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Vi proponiamo un testo uscito sul primo numero di Negazine che ci interroga sulla brutalità di questo mondo, anche alla luce di quello che sta succedendo in Grecia sulla questione di muri, gas lacrimogeni, droni e respingimenti contro gli indesiderabili. Il massacro di Erdogan continua, ben aiutato dalla collaborazione di morte dell'Europa. Le immagini che arrivano da Lesbo sono agghiaccianti. Per chi ancora prova sensibilità ciò non può che colpire duramente il proprio animo.

Il “diverso” ha sempre impaurito i sogni dei benpensanti, colorendo il loro dramma interiore con le assurdità più atroci. Egli si aggira nella notte, sia nero di pelle o ambrato, con gli occhi a mandorla o il naso camuso, non ha importanza, è sempre lui, il portatore di discrepanze e disordini. Eccolo pronto a privarci della nostra gioia, sia pure modesta e strappata con i denti. Egli non la possiede e non la può capire. Al massimo, nella sua disperazione, può accontentarsi di qualche briciola caduta dal nostro desco, e in fondo dovrebbe essere contento di tanta magnificenza.

Sia pure con molte lamentele siamo orgogliosi di come stiamo, ci avvoltoliamo nel truogolo con la concupiscenza dei maiali e sogniamo di migliorare ciò che possediamo. Siamo così intenti a difendere la nostra miserrima vita che non ci accorgiamo di diventare sempre più pallidi e timorosi. Non si tratta soltanto di coloro che sono al limite della miseria, che hanno paura di piombare come sassi nel buio della completa indigenza, ma anche i cosiddetti ricchi hanno le stesse paure, solo collocate a un livello diverso. I benestanti pensano a come difendere il proprio benessere e, in questo pensare tortuoso, non trova posto la preoccupazione di fare veramente qualcosa per il “diverso”. Quando ci si indigna per i tanti morti in mare, nel disperato tentativo di approdare nelle coste contrassegnate dal benessere (si fa per dire), si soddisfa questa indignazione, mettendo a tacere il proprio animo sconvolto per la morte di tanti bambini, finanziando in parte – in piccola parte, visto che di regola le imposte sono pagate in proporzione inversa alla loro consistenza – l’apertura di campi di concentramento, ambulatori gratuiti gestiti dall’esercito, dormitori dove nessuno vuole andare perché bisogna avere i documenti in regola, refettori dove vengono forniti pasti a poveri disgraziati, luoghi in genere, questi ultimi, tenuti da pallidi fantasmi pieni di speranze e sogni infranti.

Queste contraddizioni dilagano in Europa e reggono bene facendo ricorso a cento sotterfugi legali: espulsioni, carceri vere e proprie e carceri a cielo aperto, elemosine civili e religiose, lavoretti sottopagati, irreggimentazione mafiosa, caporalato feroce e tutto il resto. Cioè tutto quello che è necessario per tenere lontana la paura del “diverso”.

Qui stiamo, per il momento, riferendoci ai benpensanti, a quelle persone caritatevoli che credono nell’umanità sostanziale di chi sta loro di fronte e li guarda con occhi sgranati dalla paura e dall’incertezza. Ed essendo persone dabbene si danno da fare (per il momento in buona fede) perché quegli occhi continuino a guardare il mondo da sopra e non da sotto, cioè dalla radice dell’erba che spesso serve loro da giaciglio. E gli altri? i cosiddetti realisti, cioè coloro che considerano le cose sulla base di convincimenti conservativi, esaltati da teorie aberranti e stupide, risalenti al positivismo vecchia maniera che aveva pensato di misurare tutto, dalla punta del naso alla forma dei piedi, e così dirci in che modo dovevamo educare i nostri sentimenti e tenere a distanza coloro che puzzavano in modo differente da come puzziamo noi? Questi altri non si limitano a costruire siepi o contrassegni, più o meno colorati, non cercano di tenere a distanza di sicurezza il “diverso”, proprio lo vogliono tagliare fuori in modo netto costruendo muri.

Eppure i poveri disgraziati che per il momento arrivano a gruppi numerosi, ma non tanto, sulle nostre coste o alle nostre frontiere, a decine e a centinaia, qualche volta a migliaia, provengono da una guerra, da una carestia, da una invasione del proprio paese, dalle repressioni orrende di dittature inimmaginabili, quindi dovrebbero sommuovere alla benevolenza, dovrebbero sciogliere anche i cuori di sasso, perfino, oso dire ma non ne sono convinto, i cuori induriti dalle perverse ideologie di razzisti e consoci che oggi, sotto mentite spoglie, si aggirano dappertutto nel mondo. Ma non è così. La paura sovrasta tutti questi sentimenti, e li trasforma in un bisogno perverso di garanzia del proprio possesso.

Dietro il braccio corto di una carità pelosa, quella che vediamo in atto oggi, e dietro lo stesso stravaccarsi osceno di parolacce e abusi retorici di coloro che vogliono buttare tutti a mare, ci sta la paura, solo la paura.

Esaminiamolo in concreto questo sentimento tanto diffuso e tanto vituperato.

Avere paura è un sentimento umano e appartiene a tutti. Non ci può essere una distinzione netta tra coraggiosi e paurosi. Tutti abbiamo paura e tutti, in un determinato momento, possiamo fare appello alle nostre tracce di coraggio per affrontare una situazione di pericolo. Non c’è da vergognarsi. Dire di avere paura e riconoscerla in quanto sentimento che blocca la nostra azione verso qualcosa che è giusto moralmente, riconosciuto tale in base al nostro statuto di essere umani, è il primo passo per avere coraggio, quel coraggio indispensabile all’azione. Personalmente non mi fido degli smargiassi, dei rodomonti, perché ho visto troppe volte alcuni di loro, e i più rumorosi, trarsi indietro di fronte al primo segno di pericolo.

Abbiamo tutti paura di fronte a una situazione di pericolo, perché questa situazione è foriera di dolore, di danni a noi, ai nostri cari, alle nostre cose e, all’estremo, di morte. E qui si trova il fondamento della paura. È, difatti, giusto avere paura. Ma chi ci suggerisce quando è il caso di avere paura? Con quali mezzi conoscitivi possiamo dire di trovarci in una situazione a rischio? In che modo possiamo darci i mezzi per valutare questa particolare situazione? Come individuare la perversa fonte ideologica che ci sta suggerendo di avere paura magari in una situazione che non è per niente pericolosa? E, al contrario, come individuare la fonte anche essa ideologica che ci sta ingannando disarmandoci nel momento in cui bisognerebbe affrontare una situazione effettivamente paurosa?

Ora, non c’è dubbio che tutto ciò che ci appare, sulle prime, diverso da noi ci mette in una situazione di disagio. Siamo abituati a vedere uomini e cose, relazioni e parlate, simboli e colori, contrasti di luce e ombre, secondo un codice che ci accompagna dalla nascita alla morte. Quasi certamente il prurito che spinge tanti imbecilli ad andarsene da turisti in giro per il mondo opportunamente accompagnati, e credere di vedere qualcosa di eccitante, mentre quello che stanno vedendo è filtrato non solo dallo schermo protettivo issato dagli organizzatori del viaggio ma anche dal contenuto del bagaglio che ognuno di questi esploratori dell’inesistente si è portato dietro, allo scopo di non tagliare del tutto i contatti col proprio mondo, indossare le stesse camice, le stesse mutande e tutto il resto, il prurito di cui dicevamo ha un fondamento di paura, ma non è di questo che vogliamo discutere.

Comunque è bene partire da questo livello minimo, quasi un solletico e un prurito piacevoli e stuzzicanti, per capire come sia estremamente modulato e ricco di varianti il sentimento della paura. Poi quello stesso esotismo che altrove magari poteva darci un brivido piacevole, viene fin sotto casa nostra, si affaccia improvvisamente alle nostre finestre, ed allora è un’altra cosa. Ci mostra la sua faccia contratta dal dolore e dalla fame, dal desiderio di avere un sorso d’acqua o anche qualcosa in più delle briciole che magari, facendo uno sforzo di memoria e ricordandoci del Vangelo, se credenti, saremmo disposti a cedergli, ma quello che pretende no. Come osa? Come si permette di affermare i propri valori, la propria dignità, la propria lingua incomprensibile, la propria fede (perché no!)? Come può arrivare ad affermare che lui, proprio lui che ha tratti tanto diversi dai nostri, questi sì (secondo la nostra atavica ottusità) che personificano il modello più avanzato, l’unico accettabile, di civiltà? Che importa se la faccia che intravediamo (o che immaginiamo) ghignante dietro la nostra ben tutelata finestra ha i tratti di un cinese o di un indiano, portatori di civiltà ben più antiche della nostra, di culture ben più articolate e filosoficamente più fondate? Una immane ignoranza ci tutela e non sapendo nulla di quelle culture e di quelle civiltà, sprofondiamo in una pietosa sensazione di disagio.

