In questi giorni un nuovo incubo si sta
diffondendo: il contagio dal cosiddetto Coronavirus. Dieci paesi del
lodigiano, considerati il focolaio del contagio, e un paese del Veneto,
dove è stato accertato il primo morto del virus, sono stati messi in
quarantena. Questo significa nessuna possibilità per le persone di
muoversi e di spostarsi dalle proprie abitazioni. In tutta la Lombardia,
il potere costringe le persone ad autolimitare la propria mobilità
sociale. Dalla chiusura dei luoghi di aggregazione al coprifuoco, il
passo è breve. Prigionieri di se stessi e di un qualcosa di
impercettibile allo sguardo umano, il governo pastorale ha addirittura
ordinato attraverso un decreto lampo di chiudere le strade e ha
rinforzato il presidio di polizia ed esercito, intimando che se qualcuno
non dovesse rispettare gli ordini statali potrebbe anche subire
l’arresto. A epidemia sociale, il potere non può che rispondere con
repressione e sorveglianza. La caccia all’untore è iniziata.
Un nuovo spettro si aggira intorno a noi e la sua forza è la sua presunta veridicità medica e il potere di cancellare in un baleno altri spettri invisibili all’occhio umano. Bizzarro che quando si parla di morte veloce l’epidemia sociale diviene urgenza. Quando la morte si installa nella vita, tutto torna al mondo della catastrofe. L’emergenza non s’ha da fare quando i luoghi in cui abitiamo divengono irrespirabili per l’industrializzazione e per il mondo-macchina? Niente emergenza quando le necrocolture OGM devastano l’aria che respiriamo e il cibo che ingurgitiamo? Niente emergenza anche quando stiamo ancora mangiando da una terra radioattiva e contaminata dal disastro nucleare di Chernobyl del 1986? E Fukushima, dove i tecnici nucleari di quella zona annunciano che l’unico modo di fermare la radioattività in atto è lo sversamento delle scorie nell’oceano? Con questa epidemia sembra che le certezze dell’esperto di turno siano crollate in 24 ore. E quando cadono delle certezze, il caos è dietro l’angolo.
Aforismi sul disastro
Questa è la prima epidemia globalizzata.
Non globale, attenzione, ma globalizzata. Ci sono sempre state epidemie
che hanno attraversato i continenti, si sono allargate a macchia
d’olio, hanno causato morti e dolori. Questa tuttavia è la prima
epidemia virale che attraversa un mondo in cui gli individui sono sempre
più simili tra di loro, le condizioni di vita sempre più
standardizzate, le abitudini di consumo omologate.
Qual’è il ruolo ecologico della
malattia? In questo periodo di esperti, dove il posto principe è
riservato alla presunta scienza medica, poco si affronta questo tema.
Dove ha fallito la Cop 21 potrebbe riuscirci il 2019n-CoV. La malattia, e
la morte da essa derivante, vengono rifuggite solo in un mondo che
della perpetuazione di sé stesso ha fatto mitologia. Non si può pensare
che in luoghi dove milioni di persone vivono ammassate, abusando di
antibiotici e cibo spazzatura, non si generino questi fenomeni. La
questione ecologica trova soluzione anche nella diminuzione quantitativa
degli esseri umani, oltre che sulla necessaria trasformazione
qualitativa della loro vita.
In fondo cosa abbiamo di diverso dalle Pinne nobilis? Questi amabili parenti delle cozze vivevano felicemente nelle immense praterie subacquee di Posidonia ocenanica. L’essere umano ha distrutto le praterie dove vivevano, li hanno pescati per farne souvenir ed aperto nuove vie di comunicazione attraverso i mari (Canale di Suez). Ora un batterio sta sterminando i pochi individui rimasti. O siamo forse come le patate irlandesi, tutte uguali, coltivate in monocoltura intensiva. Ettari di patate, cloni di altre patate, con le stesse caratteristiche, gli stessi punti deboli. Basta un parassita perché vengano spazzate via. Si chiede il genetista Lewontin nel suo libro “Biologia come ideologia”: a causare l’esplosione della tubercolosi nell’ottocento è stato un batterio o sono state le condizioni di vita nelle fabbriche?
