, manifestazioni di solidarietà, rivolte e scontri con la polizia hanno luogo anche in oltre 70 città del mondo, tra cui Londra, Parigi, Bruxelles, Roma, Dublino, Berlino, Francoforte, Madrid, Barcellona, Amsterdam, L’Aia, Copenaghen, Bordeaux, Colonia, Siviglia, Sao Paulo, comprese Nicosia e Paphos a Cipro, dimostrano per la prima volta, prima della “Primavera araba” che le persone possono diffondere le notizie e reagire attraverso proteste, in tutto il mondo, per la stessa questione, da San Francisco a Wellington, da Buenos Aires alla Siberia.

Mentre i disordini sono stati provocati dall’omicidio di Alexis Grigoropoulos da parte della polizia, le reazioni sono durate così a lungo semplicemente perché sono state radicate in cause più profonde, come la crisi finanziaria in arrivo un anno dopo (in Grecia), che era già stata avvertita dalle classi più povere e dalle generazioni più giovani attraverso l’accrescimento del tasso di disoccupazione e un sentimento di generale inefficienza e corruzione delle autorità, delle istituzioni e dei politici di destra dello Stato greco (principalmente i partiti politici “Nuova Democrazia” e “PASOK”).

[Tratto e tradotto a partire da actforfree.nostate.net].

fonte: insuscettibilediravvedimento.noblogs.org

No, anche se non sarà Auschwitz a distruggere il mondo bensì Hiroshima, da un punto di vista morale Auschwitz è stato incomparabilmente più orribile di Hiroshima. Lo sottolineo perché, sfogliando i miei appunti, sono sfiorato dal sospetto di essermi accostato ad Auschwitz con il pregiudizio che quella che consideriamo una forma di genocidio valga anche nell’altro caso. Non è vero. Al confronto dei responsabili di Auschwitz – e furono molte migliaia – i piloti che volarono sul Giappone furono degli angeli. Se sia stato un «passo in avanti» è un’altra faccenda.

Nel caso di Hiroshima – e ciò vale per gli odierni «missili nucleari» più ancora che per le bombe del 1945, pur sempre sganciate dall’alto sui luoghi di morte – ci fu per così dire solo il bottone premuto: uomini che rimasero dunque molto distanti dagli effetti del loro gesto (in questo caso, dal mero azionare la leva), distanti come oggigiorno è distante dai risultati finali del suo lavoro il 99 per cento dei lavoratori. Di fatto, con l’invenzione dei missiles il concetto di luogo del crimine ha perso di significato. In origine l’espressione definiva il luogo dell’azione e della sofferenza. Questa syntopia – il cui superamento ha avuto inizio con la scoperta delle armi da fuoco – si realizza ormai molto di rado. Un missile lanciato dall’Oceano Pacifico può produrre i suoi effetti in Siberia. Dov’è dunque il luogo del crimine? Qui o là? Dobbiamo introdurre il concetto di schizotopia come categoria fondamentale della moralità o dell’immoralità di oggi. In ogni caso, i due piloti della Air Force che sganciarono le bombe sulle due sventurate città non solo non umiliarono e non torturarono per anni centinaia di migliaia di vittime, com’era normale ad Auschwitz, ma neppure le videro, anzi neppure le immaginarono. E quando dico che le loro mani rimasero pulite, non intendo pulite come le mani di Eichmann e complici: giacché i piloti non elaborarono mai un programma di sterminio, né tantomeno trascorsero il loro tempo a predisporre in modo scrupoloso e dettagliato i piani per il buon esito quotidiano della produzione di cadaveri. E ancor meno i piloti che presero parte alle missioni possono essere messi sullo stesso piano delle migliaia e migliaia di SS e dei loro «aiutanti», le cui azioni si svolsero direttamente sul luogo del crimine e consistettero di continue brutalità dirette, come torturare, fare le «iniezioni letali» o spingere a forza dentro gli stanzoni delle «docce». E tantomeno si può sostenere che i piloti di Hiroshima avessero partecipato alle missioni perché sadici o perché avessero appreso il piacere di uccidere – non ne avrebbero avuto il tornaconto. Né tantomeno che si fossero trasformati in mostri con le loro azioni (la singola azione di sgancio) o con infamie quotidiane. Ciò che accadde a Hiroshima e a Nagasaki fu un omicidio di massa senza assassini e fu perpetrato senza alcuna malvagità.