Di disagio, tanto per cominciare. Perché se quella faccia, appena intravista, si materializza in un essere umano richiedente qualcosa, qualcosa, si badi bene, che a suo tempo è stato tolto se non a lui personalmente alla sua progenie, con mille accorgimenti brutalmente militari o sofisticatamente commerciali, ecco che dal disagio si passa allo sbalordimento. Ma come osa pretendere qualcosa costui? Come può pensare di esigere quando dovrebbe soltanto limitarsi a stendere la mano tremante di vergogna e aspettare di ricevere quello che cade dalla nostra munificenza? Ecco, allora, che dallo sbalordimento passiamo all’indignazione e mettiamo mano a ogni difesa possibile. Ci arrocchiamo dentro le nostre mura, chiamiamo a raccolta sugli spalti dei nostri castelli in rovina, sulle soglie delle nostre catapecchie, tutta la forza del diritto, mettiamo in piedi l’usbergo della proprietà che quell’insistenza non può certo minacciare, seriamente parlando, ma su cui getta una lunga ombra foriera di future possibili richieste più pressanti.

E dietro le difese che ben conosciamo, da noi stessi per tempo messe in piedi e opportunamente foraggiate, dietro queste difese in divisa e a torso nudo ben visibili nelle loro muscolature vergognose e abiette, dietro queste oscenità che offenderebbero la sensibilità di un tronco d’albero, cominciamo a tremare. L’indignazione ha lasciato il posto alla paura vera e propria.

Ora, questo sentimento, di regola, se lasciato a se stesso, ingigantisce le ombre, dà corpo alle immaginazioni, gonfia i refoli e li fa diventare tempeste. La paura può essere riportata alla sua fonte originaria con la riflessione critica e il ragionamento, con la documentazione e una sufficiente apertura degli occhi. Per fare questo occorre però avere il cuore saldo e le mani pronte a colpire. Occorre lottare. Ecco il punto. Vincere la paura lo si può con la lotta contro chi la paura alimenta, contro tutte le chiacchiere ideologiche e tutte le mistificazioni messe in atto dalla visione politica delle cose. Che vuol dire “visione politica”? Non ci riferiamo all’interpretazione della realtà che viene bellamente fornita da dritta e da manca, secondo i gusti, tanto si equivalgono tutti, ma ci riferiamo a ogni interpretazione della realtà che pretende di mettere al primo posto i nostri personali interessi. Se riflettete un momento vi accorgerete che non sono soltanto gli uomini politici a “fare politica”, ma la facciamo tutti quando ottusamente ci chiudiamo in noi stessi, come fanno, per l’appunto, i cultori dei cosiddetti interessi comuni, che poi sono quelli del piccolo gruppo, o clan o possessori di beni specifici, che dicono di rappresentare. Se, per paura, ci chiudiamo in noi stessi, nel nostro mondo privato, se questo mondo lo eleggiamo a unica frontiera da difendere a qualsiasi costo, se in cima a questo muro issiamo la bandiera delle chiacchiere ideologiche, siano di destra o di sinistra, rivoluzionarie o reazionarie, siamo proprio noi i veri “uomini politici”, anzi siamo noi, in questo caso, i peggiori e i più feroci che esistano sul mercato. Da questo elenco, egregi signori, gli anarchici non vengono per niente esclusi. Anzi.

Ed eccoci allora sugli spalti, armati di tutto punto, a difendere la nostra cieca ottusità. E questa difesa avrà tutti, o quasi tutti, dalla nostra parte, tranne qualche crocerossina e qualche pallido reduce di battaglie radicali, oppure qualche anarchico tardo-pacifista che sta rileggendosi Tolstoj visto che di agire, per il momento (si fa per dire), non se ne parla. E avremo buon gioco perché di fronte a noi ci saranno poche decine di migliaia di vecchi, donne, bambini e uomini stanchi di combattere, avremo cioè i resti di una umanità in fuga dissanguata dalle guerre, dai genocidi, dagli inseguimenti, dalle bombe, dagli incendi, dai massacri sistematici casa per casa, dagli stupri e da tutto quello di osceno e di orrido l’uomo si è inventato da quando è sceso dall’albero. Allora saremo contenti quando avremo preso questa umanità dolorante e spaurita e l’avremo incasellata nei nostri modelli di giudizio, li avremo catturati e incarcerati, li avremo snaturati e fatti diventare europei di seconda categoria.

Ma non possiamo seriamente pensare di dormire sogni sereni per questa operazione di tamponamento. Quello che abbiamo adesso davanti, e che voci allarmate chiamano “invasione”, non è altro che una piccolissima parte di quello che potrebbe presentarsi alle porte dei nostri castelli ultrafortificati. Riflettiamo, per il momento, sul fatto tutt’altro che improbabile dell’avvicinarsi di un esercito non di decine di migliaia ma di milioni. Purtroppo l’aggiunta di uno o due zeri alle cifre che continuamente leggiamo sui giornali non lascia le cose come stanno. La nostra struttura sociale, considerando in questa formula grossolana l’intera Europa oggi interessata alla pressione dei migranti, non potrebbe reggere all’urto di milioni di persone in arrivo. Non occorre perché si verifichi un collasso l’ipotesi di decine di milioni ma basta un arrivo in massa di quattro o cinque milioni. Non si tratterebbe, in questo caso, di alzare muri o di votare leggi più o meno permissive o liberticide. Sarebbe il crollo di una concezione sociale che non può tollerare l’eventualità di massacrare sulle nostre coste due o tre milioni di persone per accettarne un paio di milioni. Non siamo preparati a una eventualità del genere.

Nessuno è in grado di prevedere quello che occorrerà fare. Quando questi benefattori dell’umanità arriveranno alle porte, alle porte della nostra cosiddetta civiltà, e metteranno mano a distruggerla, che cosa penseranno di fare i rivoluzionari che da sempre si sono riempiti la bocca di parole dedicandosi a piccole punzecchiature sul corpo della balena governante? Concorreranno anche loro alla più che benvenuta distruzione, impedendo per quanto possibile la ricostituzione di un nuovo potere col segno cambiato e con qualche bandiera di colore sconosciuto sulle più alte rovine del tempio magnifico della cristianità ormai tramontata?

Chi può saperlo?

AMB
marzo 2017

“Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediato da immagini.”

“Lo spettatore più contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi
nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria
esistenza e il proprio desiderio.”

“Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso.”

Guy Debord, La societa dello spettacolo

In questo tempo, in questo mondo, cercare parole per descrivere e analizzare il presente è sempre una sfida che mi da i singhiozzi. Non so se sarò letto, compreso, strumentalizzato, gettato in pasto al tritacarne dei “post” e non so, cosa molto più importante per me, se riuscirò ad essere all’altezza delle mie necessita’ espressive.
Inoltre scrivere dal presente, sul presente, è come rincorrere i propri pattini stregati: ci sei sopra ma loro schizzano più forte, più avanti, sempre in movimento, sempre più veloci di te.
Ma solleticatx da notti a rigirarmi nel letto con frasi che traboccavano dalla mente nel tentativo di mettere caos nell’ordine dei miei pensieri tento un salto, una boccata di ossigeno e parole…