Ci dicono di non uscire di casa, di non
abbracciare le persone che amiamo, oltre quali confini o strade non
possiamo andare. Ci dicono che rischiamo la vita. Ma quale vita? Forse
la non vita che anche in precedenza sopportavamo, in cui la quarantena
era l’abitacolo della nostra monovolume ferma in tangenziale? O che
fosse l’isolamento nell’appartamento, vera e propria cella di un immenso
alveare di cemento? E se il rifiuto delle prescrizioni, l’inabissamento
nel caos delle possibilità di questo mondo incrostato portasse
attraverso la malattia un rinnovamento talmente profondo da renderci
necessario accarezzare la morte per stringere la vita? Quando è
possibile solo il telelavoro e la socialità passa tutta da internet, le
antenne e ciò che le alimenta diventano condizione necessaria per
mantenere l’ordine sociale di fronte al disordine dei sogni.
Eduardo De Filippo, in Napoli Milionaria, scriveva che per risollevarsi dalla guerra occorreva sopravvivere al dopoguerra. Adda passà a nuttata, sospirava riferendosi alla figlia malata. Anche noi viviamo nel mezzo di una malattia, un’escrescenza tumorale che colpisce le relazioni tra esseri umani e con l’ambiente che li circonda. Stato, Capitale, Sistema Tecnico. La febbre è la reazione del corpo di fronte ad un invasione esterna. Dalla febbre può passare una possibilità di liberazione?
Quando senti il lupo belare, se sei una
pecora preoccupati. Al potere non interessa la nostra felicità,
interessa che continuiamo a produrre, a vivere all’interno degli schemi
di sfruttamento e sopravvivenza. Quando lo Stato chiede collaborazione
che trovi meravigliosa diserzione.
Molte civiltà sono state distrutte dalla malattia. Più una civiltà è complessa ed impone la disciplina per poter sopravvivere più è fragile. Mentre l’esercito e la polizia sorvegliano i malati, i nervi restano scoperti. Bloccare questa società, interromperne le linee di approvvigionamento è un gesto quanto mai comprensibile e desiderabile: di fronte all’abisso del disastro ecologico e dell’annichilimento quotidiano le possibilità restano desideri che finalmente possiamo trovare il modo di esprimere. E bloccare il nostro ruolo sociale del non poterci far niente.
Cosa resta quando viene meno lo Stato?
Cosa resta quando viene meno la fiducia nello Stato? Cosa resta quando
lo Stato deve sparare ai suoi sudditi che non vogliono restare rinchiusi
nelle zone di quarantena? Cosa accade quando lo Stato si dimostra
incapace di governare e di proteggere? La possibilità.
Caracremada correva da solo sui Pirenei
rincorrendo la possibilità dell’abbattimento della dittatura di Franco,
noi potremmo un domani trovarci rinchiusi con altri individui a
fronteggiare da un lato il morbo e dall’altro lo Stato.
Riappassionare la vita
Il linguaggio che non sa più esprimesi è
ancora comprensibile. Esso interrompe l’oblio. Di fronte al più
scoraggiante dei deserti, la foresta della conoscenza e della
prospettiva. Ogni costruzione è un simulacro di detriti e la sua forma
non è nulla di nuovo. Per questo le forme vanno distrutte.
Lautréamont diceva che la poesia poteva essere fatta da tutti, non da uno. La scienza, invece, può essere solo il baluardo degli esperti. Per questo la poesia è lo scarto assoluto con la scienza. E questa è una tappa fondamentale per andare alla ricerca dell’oro del tempo contro la mercificazione scientifica della sopravvivenza in quarantena, restituendo al pensiero la sua spontaneità. Oltrepassato l’orrore, tutto quanto è immaginabile.
Per dirla alla Breton:
Piuttosto la vita con i sui drappi di congiura Le sue cicatrici da evasione Piuttosto la vita piuttosto la borchia sulla mia tomba La vita della presenza unicamente della presenza Dove una voce chiede Sei qui dove un’altra risponde Sei qui Io purtroppo ci sono appena E però se facessimo il gioco di quel che facciamo morire Piuttosto la vita
dalle zone del virus e oltre, alcuni superstiti delle onde frante
La realtà che ci circonda è vasta. La detestiamo, perché traspira oppressione e sfruttamento. L’aborriamo, perché malgrado tutte le teorie e tutte le spiegazioni, malgrado l’odio che auspichiamo feroce tra le classi, malgrado le mille spiegazioni fornite per giustificare non solo l’acquiescenza ma perfino l’adesione al potere di grandi masse di oppressi, siamo costretti a constatare — mandando all’aria le mille mistificazioni vittimiste — che questa realtà è in gran parte il risultato della servitù volontaria. A partire da questo, abbiamo davanti due strade. O rinunciamo a qualsiasi interazione con questa realtà, cercando di forgiarci una vita — l’unica che abbiamo — che valga ancora la pena d’essere vissuta… sarebbe comprensibile. Oppure cerchiamo di interagire con questa realtà, affrontandola con le nostre idee e i nostri desideri sovversivi, col rischio di venire fagocitati da essa e di finire per unirci alla grande marcia funebre dell’umanità.