Tutto questo non vale però – la linea di demarcazione tra i due metodi di sterminio non può essere tracciata in modo sufficientemente perspicuo – per gli assassini di Auschwitz. Non esiste solo l’innocenza del male (Eatherly¹) e la banalità del male (Eichmann), ma anche – anzi non «anche», ma «soprattutto» – la malvagità del vero male, o di chi è diventato o è stato reso ineluttabilmente malvagio dalla consuetudine con il male. Costoro – e ciò li differenzia radicalmente dagli assassini di massa nel senso di Eatherly – non furono capaci di vedere né il male esercitato giorno dopo giorno come full time job con le umiliazioni continue, con le torture, le «iniezioni letali» ecc., né la loro irrevocabile metamorfosi in esseri malvagi. Ormai non potevano più rendersi conto di come il vivente non fosse per loro null’altro che l’ancora torturabile (questa la segreta definizione di «vita» nel lager) e come questo fosse il loro modo di trattare concretamente gli esseri umani, e come non solo agissero così o potessero agire così, ma dovessero agire così (il che ebbe un unico esito, che Himmler celebrò come «fermezza» eroica di cui essere fieri). E non potevano più rendersene conto perché il male non era più distinguibile dal fondale di un universo quotidiano moralmente indifferente, essendo divenuto esso stesso il mondo («le monde concentrationnaire»), il mondo normale e quotidiano nel quale a essere fuori luogo erano i comportamenti e le parole non infami e non bassamente triviali (così come le intendiamo noi quotidianamente). La frase «buona notte» sulle labbra di una SS sarebbe apparsa una mostruosità nell’inferno di Auschwitz (tra l’altro «inferno» è una parola fin troppo misurata, dal momento che rimanda all’inferno classico come luogo di punizione per i malvagi – definizione che i nazisti avrebbero sottoscritto, in quanto coloro che avevano rinchiuso nei lager «erano stati puniti» per il male innato di essere ebrei, zingari o marxisti).

Che tutto ciò non riguardi gli esecutori coinvolti nel crimine atomico, e che gli Eatherly sovrastino di gran lunga, anzi non siano moralmente paragonabili alle SS, non significa naturalmente che le loro azioni siano state meno orribili. Hiroshima fu, infatti, incomparabilmente peggiore di Auschwitz: quando un uomo è in grado di sterminare nella frazione di un secondo duecentomila suoi simili (oggi milioni), le duemila SS, le quali potevano eliminare solo «peu à peu» milioni di persone, risultano al suo confronto (mi si perdoni il termine) inoffensivi. Il rischio atomico minaccia infatti l’esistenza dell’umanità nel suo insieme – cosa che non si può affermare dei campi di sterminio. Mentre le armi atomiche sono letteralmente «apocalittiche», i lager furono o sono «apocalittici» solo in senso metaforico. In confronto ai moderni metodi di annientamento, ciò che accadde nei lager nei tre anni che precedettero Hiroshima fu (ho delle remore a scrivere la parola) innocuo. La tecnologia e l’output del sistema concentrazionario, in confronto allo standard tecnico e alle prestazioni potenziali delle installazioni missilistiche di oggi, furono ancora grezze e basate sul paradigma del XIX secolo. Ciò che gli impianti concentrazionari «producevano» nel corso di una sequenza di lavoro non erano centinaia di migliaia o milioni di morti ma (esito di nuovo) «solo» centinaia.

Non c’è dubbio: il «futuro» appartiene allo sterminio più moderno (posto che la parola «futuro» si possa applicare ad apparati che generano mancanza di futuro). Peraltro tutto ciò non esclude che nei paesi ancora non completamente industrializzati Auschwitz continui a essere un modello per lungo tempo. I governi che non sono ancora giunti al punto di materializzare Hiroshima si accontenteranno di installare «Auschwitz». Anche il principio-Auscwitz ha dunque ancora un futuro, visto che «il futuro non è iniziato dappertutto». I due sistemi di genocidio, quello moderno e quello non ancora del tutto moderno, continueranno a «sovrapporsi» per lungo tempo, almeno fino a quando ci sarà concesso di sopravvivere.