Non possedendo uno smartphone e nemmeno avendo una connessione perpetua alla rete internet per me il Coronavirus non esiste.
Dico questo con la piena consapevolezza che questo virus, così come altri che l’hanno preceduto (ma questo pare essere più imponente) è una pura costruzione spettacolare.
Ragionare di “dati reali” e di “proiezioni plausibili della realtà” mi porterebbe a dovermi inzaccherare di numeri e di cifre che nessunx, in buona fede, può dire di possedere come specchio “reale” dell’esistente fuori dagli schermi.
Qualsiasi specialista ben pagatx sarà dispostx a dire tutto il contrario di tutto non appena l’odore di promozione e/o di stipendio infoltito indorerà le sue narici.
Questo virus è esploso nell’etere ben prima che nei mercati, nelle sale di ospedale, nelle strade.
È un virus di strisciate di dito su uno schermo, un virus di cinguettii cibernetici, una escrescenza virtuale virale (non è geniale che si dica esattamente cosi’ anche per i video di youtube che spopolano?!) che ha attaccato la mente e le percezioni surrogate di miliardi di persone in tutto il mondo, ben più a fondo e più rapidamente di quanto non
abbia fatto il suo corrispettivo biologico sui corpi.
Potrei dire che per me esistono due virus: uno, quello vero (nel senso di vero Debordiano) che e’ quello che inonda le pagine di giornali online, di social, gli schermi e le tv di tutto il mondo e che i governi stanno trattando alla stregua di una catastrofe naturale con tutto il corollario di “emergenza” che ne consegue; e uno falso (idem) che è
quello che ha ammazzato circa millesettecento persone in tutto il mondo pare (il 98% in Cina) e che a me si è palesato quando ho iniziato a vedere le prime facce con le mascherine appiccicate sopra…ma non più di sei e su persone sane, che non avevano altri sintomi della malattia che lo smartphone.
A voler giocare al gioco del potere, delle sue statistiche, della sua retorica da padre-padrone che ti terrorizza del buio e poi ti porge la lampada (ma solo se fai x bravx) mi verrebbe da chiedermi: se la preoccupazione delle istituzioni è davvero la salvezza della popolazione, se i governanti sono dei filantropi cosi generosi da non voler vedere nemmeno una vita immolata sull’altare dell’incuria, allora dai, ditemi, quanti morti fanno all’anno le sigarette e l’alcol monopoli di Stato*?!
E se questi insigni filantropi inorridiscono alla vista dei cadaveri e dell’ingiustizia sociale che esprimono, cosa ne facciamo delle migliaia di morti all’anno (**) per causa delle frontiere che essi stessi hanno eretto a salvezza e glorificazione dei loro mercati?!
Perché non hanno messo fuori legge i sali-tabacchi, ostracizzato x tabaccax, quarantenato x tabagistx per salvarci tuttx dalla piaga del cancro ai polmoni e annessi e connessi?
Perché leggi su leggi che condannano individui a morire ammazzati, torturati, violentatx nei lager libici o affogati in mare?
O per contro, se non hanno trattato il tabagismo con pugno di ferro, come sta accadendo per il Corona, forse per spirito liberale, perchè non si sono allora limitatx ad affiggere, ora nel momento del contagio, dei cartelli nelle città, come quelli che stanno su tutti i pacchetti di tabacco/sigarette che avverte x sudditx dei rischi che, consapevolmente esercitando il nostro libero arbitrio, ci si assume girando in una piazza o in un teatro?
E non è sorprendente la svista che vuole che si debbano chiudere teatri e scuole e musei, ma non si faccia menzione dei centri commerciali? Che all’oggi sono forse i (non)luoghi, non direi più vissuti perché la Vita la destino ad altro, ma quanto meno più attraversati di una città!?
Era la mia anima cittadinista che parlava, quella che ho sepolto anni or sono sotto mole di gas lacrimogeno e disillusione…non mi interessa porre il discorso in questi termini.
Ossia non voglio criticare questo o quell’operato del sistema di potere come a voler dire che il potere potrebbe agire in una maniera più giusta, più rispettosa, più equa.
I termini del discorso per me sono da porre altrove, contro: disertare la narrazione spettacolare del sistema e dei suoi falsi critici, ossia quegli specialisti (medici in questo caso) che gareggiano per sottrarre lo scettro della verità al potere e cosi’ facendo, glielo riconsegneranno più lucido e più pulito appena passata l’emergenza.
Non è questione dunque che lo Stato sia troppo allarmista o troppo poco, è questione di prendere atto della strategia che gli stati stanno mettendo in campo sfruttando questa spettacolare (in tutti i sensi) occasione.
Se infatti non ho la capacità e forse nemmeno la pretesa ne la voglia di capire cosa sia reale e cosa no, dove stia il vero e dove risieda il falso (relativo, contestuale, non assoluto! Non esageriamo) ho però ancora la possibilità di fidarmi del mio corpo, delle mie viscere, dei miei occhi, dei miei sentimenti.
Posso ossia scorgere le “conseguenze” di questo virus.
Non posso stabilire se il virus Corona, quello biologico, venga un serpente o da una spia della CIA, ma, visto che non voglio salire sulla giostra del complottismo, mi basta (e mi avanza) rifarmi a ciò che vivo, in conseguenza dell’evento oramai scatenato.
Questo per me non significa indulgere sux responsabilx, ma piuttosto aver ben chiaro che e’ il sistema tecno-industriale nella sua totalità, attraverso tutte le sue emanazioni (umane e appendici tecnologiche) il
responsabile di sofferenze e morti che negano il vivente e i suoi ignoti palpitanti.

Credo di poter dire sulla mia pelle e ricorrendo alla mia memoria (dal 2001 di torri gemelle e Genova, passando per strade sicure e terremoti…etc) che l’emergenzialità non ha nulla di emergenziale, ne di temporaneo; è invece un ben collaudato modo di governo politico-militare.
Questo momento storico, di assedio sociale da parte del virus virtuale/biologico, non fa eccezione, anzi, catalizza e amplifica e perfeziona tutti i dispositivi di dominio sperimentati fin’ora.
Gli onnipresenti militari (che se ax terroristx almeno potevano sparare, al virus che faranno?!), sbirri, guardie di ogni tipologia e divisa (protezione civile inclusa) mobilitati per primi, passando per  quarantene e intere regioni blindate e trasformate in “terra di nessuno” del diritto, fino alle vaccinazioni di massa che tarderanno giusto il tempo perchè la casa farmaceutica di turno sforni la strabiliante panacea (vaccinazioni di massa obbligatorie esattamente come quelle già imposte ax bambini di età scolare in Italia dallo scorso anno: nulla di fantascientifico).
Come sempre, mi pare, x primi a essere vessatx da queste sevizie repressive sono x ultimx.
Migranti, già odiatx e perseguitatx e oppressx piu di quanto ogni sopportazione possa immaginare, che anche prima del Corona erano, tra le altre cose, vistx come untorx e portatorx di contagi esotici (per esmepio la Legionella) ora sono definitivamente marchiatx come bombe virali deambulanti e che dicano quello che vogliono x specialistx garantistx, tanto la verità è nello schermo di ogni mano e quello schermo parla la lingua del padrone.
Ora, grazie al Corona, grazie alla paranoia endemica, grazie cioè al vero virus in espansione,  saranno legalmente sequestratx nelle navi che li traghettano dal mare aperto alle coste come misura di “quarantena”: è notizia del 26/02 che a una nave di un'ONG diretta in Sicilia sia stato vietato lo sbarco e imposta la “quarantena a bordo” e questo pare sarà il protocollo da seguirsi.
Esattamente quello che fece il testosteronico ministro dell’interno leghista, precorrendo i tempi, ora sotto processo (Ah! Ah! Ah!) per sequestro di persona, ma questa volta senza tante remore, senza nemmeno quelle flebili voci sinistrose o democratiche a lamentare l’ingiustizia e la disumanità del nazismo ministeriale e dei suoi sbirri esecutori.
Ultimx e dannatx che se possibile vedono ancora più buia la prospettiva di ogni giorno che passa, come x prigionierx delle carceri delle “zone contaminate” che non potranno avere colloqui con nessun esternx al carcere (come accade per Nat, compagna anarchica rinchiusa nel carcere di Piacenza) non ci è dato di sapere per quanto.
L’emergenza avvolge tutto di un manto di impenetrabilità: le domande sono sediziose e le risposte sono dominio di chi ha il sapere e gli strumenti per ottenerlo.

Col virus si è come in guerra, e la guerra, si sa, è sempre stata un collante sociale potentissimo o quanto meno uno spartiacque sociale: stai con la patria o coi nemici della patria. Punto.
E già si parla di “governo di unità nazionale” per fare uscire l’Italia dalla crisi del virus, con tute verdi e democratici e destra e sinistra e centro e bla bla bla a fare facce serie e responsabili nelle tv, a stringersi le mani come degli operosi Churchill nostrani.
La solita vomitevole farsa, che però ha la pesantezza gretta delle catene che si stringono di più, il puzzo fetido dell’aria che comincia a mancare serratx dietro alla finestra che si ha sempre piu paura ad aprire, l’oleosa consistenza della democrazia poliziesca che giunge al suo apice (per ora): non aver nemmeno bisogno di un nemico in carne ed ossa come furono Comunistx, Talebani e Terroristx di piu vasta gamma.
Oggi basta la paura per la paura, l’invisibile, il virus che esiste perché si , senza bisogno di tanti morti o di sintomi, basta la sensazione del contagio per esserne contagiatx.

DI “CHE FARE” O DI “DOVE STARE”
Io credo che il sistema non soffra colpi quando si visibilizzano le sue contraddizioni, perché mi pare che il sistema sia divenuto abilissimo a gestire e recuperare le proprie contraddizioni.
Credo che il dominio possa soffrire quando c’è chi queste contraddizioni le affronta da una prospettiva che nega la sua appartenenza al gioco.
La negazione che non punta l’attenzione sull’utilità o meno di questo o quel voto, ma diserta e incendia l’urna; la negazione che non vuole scegliere tra “accoglienza” nazista nei campi o “diffusa” e democratica
ma combatte l’esistenza stessa di società privilegiate che “accolgono” persone oppresse che fuggono. Che combatte l’esistenza stessa, direi io, di qualsivoglia società.
La contraddizione e’ tale se c’è chi la coglie, perché credo sia una relazione sociale anch’essa tra differenti aspetti del tessuto economico-sociale-politico. Ma la contraddizione di questo virus non c’è, è tutto perfettamente logico e funzionale: se c’è un virus mortale (e io credo che pur essendo evidente per me che NON c’è alcun
virus e altrettanto evidente che C’È un virus) ci vogliono misure straordinarie per assicurare la sopravvivenza al popolo.
E la guerra dei dati che potrebbe dar ragione allo schieramento meno allarmista e far emerge quelle discrepanze di trattamento a cui si accennava sopra è truccata in partenza: le carte, il tavolo da gioco, il pubblico pagante si chiamano mass media e sono struttura ossea della società stessa.
L’intangibilità di questo virus, dei suoi effetti sui corpi è compensata dalla concretezza dell’azione repressiva introiettata in anni di politica-della-sicurezza.
Mi pare che pochissimi individui oggi nel paese chiamato Italia sfiderebbero la quarantene dei corpi e delle emozioni per desiderio di non vedersi annullare la libertà.
La legge è pura astrazione, è un assunto teorico che introiettiamo e per obbedienza ad essa arriviamo a non sorpassare una staccionata non perché sia troppo alta per le nostre potenzialità di scalata, ma per la scritta rossa su sfondo bianco che impone“non oltrepassare”.
Come un virus la legge si installa nei corpi ed evolve, muta, si difende dagli attacchi degli antidoti, dagli slanci liberatori. La legge si concretizza con la forza del manganello e del chiavistello, il virus con
la quarantena, col camice, l’isolamento, la siringa, ma il cuore del problema è identico.
Non sono x mortx ammazzatx dalle bombe che piovono dal cielo i cadaveri dai quali rifugge il popolo terrificato serrandosi in casa, sono numeri, cifre, ordini, dettami, ordinanze.
La paura e l’immediata ricerca di rassicurazione sono il moto perpetuo della repressione.
Mi pare che il potere stia ben dimostrando quale siano le priorità (quantomeno alcune) della sua azione repressiva: chiudere.
Chiudere il più possibile spazi, strade, luoghi, agibilità, dissenso.
Nulla di nuovo né di differente da quanto portato avanti dallo Stato italiano negli ultimi decenni, solo che adesso con una capacità tecnologica e una rapidità d’esecuzione (anche per mancanza di resistenza e ossequiosità sociale) davvero virali.
State chiusx in casa, chiusx nei comuni, nelle regioni.
Recinti che si sommano a recinti in una spirale di repressione senza fine potenziale.
Io credo che il potere sia multiforme così come l’attacco che scelgo di portare contro di esso.
Oggi è la reclusione e l’autoreclusione che sta applicando con forza sul territorio posto sotto il suo dominio (e in questo terreno metto anche le coscienze e i corpi degli individui) allora credo che sia lì che voglio stare, all’aperto.
Aprire spazi di dialogo, di gioco, di discussione, disertare la narrazione dex “terrorizzatorx” e la contronarrazione dex piu “cautx”, aprire le strade, le braccia, gli spazi cementati.
L’immagine più mirabolante che posso produrre nella mia testa pulsante sono individui selvaggi che si abbracciano e scambiano effusioni davanti al fuoco di farmacie in fiamme e servx (in divisa e non) inorriditx…ma anche solo il presentarsi nelle piazze laddove c'è divieto assoluto può essere un inizio.
Capire cosa (se) la legislazione d’emergenza prospetta per chi infrange la quarantena, camuffarsi (oggi le mascherine vanno di moda), disertare l’annichilimento, rifiutarlo, sputare in faccia al virus della paura il virus della rivolta.
I tempi del potere sono sempre più rapidi e sempre più sicure e forti e senza contrapposizione appaiono le azioni del dominio: chissà per quanto ancora si potrà stare all’aperto senza doversi nascondere, per quanto potrò scrivere testi come questo con la consapevolezza che qualcunx lo potrà “liberamente” pubblicare; per quanto ancora avremo la possibilità di rifiutare protesi biotecnologiche sui nostri corpi per correggere la fallibilità della nostra finitezza.
Uscire all’aperto mi pare un esercizio anche per noi stessx (anarchicx, antiautoritarx, individui in rivolta…) per non appassire nell’insinuante paranoia che più si delegano le percezioni alle macchine, più si rafforza mentre appassiscono i nostri istinti e diveniamo incapaci di fidarci di noi stessx, di guidarci, di prenderci cura di noi.
E non credo che il popolo acclamerà un pugno di piratx avvelenatx dal germe inestirpabile della sovversione, ma forse qualche individuo alla ricerca di un Altro/ve rispetto allo schermo che l’ha contagiato si
unirà alle danze o più semplicemente l’avrò fatto per me stessx. Per stare là dove mi piace stare, dalla parte sbagliata, contraria, ignota.

Sarà che la Corona l’ho sempre immaginata solo sulla testa di un Re e poco importa che questo abbia le fattezze di un ominide con pompose  parrucche o di un virus circolare, il Re detiene il potere assoluto… l’importante, però, è che la testa del Re rotoli nella cesta.

unx Appestatx

(*) Giusto per sfizio numerologico:
Rapporto di ricerca, “Indagine sull’Alcolismo in Italia. Tre percorsi di
ricerca”, realizzato nell’ambito delle attività previste
dall’Osservatorio permanente Eurispes-Enpam su “Salute, previdenza e legalità”. Dal 2008 al 2017 in Italia sono stati 435mila i morti per
malattie alcol-correlate, incidenti, omicidi e suicidi ad esso dovuti.
Fumo di sigarette, dati maggio 2019: Solo in Italia muoiono ogni anno circa 70’000 persone. Globalmente inoltre, secondo le stime OMS, 165.000 bambinx muoiono prima dei 5 anni di infezioni respiratorie causate dal fumo passivo.

(**)Amnesty International parla di circa 15’000 morti nel solo
Mediterraneo dal 2015-2019. Possiamo ben dirci, se la mente riesce a
concepire numeri di così vasta e orrifica portata, che siano molti di
più quelli reali.