Günther Anders

[19 marzo 1979]

¹: Claude Eatherly (1918-1978) prese parte alla missione che sganciò la bomba atomica su Hiroshima il 6 agosto 1945.

Ad eccezione degli zeloti del progresso — beati e beoti nella loro percezione di un tempo storico che si autoriproduce automaticamente al ritmo di leggi immanenti, quindi imprenscindibili, portando l'umanità di trionfo in trionfo — nessuno dorme più tranquillo. Gli stessi apprendisti stregoni che compongono la comunità scientifica sono in subbuglio. C’è chi è preoccupato per il surriscaldamento globale e chi per l’estinzione della flora e della fauna, chi per l’avvelenamento dell’acqua e chi per l’inquinamento dell’aria, chi per la comparsa di nuove malattie resistenti ai farmaci e chi per la sofisticazione degli alimenti, chi per la penuria di petrolio e chi per il cretinismo generato dalle tecnologie digitali… e tutti quanti per l’ingresso nella stanza dei bottoni di cialtroneschi Ubu, intelligenti e sensibili come il cemento. Da qualsiasi punto la si guardi (politico, economico, sociale, ambientale), la situazione appare fuori controllo. Scongiurata la minaccia dell'utopia rivoluzionaria, il vecchio mondo sta crollando sotto la sicurezza del realismo riformista. Il privilegio è salvo, la sopravvivenza biologica no. Con la sua ossessione di soggiogare, dominare e saccheggiare ogni terra, ogni acqua, ogni aria, ogni flora e ogni fauna — il potere della ricchezza, la ricchezza del potere — l’essere umano ha dato il via alla sesta ed ultima estinzione di massa. Ultima, perché questa volta non sarà causata da un evento esterno che si abbatterà sul pianeta, ma sarà provocata direttamente dall’attuale organizzazione sociale. Ad esempio l’attività industriale, diretta a produrre merci tanto confortevoli quanto superflue, fa scomparire una specie animale o vegetale ogni venti minuti, contaminando ogni cosa. Lo Sviluppo, feticcio moderno, si configura sempre più palesemente come un vero sterminio della biodiversità. Ma davanti a questa brutale realtà che ormai nessun esperto osa negare, solo in pochi ricordano — non come futile balocco accademico, ma in quanto necessaria lanterna da viaggio — il monito lanciato alla vigilia della seconda guerra mondiale da un intellettuale: «che tutto continui così è la catastrofe. Essa non è ciò che di volta in volta incombe, ma ciò che di volta in volta è dato». La catastrofe non ci aspetta dietro l'angolo, ci precede e ci accompagna quotidianamente.  La catastrofe non è il rischio della prossima guerra, con gli esodi che provocherà: la catastrofe sono gli eserciti che si addestrano, le industrie belliche che producono. La catastrofe non è la possibile fusione di un reattore atomico: la catastrofe è un sistema sociale talmente energivoro da esigere il ricorso al nucleare. La catastrofe non è il buco dell'ozono provocato da un industrialismo mai sazio: la catastrofe è la voragine scavata nell'intelligenza, nella coscienza e nella sensibilità dall'apologia del lavoro e dal culto dell'economia. La catastrofe non è l'abuso di potere: la catastrofe è l'esercizio del potere. Non è ciò che potrebbe accadere, è ciò che accade tutti i giorni sotto i nostri occhi. Perché non reagiamo davanti a tutto questo? In parte perché l’illusionismo estetico della democrazia consiste nell’occultamento della sua catastrofe permanente sotto le belle coltri del consenso. La socialdemocrazia è una neutralizzazione dei conflitti. Come è stato fatto notare oltre un secolo fa, «tutti devono avere diritto alla parola, chiunque se la deve passare bene: la “sana” maggioranza parla, i più nobili imbecilli tengono discorsi e, soprattutto, ogni cosa procede piana e liscia — con bei passaggi — con l'aggiunta di piccole lotte economiche e di una graziosa dinamica. Visto da vicino, tutto si compie in modo catastrofico, ma inoffensivo all'interno della catastrofe, oppure per imitazione. Queste stesse catastrofi sono estremamente graduate, perdono dunque efficacia e rivelano una noia penosa. Le catastrofi: come sono razionali!». Talmente razionali da suscitare nella loro graziosa dinamica al massimo la manfrina dell'indignazione e della civile protesta: «il segreto di tutte le lotte attuali è che esse portano immancabilmente il confronto — il compromesso democratico — in cui ambedue le idee (l'essenziale) vengono sempre vergognosamente offese di comune accordo; in cui l'Umano e ciò che muove l'uomo è appiattito e deformato. Ecco in definitiva il senso del parlamentarismo». C'è poi un'altra ragione per cui si rimane inerti davanti alla catastrofe. La diffusa analogia fra la nostra civiltà e il Titanic di quella notte fra il 14 ed il 15 aprile 1912 non nasce soltanto dalla corrispondenza fra la società tecno-scientifica odierna e quel capolavoro ed orgoglio della tecnologica navale dell'epoca, inabissatosi dopo l’urto contro un blocco di ghiaccio. È anche frutto di una segreta e comoda speranza circa l'esito finale: in fondo, circa un terzo delle persone che si trovavano a bordo della celebre nave sopravvisse (vero è che nel 1912 venne lanciato l'S.O.S e giunsero sul posto altre imbarcazioni a prestare soccorso, mentre oggi... oggi non arriverebbe nessuno). Ma se dessimo per scontato che la metafora è adatta — ebbene sì, siamo a bordo del Titanic che sta imbarcando acqua — allora cosa ne dovremmo dedurre? Che il nostro destino è già segnato e qualsiasi decisione si prenda su cosa fare nel tempo che ci resta è del tutto irrilevante. Davanti all'inevitabile catastrofe, una reazione vale l'altra. Di fatto non ci sarebbero differenze sostanziali fra l'andare in cerca del comandante per rompergli le ossa, stordire l'angoscia della morte attraverso distrazioni e divertimenti, oppure chiudersi in cabina soli o assieme a chi si ama. Se tutto è vano, se non sono più rimaste possibilità da giocarsi oltre a salire con calma sulle scialuppe di salvataggio — la scelta fra barricata insurrezionale, salotto edonista ed orto monacale diventa frutto di una sfumatura caratteriale, una questione di attitudine personale.  «Come si fa a non arrabbiarsi, con quello che sta per accadere?», domanda il ribelle. «Come si fa a non volersi divertire a più non posso, con quello che sta per accadere?», domanda il gaudente. «Come si fa ad agitarsi tanto, con quello che sta per accadere?», domanda l'eremita. Non si tratta forse di domande più che sensate, tutte quante, nessuna esclusa? E non è forse vero che le risposte si escludono a vicenda? Ecco come l'indifferenza possa dilagare persino dopo la percezione della catastrofe, come accadde a quei passeggeri del celebre transatlantico che usarono i pezzi di ghiaccio scaraventati dentro il salone per raffreddare i loro drink.  