Fonte: Round Robin

«Nonostante le apparenze, l'ecofascismo ha un futuro davanti a sé e sotto la pressione della necessità potrebbe essere il risultato di un regime totalitario sia di sinistra che di destra. In effetti i governi saranno sempre più costretti ad agire per gestire risorse e spazio via via più rarefatti... La preservazione del livello di ossigeno necessario per la vita potrà essere garantita solo sacrificando un altro fluido vitale: la libertà. Ma, come accade in tempo di guerra, la difesa del bene comune, della terra, varrà il sacrificio. L'azione degli ambientalisti ha già iniziato a tessere una rete di regolamenti fatta di ammende e di carcere al fine di proteggere la natura dal suo sfruttamento incontrollato. Cos'altro fare? Ciò che ci aspetta, come nell'ultima guerra totale, è probabilmente una miscela di organizzazione tecnocratica e ritorno all'età della pietra» (Bernard Charbonneau)    

Sono trascorsi quarant'anni da quando uno dei primi critici della civiltà tecno-industriale pubblicava tali osservazioni, impregnate di una certa mestizia dovuta all'indifferenza generalizzata nei confronti delle devastazioni attuate dal progresso. Ce le ha fatte venire in mente quanto sta accadendo in questi giorni qui in Italia, dove a cominciare da Lombardia e Veneto è in via di sperimentazione un test d’irreggimentazione di massa in nome del bene pubblico. Non essendoci alcun nemico visibile all'orizzonte in grado di giustificare uno stato di emergenza, è stato dato grande risalto alla minaccia costituita da un nemico invisibile. Così, per impedire la diffusione di una forma influenzale appena più virulenta di quelle con cui si ha a che fare ogni anno, si è giunti ad istituire zone rosse, posti di blocco, divieti di movimento, sospensione della vita pubblica. Misure eccezionali che potrebbero presto venire estese al resto del paese e che stanno già provocando una sorta di psicosi di massa, con tanto di assalti ai supermercati per accaparrarsi beni di prima necessità e non solo, esaurimento di dispositivi medici di protezione quali mascherine e disinfettanti, aggressioni agli untori con gli occhi a mandorla. Di primo acchito verrebbe da chiedersi come mai l'Italia risulti essere il terzo paese al mondo (dopo Cina e Corea del Sud) per numero di contagiati dal cosiddetto coronavirus. Si tratta di efficienza del sistema sanitario nazionale, in grado di attuare fin da subito (a differenza degli altri paesi occidentali più negligenti) quei controlli a tappeto che hanno fatto scoprire l’epidemia in corso, o di deficienza della popolazione nazionale, giacché in nessun altro luogo avrebbe potuto attecchire un tale allarmismo? Interrogativo che potrebbe anche essere riformulato in altri termini: l'italica importazione di un timore asiatico è il frutto della dabbenaggine mediatica, a cui la notizia sensazionalistica è scappata dagli indici di ascolto, o è opera dell'arguzia istituzionale intenzionata a sondare la rinuncia volontaria alla minima libertà da parte dei suoi cittadini? Che un'influenza possa uccidere, non è certo una novità. In un rapporto diffuso la scorsa estate dal Dipartimento Malattie Infettive dell'Istituto Superiore di Sanità, riportante i dati relativi all'influenza che ha colpito il paese nella stagione 2018-19, si ricorda che «le infezioni respiratorie acute causate dai virus influenzali possono essere lievi, gravi e possono persino causare la morte nei soggetti a rischio come anziani e bambini». Ciò non significa affatto che febbre e raffreddore siano sintomi letali, giacché «il ricovero e la morte si verificano principalmente tra i soggetti ad alto rischio, che includono donne in gravidanza e chiunque abbia patologie sottostanti come diabete, obesità, malattie dell’apparato respiratorio e cardiovascolari». Si tratta di una vera e propria banalità: l'influenza in sé non è affatto pericolosa, ma potrebbe diventarlo qualora colpisse chi versa già in condizioni di salute compromesse. Secondo lo stesso rapporto, «nell'intera stagione influenzale, il 13,6% della popolazione italiana ha avuto una sindrome simil-influenzale, per un totale di circa 8.072.000 casi» ed «anche l’impatto di questa stagione, in termini di numero di forme gravi e complicate di influenza confermata, è stato elevato e paragonabile a quello della precedente stagione influenzale. In particolare, nella stagione 2018-19, sono stati segnalati 812 casi gravi di influenza confermata in soggetti con diagnosi di gravi infezioni respiratorie acute e/o sindromi da distress respiratorio acuto ricoverati in terapia intensiva, 205 dei quali sono deceduti. Il 63,2% dei casi gravi è di sesso maschile e l'età mediana è pari a 63 anni. Nell'83,4% dei casi gravi e nell'89,7% dei deceduti era presente almeno una condizione di rischio preesistente (diabete, tumori, malattie cardiovascolari, malattie respiratorie croniche, obesità, ecc.)». Fino ad ora il coronavirus non si discosta affatto dalle suddette caratteristiche, mietendo le sue vittime fra anziani già malati o pazienti debilitati. Che senso ha allora tutto questo allarmismo? Soprattutto se aggiungiamo che le sole infezioni ospedaliere provocano ogni anno qui in Italia circa 8.000 morti (più di venti al giorno!), per non parlare delle 80.000 morti all'anno (più di duecento al giorno!) che le statistiche indicano causate dal tabagismo. Realtà ufficiali che non hanno mai portato a quarantene né a chiusure di strutture sanitarie o a serrate di tabaccai. Ordunque, se in questo momento l'esercito si trova a pattugliare le strade del lodigiano non è certo per bloccare una pandemia di influenza, quanto per estendere la pandemia di servitù volontaria. Unità nazionale ed obbedienza alle leggi, davanti al pericolo! Fine del dissenso e delle critiche al governo, davanti al rischio! Largo ad esperti e specialisti, davanti alla minaccia! In effetti, al di fuori di paesi asiatici soggiogati da grandi e piccole tirannie, quale altra popolazione poteva andare nel panico per una semplice influenza non essendosi mai curata della quasi totale assenza di piacere nella vita? Quale, se non quella a cui in un passato recente era stato spiegato che un manifestante era stato ucciso da un proiettile (sparato da un agente dell'ordine, ma) deviato dal sasso scagliato da un altro manifestante; quella a cui era stato raccontato che il suo premier si preoccupava delle nipoti minorenni di capi di Stato esteri ora defunti; quella già sottoposta, in occasione di terremoti, a misure che limitano la libertà individuale; quella che da lunghi decenni non conosce più rivolte, ma solo pacifiche e civili proteste vogliose di legittimità istituzionale? Nel frattempo, dalla Cina giunge anche la notizia che la sospensione di quasi ogni attività lavorativa ha avuto come conseguenza l'abbattimento delle emissioni di anidride carbonica. Nel giro di poche settimane, la rottura con la normalità quotidiana avrebbe ridotto l'inquinamento di circa un quarto. Grazie alla drastica diminuzione del consumo energetico, i cieli della Cina sono tornati ad essere azzurri. Ora — al di là del fatto che un eventuale virus che alleggerisca davvero il pianeta da quella fauna parassitaria conosciuta come umanità sarebbe per certi versi una panacea — ciò significa forse che solo una pandemia ci salverà?    

Finimondo, 25/2/20

In questi giorni un nuovo incubo si sta diffondendo: il contagio dal cosiddetto Coronavirus. Dieci paesi del lodigiano, considerati il focolaio del contagio, e un paese del Veneto, dove è stato accertato il primo morto del virus, sono stati messi in quarantena. Questo significa nessuna possibilità per le persone di muoversi e di spostarsi dalle proprie abitazioni. In tutta la Lombardia, il potere costringe le persone ad autolimitare la propria mobilità sociale. Dalla chiusura dei luoghi di aggregazione al coprifuoco, il passo è breve. Prigionieri di se stessi e di un qualcosa di impercettibile allo sguardo umano, il governo pastorale ha addirittura ordinato attraverso un decreto lampo di chiudere le strade e ha rinforzato il presidio di polizia ed esercito, intimando che se qualcuno non dovesse rispettare gli ordini statali potrebbe anche subire l’arresto. A epidemia sociale, il potere non può che rispondere con repressione e sorveglianza. La caccia all’untore è iniziata.

Un nuovo spettro si aggira intorno a noi e la sua forza è la sua presunta veridicità medica e il potere di cancellare in un baleno altri spettri invisibili all’occhio umano. Bizzarro che quando si parla di morte veloce l’epidemia sociale diviene urgenza. Quando la morte si installa nella vita, tutto torna al mondo della catastrofe. L’emergenza non s’ha da fare quando i luoghi in cui abitiamo divengono irrespirabili per l’industrializzazione e per il mondo-macchina? Niente emergenza quando le necrocolture OGM devastano l’aria che respiriamo e il cibo che ingurgitiamo? Niente emergenza anche quando stiamo ancora mangiando da una terra radioattiva e contaminata dal disastro nucleare di Chernobyl del 1986? E Fukushima, dove i tecnici nucleari di quella zona annunciano che l’unico modo di fermare la radioattività in atto è lo sversamento delle scorie nell’oceano? Con questa epidemia sembra che le certezze dell’esperto di turno siano crollate in 24 ore. E quando cadono delle certezze, il caos è dietro l’angolo.

Aforismi sul disastro

Questa è la prima epidemia globalizzata. Non globale, attenzione, ma globalizzata. Ci sono sempre state epidemie che hanno attraversato i continenti, si sono allargate a macchia d’olio, hanno causato morti e dolori. Questa tuttavia è la prima epidemia virale che attraversa un mondo in cui gli individui sono sempre più simili tra di loro, le condizioni di vita sempre più standardizzate, le abitudini di consumo omologate.

Qual’è il ruolo ecologico della malattia? In questo periodo di esperti, dove il posto principe è riservato alla presunta scienza medica, poco si affronta questo tema. Dove ha fallito la Cop 21 potrebbe riuscirci il 2019n-CoV. La malattia, e la morte da essa derivante, vengono rifuggite solo in un mondo che della perpetuazione di sé stesso ha fatto mitologia. Non si può pensare che in luoghi dove milioni di persone vivono ammassate, abusando di antibiotici e cibo spazzatura, non si generino questi fenomeni. La questione ecologica trova soluzione anche nella diminuzione quantitativa degli esseri umani, oltre che sulla necessaria trasformazione qualitativa della loro vita.

In fondo cosa abbiamo di diverso dalle Pinne nobilis? Questi amabili parenti delle cozze vivevano felicemente nelle immense praterie subacquee di Posidonia ocenanica. L’essere umano ha distrutto le praterie dove vivevano, li hanno pescati per farne souvenir ed aperto nuove vie di comunicazione attraverso i mari (Canale di Suez). Ora un batterio sta sterminando i pochi individui rimasti. O siamo forse come le patate irlandesi, tutte uguali, coltivate in monocoltura intensiva. Ettari di patate, cloni di altre patate, con le stesse caratteristiche, gli stessi punti deboli. Basta un parassita perché vengano spazzate via. Si chiede il genetista Lewontin nel suo libro “Biologia come ideologia”: a causare l’esplosione della tubercolosi nell’ottocento è stato un batterio o sono state le condizioni di vita nelle fabbriche?

Ci dicono di non uscire di casa, di non abbracciare le persone che amiamo, oltre quali confini o strade non possiamo andare. Ci dicono che rischiamo la vita. Ma quale vita? Forse la non vita che anche in precedenza sopportavamo, in cui la quarantena era l’abitacolo della nostra monovolume ferma in tangenziale? O che fosse l’isolamento nell’appartamento, vera e propria cella di un immenso alveare di cemento? E se il rifiuto delle prescrizioni, l’inabissamento nel caos delle possibilità di questo mondo incrostato portasse attraverso la malattia un rinnovamento talmente profondo da renderci necessario accarezzare la morte per stringere la vita? Quando è possibile solo il telelavoro e la socialità passa tutta da internet, le antenne e ciò che le alimenta diventano condizione necessaria per mantenere l’ordine sociale di fronte al disordine dei sogni.

Eduardo De Filippo, in Napoli Milionaria, scriveva che per risollevarsi dalla guerra occorreva sopravvivere al dopoguerra. Adda passà a nuttata, sospirava riferendosi alla figlia malata. Anche noi viviamo nel mezzo di una malattia, un’escrescenza tumorale che colpisce le relazioni tra esseri umani e con l’ambiente che li circonda. Stato, Capitale, Sistema Tecnico. La febbre è la reazione del corpo di fronte ad un invasione esterna. Dalla febbre può passare una possibilità di liberazione?

Quando senti il lupo belare, se sei una pecora preoccupati. Al potere non interessa la nostra felicità, interessa che continuiamo a produrre, a vivere all’interno degli schemi di sfruttamento e sopravvivenza. Quando lo Stato chiede collaborazione che trovi meravigliosa diserzione.

Molte civiltà sono state distrutte dalla malattia. Più una civiltà è complessa ed impone la disciplina per poter sopravvivere più è fragile. Mentre l’esercito e la polizia sorvegliano i malati, i nervi restano scoperti. Bloccare questa società, interromperne le linee di approvvigionamento è un gesto quanto mai comprensibile e desiderabile: di fronte all’abisso del disastro ecologico e dell’annichilimento quotidiano le possibilità restano desideri che finalmente possiamo trovare il modo di esprimere. E bloccare il nostro ruolo sociale del non poterci far niente.

Cosa resta quando viene meno lo Stato? Cosa resta quando viene meno la fiducia nello Stato? Cosa resta quando lo Stato deve sparare ai suoi sudditi che non vogliono restare rinchiusi nelle zone di quarantena? Cosa accade quando lo Stato si dimostra incapace di governare e di proteggere? La possibilità.

Caracremada correva da solo sui Pirenei rincorrendo la possibilità dell’abbattimento della dittatura di Franco, noi potremmo un domani trovarci rinchiusi con altri individui a fronteggiare da un lato il morbo e dall’altro lo Stato.

Riappassionare la vita

Il linguaggio che non sa più esprimesi è ancora comprensibile. Esso interrompe l’oblio. Di fronte al più scoraggiante dei deserti, la foresta della conoscenza e della prospettiva. Ogni costruzione è un simulacro di detriti e la sua forma non è nulla di nuovo. Per questo le forme vanno distrutte.

Lautréamont diceva che la poesia poteva essere fatta da tutti, non da uno. La scienza, invece, può essere solo il baluardo degli esperti. Per questo la poesia è lo scarto assoluto con la scienza. E questa è una tappa fondamentale per andare alla ricerca dell’oro del tempo contro la mercificazione scientifica della sopravvivenza in quarantena, restituendo al pensiero la sua spontaneità. Oltrepassato l’orrore, tutto quanto è immaginabile.

Per dirla alla Breton:

Piuttosto la vita con i sui drappi di congiura
Le sue cicatrici da evasione
Piuttosto la vita piuttosto la borchia sulla mia tomba
La vita della presenza unicamente della presenza
Dove una voce chiede Sei qui dove un’altra risponde Sei qui
Io purtroppo ci sono appena
E però se facessimo il gioco di quel
che facciamo morire
Piuttosto la vita

dalle zone del virus e oltre, alcuni superstiti delle onde frante

La realtà che ci circonda è vasta. La detestiamo, perché traspira oppressione e sfruttamento. L’aborriamo, perché malgrado tutte le teorie e tutte le spiegazioni, malgrado l’odio che auspichiamo feroce tra le classi, malgrado le mille spiegazioni fornite per giustificare non solo l’acquiescenza ma perfino l’adesione al potere di grandi masse di oppressi, siamo costretti a constatare — mandando all’aria le mille mistificazioni vittimiste — che questa realtà è in gran parte il risultato della servitù volontaria. A partire da questo, abbiamo davanti due strade. O rinunciamo a qualsiasi interazione con questa realtà, cercando di forgiarci una vita — l’unica che abbiamo — che valga ancora la pena d’essere vissuta… sarebbe comprensibile. Oppure cerchiamo di interagire con questa realtà, affrontandola con le nostre idee e i nostri desideri sovversivi, col rischio di venire fagocitati da essa e di finire per unirci alla grande marcia funebre dell’umanità.

In effetti, queste due strade non sono poi così distanti come si potrebbe pensare. Fuggendo, ci scontriamo comunque con la realtà; viceversa, anche intervenendovi, le consegniamo la nostra parte di un altro mondo, quello che creiamo in modo impreciso dentro di noi. Solo la morte può porre fine a tutte le interazioni — per quanto, a ben guardare e senza cadere nel culto della carogna, anche la morte può avere un significato nella realtà. Lasciando da parte una prospettiva che vorrebbe «uscire» dal mondo, trovare o costruire un «al di fuori», quali sono le condizioni per un’interazione, per un intervento rivoluzionario nella realtà? Dato che questo aggettivo ha perso molto del suo significato negli ultimi decenni, precisiamo fin d’ora che per «rivoluzionario» intendiamo la tensione trasformatrice, lo sconvolgimento dei rapporti sociali esistenti — cosa ben diversa dall’associarlo in modo semplicistico all’avvento di una «Grande Sera» in cui folle ebbre di rivolta uscissero in strada per cambiare tutto da un giorno all’altro. Di fronte alla realtà che aborriamo, come possiamo dunque decidere di intervenirvi, consci di non essere stelle cadenti sbucate dal nulla, ma che le nostre idee, le nostre aspirazioni, per quanto differenti siano, sono pure influenzate da questa stessa realtà — in sostanza, che non siamo esseri caduti dal cielo, ma individui in carne e ossa cresciuti in questo mondo?