Ma se invece consideriamo un’altra metafora che viene spesso usata per descrivere la situazione attuale, quella del treno lanciato a tutta velocità verso il baratro, le cose cambiano. Perché è solo quando precipiteremo nel vuoto che sapremo con certezza che è davvero finita. Altrimenti, e fin quasi all'ultimo istante, resta sempre una possibilità: tirare il freno d'emergenza. La brusca frenata farebbe sobbalzare i viaggiatori distogliendoli dal loro chiacchiericcio, dai loro affari, dal loro torpore post-digestivo? Sì, e allora? I loro bagagli volerebbero a terra, subendo danni più o meno gravi? Sì, e allora? Una serie di frenate irriterebbe chiunque a bordo desideri arrivare, senza scossoni e il prima possibile, a destinazione? Sì, e allora? Alla folle velocità con cui si sta correndo, con una frenata troppo improvvisa si rischierebbe un deragliamento che potrebbe avere conseguenze micidiali? Sì, e allora? L'alternativa è comunque certa ed è assai peggiore: il baratro, che inghiottirà tutto e tutti indistintamente. Ecco perché i politici di tutte le risme ed i passeggeri di tutte le ansie possono anche fare a meno di ribadire le loro rispettive ragioni affinché tutto continui come prima. Conosciamo a memoria l’indignazione del Partito delle Persone Dabbene contro chi cerca di rallentare la corsa del treno. Il furore del Primo Sbirro d’Italia contro i sabotatori «che hanno rovinato una giornata di lavoro a decine di migliaia di italiani» ricorda quello dei Lord inglesi di fronte a quello che viene considerato il primo sciopero generale della storia, nell’estate del 1842 in Inghilterra. Ma come ammette persino qualche storico, «a partire dall’invenzione dello sciopero generale nel 1842, il blocco dei rifornimenti energetici si è più volte rivelato una forza dei deboli, un’arma del movimento sociale ed una festa emancipatrice». Quanto sono patetici tutti i piccoli servitori volontari «liberi di obbedire» che non si oppongono — anzi, collaborano attivamente! — alla grande catastrofe quotidiana, quando si lamentano del fastidio arrecato all’industria (del tempo forzato come del tempo libero) da un piccolo blocco temporaneo dell’alienazione. Patetici come i fini strateghi dell’altro-Progresso-per-un-altro-Stato, i quali, bramosi di arrivare in testa al treno per prendere possesso del quadro di controllo, vorrebbero prima convincere gran parte dei passeggeri a schierarsi dalla «propria» parte, dimostrando loro oggettivamente la necessità di invertire il senso di marcia. È una osservazione priva di senso. La cabina dei comandi è blindata, non si apre «come una scatoletta di tonno», e ad ogni modo non c'è più tempo per impadronirsi del treno: si può solo farlo fermare.  Il freno di emergenza è in tutti gli scompartimenti, basta tirarlo. Con intelligenza, con attenzione, con determinazione. Con una forza autonoma, univoca, intransigente. Che la grande catastrofe sorda e invisibile della quotidianità venga infine disvelata e fermata da una piccola catastrofe volontaria dotata di una evidenza incalzante.    