È sicuramente difficile cogliere tutti gli aspetti di quello che chiameremo «intervento rivoluzionario». Invece di chiederci che cosa ne faccia parte, non potremmo cominciare con quanto non ne fa parte? È una prima distinzione necessaria che caratterizza l’anarchismo, o perlomeno certi approcci all’anarchismo. L’anarchico non vive due vite — anche se le condizioni di clandestinità, d’illegalità, di segretezza, inseparabili da qualsiasi lotta, possono talvolta portare ad uno stato di schizofrenia alquanto affliggente. Non si è lavoratori al mattino quando ci si reca al lavoro e anarchici la sera quando si va ad incontrarsi coi compagni al locale vicino. L’anarchico non è un «militante», nel senso che non può, a meno di trasformare il proprio anarchismo in un mero programma politico tra gli altri, dividere la sua vita, il suo tempo, tra attività dedicate alla «militanza» e attività dedicate alla sua «vita». In lui alberga una tensione permanente, che talvolta può perfino diventare una vera lacerazione — che può condurlo, non di rado, a rinunciare a tutto e a ridiventare «una pecora in mezzo al gregge». Poiché non crede nelle forze sotterranee che spingerebbero ineluttabilmente il mondo verso la libertà, né nei meccanismi economici che porterebbero all’emancipazione (cosa che rendeva compatibile, per un Friedrich Engels, essere al tempo stesso padrone di un cotonificio per vent’anni e, diciamo, lottare per la causa del proletariato), ha un rapporto innanzitutto etico con ogni aspetto della sua vita. Le sue scelte, i suoi atti, le sue rinunce, lo definiscono anarchico, forse più delle idee di cui discute con i compagni o delle minacce apocalittiche che magari rivolge al dominio seduto in un bar. Non «milita», «è» un anarchico, anarchico inteso non come acquisizione di certe idee e pratiche, ma, per l’appunto, in relazione alla tensione tra ciò che pensa, ciò che vuole, ciò che vive e ciò che fa. Prima ancora di affrontare «l’intervento rivoluzionario», vediamo già una moltitudine di problemi aprirsi davanti a noi.

Non si può pensare all’intervento rivoluzionario esclusivamente come ad una battaglia d’idee. Se l’approfondimento delle idee è importante, non è né immaginabile né possibile trasformare la realtà sulla base di un dibattito pubblico o di una contraddizione logica. I libri, i testi, fanno certo parte dell’attività di un rivoluzionario, ma un libro non è un’arma. Un libro può corrodere pregiudizi e ideologie (che contribuiscono, senza dubbio, a questa spaventosa «servitù volontaria» che conduce le masse, mentre cantano, verso il macello), ma non può abbattere un padrone o demolire una prigione . Per abbattere un padrone occorre un’arma; per demolire una prigione occorrono strumenti di distruzione. Ma prendere un’arma in mano non ci rende ancora capaci di abbattere un padrone: per far ciò, dovremmo essere convinti che è giusto, che è adeguato, che ha un senso abbattere il padrone. Come vediamo, non si possono sbrogliare tutti gli aspetti dell’intervento rivoluzionario senza parlare di nuovo al vento.

Le nostre idee allora sono solo fortezze astratte? Analizziamo questa società e comprendiamo come il padrone, tutti i padroni, debbano essere soppressi se vogliamo andare verso una società «senza Dio né padroni». Ma nella realtà non s’incontrano «tutti i padroni», è un’astrazione che rende l’idea concepibile per la ragione, ma non immediatamente operativa nella realtà. Quello che noi possiamo trovare è quel padrone, un padrone, diversi padroni riuniti magari attorno a un tavolo in una birreria parigina. Per cui non c’è da stupirsi quando, traboccanti d’idee sanguinarie di vendetta contro «tutti i padroni», si rischia di ritrovarsi piuttosto disarmati di fronte ad un padrone concreto, pur avendo il coltello tra i denti. Ecco perché tra le idee anarchiche e la realtà del dominio bisognerebbe immaginare e costruire un ponte, un’incursione. Questa è forse la definizione più ampia da poter dare nel parlare di «progetto» e di «progettualità».

Mettendo assieme tutti gli aspetti dell’intervento rivoluzionario, è possibile superare una fase ancora più difficile: immaginarli insieme per costruire un progetto che ci consenta di intervenire nella realtà. Ma attenzione, compagne e compagni che state leggendo, non è una chiacchiera o una masturbazione mentale. Questo tipo di progetto, così inteso, è qualcosa di ben altro che fare questo o quello, pubblicare un giornale o scrivere un libro, fare una rapina o incendiare una industria, organizzare una riunione o far crescere un orto. Cerca di includere, se non tutti, almeno quanti più aspetti è possibile dell’intervento rivoluzionario, per orientarli verso qualcosa da trasformare nella realtà. Ovviamente si può argomentare che fare un bollettino anarchico come questo abbia senso di per sé, che è comunque interessante contribuire all’approfondimento delle idee e alla fermentazione della discussione. Ovviamente si può dire che un attacco contro una struttura del dominio è sempre benvenuto ed è significativo, al di là di qualsiasi prospettiva più ampia in cui sia inserito (o meno). È vero, però c’è un ma… Se si fanno le cose per nostra stretta soddisfazione personale, perché no, la riflessione può anche fermarsi là, senza il bisogno di sovraccaricarsi con altre domande. Ma osiamo dire che un simile approccio corre il forte rischio di mordersi la coda, di svuotarsi dall’interno, perché la soddisfazione personale ne richiede sempre un’altra, più lontana, e così via fino a quando ci si rende conto o che non c’è più nulla da soddisfare (si è «vuoti»), o che non si è più capaci di soddisfare se stessi (e sopraggiungono la depressione e l’amarezza). Se, viceversa, vogliamo caricare ciò che facciamo di un significato che vada oltre il nostro desiderio individuale, di un significato che possa parlare anche agli altri (e perché no, al mondo intero), si è portati a pensare le cose in modo diverso, occorre pensarle altrimenti.

Per riprendere l’esempio di questo bollettino, se fosse solo per la soddisfazione di scrivere qualche (bella, a seconda dei gusti) parola sull’anarchia, vi posso dire in tutta franchezza che smetterei subito. Il mondo è già pieno di belle parole sull’anarchia, che sono là, alla portata di chiunque voglia afferrarle. No, pubblicare questo bollettino ha senso per me perché partecipa, talvolta in modo adeguato e talvolta probabilmente meno, a una progettualità più ampia, che va ben oltre questi fogli mensili messi a disposizione.

Ed ecco il ma. Io non posso, non voglio, sovraccaricare le cose fatte di un senso maggiore di quello che hanno. D’altra parte posso, e voglio, dare alle cose da fare un significato più ampio quando sono collegate, quando si parlano, quando sono pensate in un insieme all’interno di un progetto, ovviamente provvisorio e certo non come un programma da realizzare. Ogni cosa, presa singolarmente, assumerà allora un altro colore, un altro gusto, qualora venga pensata così. La diffusione di volantini, ad esempio, che può diventare presto una routine deludente, può trasformarsi in altro se è pensata in relazione a un progetto. L’incendio di un’antenna, cosa magari un po’ più complicata di una semplice passeggiata notturna, echeggia in modo diverso quando un simile attacco s’inserisce in un più ampio progetto che parta da un’analisi della società contemporanea, o dal ruolo della comunicazione digitale nella riproduzione dei rapporti sociali e nell’economia capitalista. La pratica di questo genere di sabotaggi contro obiettivi sparsi un po’ dovunque, facilmente identificabili, aventi una funzione importante nel buon funzionamento della società, potrebbe quindi potenzialmente diffondersi come proposta concreta per opporsi alla duplicazione digitale del mondo e all’inaudita schiavitù di cui è portatrice. Allo stesso modo, organizzarsi in base alle affinità assume ancor più significato se si inserisce in un progetto che tenda verso, o preveda, la possibilità di un coordinamento, di un’organizzazione informale tra diversi gruppi d’affinità, ovvero con altri individui uniti in forme organizzate miranti ad attaccare le strutture del dominio.

Molti di noi, ciascuna e ciascuno a modo proprio, ne hanno abbastanza di frequentare assemblee tenute da piccoli politicanti, di vedere le nostre aspirazioni frenate da un ambiente tendente alla mediocrità e al realismo, di partecipare a lotte e a cortei dove siamo chiamati a ricoprire il ruolo di «radicali di servizio» approntato per noi dai fautori della strategia dei «rapporti di forza», di ritrovarci al rimorchio di autoritari e gestori dei conflitti. Se tu che stai leggendo non avverti questo e continui a vedere un senso nel possibilismo radicale, buona fortuna, queste righe ti saranno di ben poca utilità. Perché ciò che stiamo proponendo è di farla finita con tutto questo, pur consapevoli che ciò che viene buttato fuori dalla porta potrebbe rientrare insidiosamente dalla finestra. Perché abbiamo bisogno di questa rottura. Negli ultimi anni del resto sta emergendo un po’ dovunque in questo maledetto Esagono, ovviamente nei modi di volta in volta più disparati. Stanchi di correre dietro all’ennesimo movimento sociale e di ritrovarsi in balìa di neo-blanquisti di ogni genere, parecchi anarchici, anti-autoritari, nichilisti, singoli individui agiscono, attaccano e cercano di intervenire da diversi anni nella realtà in mille modi differenti in tutto il territorio, coi propri tempi e in piena autonomia. Sta così dipanandosi una profusione di azioni dirette, per di più in un contesto sociale (poco importa che sia più o meno apprezzato) agitato da cui scaturiscono anche riflessioni e pratiche nuove, a volte può darsi confuse, ma almeno non irreggimentate negli stretti recinti della «mobilitazione sociale» e delle sue corti di militanti.

È per questo che intendiamo qui esortare, suggerire, una riflessione su quella che definiamo «progettualità». E precisiamo subito che non si tratta di una proposta per una progettualità, ma magari per delle progettualità, perché la ricchezza di approcci che si scorgono oggi nell’agire delle compagne e dei compagni non deve in nessun caso essere legata al letto di Procuste perché si adatti a un qualsivoglia «progetto unico». Il confronto, lo scambio, la comprensione reciproca delle diverse progettualità è possibile solo qualora queste vengano enunciate, delineate — con la parola scritta o sussurrate all’orecchio, in maniera dettagliata o almeno abbozzate. Lungi da ogni logora «professione di fede», perché non creare delle connessioni tra l’idea e l’intervento nella realtà, contro la realtà? In questo, la discussione potrebbe diventare, ed è forse il momento, eminentemente operativa, vale a dire concernente prospettive concrete a breve e medio termine, con un elenco delle cose che si potrebbero fare, fino alle ipotesi di ciò che si ritiene di poter condurre in modo conflittuale in questa realtà, di come quest’ultima potrebbe svilupparsi, modificarsi, trasformarsi alla luce del nostro intervento. Una vana chiacchiera? Non credo. Difficile? Probabile.

Da «parte nostra», ovvero da questi fogli che escono ormai da due anni, potremmo enunciare un progetto maturato in maniera informale in quest’ultimo periodo (vale a dire, senza un centro e tramite contributi diretti e indiretti), attraverso numerosi scritti, scambi ed esperimenti. Partendo da un approccio insurrezionale dell’anarchismo che ci è caro, da un anarchismo cioè basato sull’auto-organizzazione, l’autonomia, l’informalità e l’attacco, ci sembra che un tale progetto dovrebbe nel contempo continuare ad analizzare l’evoluzione dello Stato, la ristrutturazione tecnologica dell’economia e della società, e l’intreccio di questa ristrutturazione con le guerre, l’abbrutimento, la perdita del linguaggio e l’assalto all’interiorità degli esseri umani. Tali analisi portano a considerare «la guerra sociale» non in base a criteri classici (scontro tra sfruttati e sfruttatori, più o meno mediati dalle diverse strutture di gestione come il partito o il sindacato), ma piuttosto come un insieme, contraddittorio e complesso, tra lotte specifiche che si articolano contro una precisa struttura o nocività del potere, esplosioni di rabbia — espressione di una diffusa ma molto effimera insofferenza —, mobilitazioni di massa che sfuggono alla mediazione politica classica (come i gilet gialli), o anche interventi più specificamente «anarchici» che tendono alla disorganizzazione, alla destabilizzazione della ristrutturazione tecnologica della società.

Mettendo da parte i primi tre ambiti — per il momento, anche perché altri sono probabilmente nella posizione migliore per farlo, in particolare per quanto riguarda le lotte specifiche in corso — possiamo abbozzare una possibile progettualità su questo quarto aspetto. Essa consiste grosso modo nel proporre come campo d’intervento le infrastrutture, spesso facilmente identificabili, che oggi permettono in gran parte il funzionamento della società connessa: i trasporti, l’energia, la comunicazione. Se solo l’insurrezione può aprire orizzonti veramente altri, rivoluzionari, si può comunque già agire senza attendere che rallenti la corsa del treno del dominio che avanza a tutta velocità verso l’abisso, o anche tentare di farlo deragliare. L’eventualità che una proliferazione di attacchi contro queste infrastrutture possa portare ad una significativa destabilizzazione, ovvero ad una rivolta di massa, non può certo essere garantita (comunque sia, eterna diffidenza verso tutti coloro che ci invitano ad agire sbandierando garanzie), pur non essendo esclusa. Lo si è potuto vedere di recente in Cile, dove il sabotaggio dei trasporti pubblici nella capitale all’interno di una contestazione, ci sia permesso di dirlo, piuttosto banale, contro l’aumento del prezzo dei biglietti, ha, se non scatenato, almeno fatto da scintilla o favorito una rivolta di grande ampiezza. È un’ipotesi, né più né meno, ma che pone in ogni caso questioni operative immediate in ciò che c’è da pensare, preparare e fare.

Inoltre, al di là dei quattro gatti anarchici sparsi qui e là, si può constatare che anche diversi conflitti locali sono incentrati sulle infrastrutture. Qui a venir contestata è la costruzione di un parco eolico, là è una linea dell’alta tensione; altrove, ci si oppone all’apertura di una miniera, all’installazione di un ripetitore o di un apparato 5G (questa mostruosità ancora sottovalutata per ciò che realmente inaugura: un’interconnessione di ogni oggetto, ossia una rete invisibile che collegherà tutto al dominio). Molti di questi conflitti presentano certamente forti connotazioni cittadiniste, ma si vede anche come possano essere più inclini a favorire la pratica del sabotaggio che quella del pettegolezzo: non si discute con una struttura ostile, la si distrugge.

A chi ritiene che una tale progettualità sia extra-terrestre e, considerata l’adesione entusiasta delle masse alle protesi tecnologiche, che rimanga appannaggio volontarista di qualche illuminato, potremmo rispondere evidenziando i piccoli conflitti che brulicano un po’ dovunque, ma anche tutti quei piccoli gruppi che già hanno deciso di colpire questo tipo di strutture specifiche durante il movimento dei gilet gialli.

Tuttavia, la cosa più importante non è nemmeno questa. La cosa più importante è che una tale progettualità (e — lo ripetiamo, perché sarebbe davvero un peccato essere fraintesi su questo punto — senza escluderne altre, a condizione che siano argomentate e discutibili, altrimenti riguardano solo chi le sviluppa, senza aggiungere altro), una tale progettualità, quindi, potrebbe contenere diversi aspetti dell’intervento rivoluzionario. Essa ci permetterebbe di abbandonare nettamente dei percorsi che non sono i nostri e che possono solo condurre alla cogestione, alla politica, alla riproduzione di miti confortanti sulle «masse», gli «sfruttati», i «proletari», per imboccare una via che sia nostra, che ci appartenga, anche a costo di sbagliare (auspicando di avere la capacità di valutarlo in maniera critica costantemente, ma andando fino in fondo alle cose piuttosto che a metà). Su questa strada, tutto è da scoprire, anche se possiamo attingere a certe esperienze del passato e soprattutto cogliere i suggerimenti che la realtà ci lancia di continuo.

Infine, il fatto di rifiutare la centralizzazione e preferire la diffusione e l’ordine sparso all’accentramento, l’agire in pochi alla manifestazione di massa, l’autonomia materiale e mentale al programma da realizzare, offrirebbe a tale progettualità delle qualità non insignificanti.

Traduzione tratta da Finimondo

Fonte: Avis de Tempetes

Avis de Tempêtes Numero 26 PDF