[27/7/19]  

https://finimondo.org/

Aggiornamento delle ore 16: Divine è libero. Continuiamo ad odiare Salvini e il mondo che produce.

PRESIDIO AL CPR DI BARI SABATO 20 LUGLIO IN SOLIDARIETÀ A DIVINE E A TUTTI I RECLUSI

Lunedì 15 luglio verso le ore 13 la polizia si è presentata presso l’abitazione di Divine per condurlo in questura, dove gli è stato notificato un inaspettato decreto di espulsione ad personam, firmato direttamente dal ministro Matteo Salvini.

Nonostante il compagno vivesse in Italia da una ventina d’anni e avesse tutte le carte in regola per la sua permanenza, attraverso un’udienza per direttissima il giudice ha convalidato la misura di espulsione, appellandosi a denunce varie, tra cui la finalità di terrorismo da cui Divine era stato assolto anni fa. Gli è stata quindi data, su richiesta dell’avvocato, un’ora di tempo per prendere dei vestiti e un telefono, che gli è stato sequestrato, ed è stato caricato su un’auto diretta all’aeroporto di Milano Malpensa, dove è stato tenuto in regime amministrativo presso gli uffici della Polizia di Frontiera in attesa dell’esecuzione dell’espulsione, esecutiva dalle 18.53 di lunedì (orario di termine dell’udienza) e da effettuare entro le 48 ore successive.

E’ subito girata la voce tra compagni e compagne, amici ed amiche, e una sessantina di persone si sono recate a Malpensa nel pomeriggio di martedì 16 luglio, dove alle 19.10 un aereo della Air Italy, diretto a Lagos (Nigeria), sarebbe dovuto partire con a bordo Divine. I solidali presenti si sono mossi in piccoli cortei all’interno dell’aeroporto con striscione e megafono, sempre ovviamente seguiti da un ingente concentramento di digos, finanza, polizia e carabinieri, informando tutti e tutte dello scempio che stava per avvenire e bloccando in alcune occasioni i gate d’imbarco. Nel frattempo gli avvocati hanno preparato una serie di ricorsi, tra i quali uno in particolare diretto alla Cedu (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo), per sospendere l’ordinanza ministeriale, viziata da diverse irregolarità tra cui il fatto che Divine è stato assolto dai reati su cui è basato il provvedimento di espulsione. La Cedu ha infatti considerato la situazione di Divine urgente e ha accolto il ricorso sospendendone l’espulsione, ma è a questo punto che è entrato in scena il subdolo gioco del Ministero dell’Interno: nonostante Strasburgo avesse accettato il ricorso degli avvocati tramite una sentenza esecutiva di sospensione, le autorità presenti nell’aeroporto per un giorno intero si sono rifiutate di dare garanzie riguardo alla non deportazione di Divine e alla sua liberazione. Le procure di Bologna e Milano, la polizia di Malpensa e il Ministero dell’Interno si sono rifiutati di dire agli avvocati in che stato fosse il compagno e dove si trovasse. Solo in tarda serata è giunta la notizia che Divine non era stato rimpatriato, questa è stata l’unica notizia che ci è giunta.

Ma non finisce qui: la mattina del 17 luglio Divine riesce a trovare il modo di contattare dei compagni e delle compagne, raccontando di essere stato trasferito la sera precedente nel CPR di Bari, informato della sospensione della sua deportazione solo poco prima del trasferimento. Alcune ore dopo veniamo informati che Divine si trova in udienza con un avvocato d’ufficio – riguardante il mantenimento dello stato di detenzione nella gabbia barese – alla quale però il compagno rifiuta categoricamente di presenziare, richiedendo di essere difeso dai propri avvocati. Il giudice ha accolto il rinvio e l’udienza è stata quindi rinviata a venerdì 19 luglio alle ore 9, giorno in cui saranno presenti i suoi legali.

Conosciamo Divine, la sua forza, il suo coraggio, la sua determinazione e sappiamo che non si farà piegare da questo ennesimo sopruso, sappiamo che il suo morale è abbastanza alto. Non è un caso che sia stato mandato proprio presso il CPR di Bari, uno dei lager peggiori d’Italia se non il peggiore, conosciuto per la violazione dei diritti umani, la segregazione e le torture vessatorie che lo rendono agli occhi di tutti una struttura duramente punitiva in cui spesso vengono deportati migranti ribelli.
In questi giorni la solidarietà dei compagni di varie città è stata forte e tempestiva e ha reso chiaro a sbirri e magistrati che Divine non è solo e che le loro sporche manovre almeno in questo caso non passeranno sotto silenzio. Ora è importante che la nostra voce si alzi ancora di più contro le mura di quella fottuta gabbia, per Divine e per tutti coloro che ogni giorno, circondati dal silenzio e dall’indifferenza vigliacca della gente, vengono privati della libertà perché poveri, indesiderabili, colpevoli di aver varcato una linea immaginaria chiamata confine. Per tutto questo sabato pomeriggio alle 17:00 saremo a Bari con un presidio davanti al CPR chiediamo a tutti, compagni amici e solidali di venire numerosi.
Sappia il signor ministro e la sua corte che dovunque lo trasferiranno per allontanarlo dalla solidarietà noi saremo lì, e saremo anche nelle nostre città, nelle strade o in qualsiasi luogo ci andrà a genio a reclamare la liberazione immediata del nostro compagno.

Anche quando potremo riabbracciarlo di nuovo non smetteremo di tornare sotto quelle mura, davanti a quelle sbarre identiche a quelle di altre infami gabbie sparse per la Fortezza Europa, per portare avanti con ogni mezzo possibile la lotta contro il sistema che le ha rese e le rende possibili ogni giorno.

A TESTA ALTA, SENZA PAURA DELLA REPRESSIONE, FINCHE’ DI GABBIE E CPR NON POSSANO CHE RIMANERE SOLO MACERIE.
DIVINE LIBERO, TUTTI LIBERI, TUTTE LIBERE!

Per aggiornamenti ricordiamo che venerdì mattina ci sarà l’udienza che deciderà in merito alla sua detenzione presso la struttura barese e anche se Divo verrà rilasciato il presidio davanti al CPR avrà luogo ugualmente.

Compagn* di Divine