In effetti, queste due strade non sono poi così distanti come si potrebbe pensare. Fuggendo, ci scontriamo comunque con la realtà; viceversa, anche intervenendovi, le consegniamo la nostra parte di un altro mondo, quello che creiamo in modo impreciso dentro di noi. Solo la morte può porre fine a tutte le interazioni — per quanto, a ben guardare e senza cadere nel culto della carogna, anche la morte può avere un significato nella realtà. Lasciando da parte una prospettiva che vorrebbe «uscire» dal mondo, trovare o costruire un «al di fuori», quali sono le condizioni per un’interazione, per un intervento rivoluzionario nella realtà? Dato che questo aggettivo ha perso molto del suo significato negli ultimi decenni, precisiamo fin d’ora che per «rivoluzionario» intendiamo la tensione trasformatrice, lo sconvolgimento dei rapporti sociali esistenti — cosa ben diversa dall’associarlo in modo semplicistico all’avvento di una «Grande Sera» in cui folle ebbre di rivolta uscissero in strada per cambiare tutto da un giorno all’altro. Di fronte alla realtà che aborriamo, come possiamo dunque decidere di intervenirvi, consci di non essere stelle cadenti sbucate dal nulla, ma che le nostre idee, le nostre aspirazioni, per quanto differenti siano, sono pure influenzate da questa stessa realtà — in sostanza, che non siamo esseri caduti dal cielo, ma individui in carne e ossa cresciuti in questo mondo?
È sicuramente difficile cogliere tutti gli aspetti di quello che chiameremo «intervento rivoluzionario». Invece di chiederci che cosa ne faccia parte, non potremmo cominciare con quanto non ne fa parte? È una prima distinzione necessaria che caratterizza l’anarchismo, o perlomeno certi approcci all’anarchismo. L’anarchico non vive due vite — anche se le condizioni di clandestinità, d’illegalità, di segretezza, inseparabili da qualsiasi lotta, possono talvolta portare ad uno stato di schizofrenia alquanto affliggente. Non si è lavoratori al mattino quando ci si reca al lavoro e anarchici la sera quando si va ad incontrarsi coi compagni al locale vicino. L’anarchico non è un «militante», nel senso che non può, a meno di trasformare il proprio anarchismo in un mero programma politico tra gli altri, dividere la sua vita, il suo tempo, tra attività dedicate alla «militanza» e attività dedicate alla sua «vita». In lui alberga una tensione permanente, che talvolta può perfino diventare una vera lacerazione — che può condurlo, non di rado, a rinunciare a tutto e a ridiventare «una pecora in mezzo al gregge». Poiché non crede nelle forze sotterranee che spingerebbero ineluttabilmente il mondo verso la libertà, né nei meccanismi economici che porterebbero all’emancipazione (cosa che rendeva compatibile, per un Friedrich Engels, essere al tempo stesso padrone di un cotonificio per vent’anni e, diciamo, lottare per la causa del proletariato), ha un rapporto innanzitutto etico con ogni aspetto della sua vita. Le sue scelte, i suoi atti, le sue rinunce, lo definiscono anarchico, forse più delle idee di cui discute con i compagni o delle minacce apocalittiche che magari rivolge al dominio seduto in un bar. Non «milita», «è» un anarchico, anarchico inteso non come acquisizione di certe idee e pratiche, ma, per l’appunto, in relazione alla tensione tra ciò che pensa, ciò che vuole, ciò che vive e ciò che fa. Prima ancora di affrontare «l’intervento rivoluzionario», vediamo già una moltitudine di problemi aprirsi davanti a noi.
Non si può pensare all’intervento rivoluzionario esclusivamente come ad una battaglia d’idee. Se l’approfondimento delle idee è importante, non è né immaginabile né possibile trasformare la realtà sulla base di un dibattito pubblico o di una contraddizione logica. I libri, i testi, fanno certo parte dell’attività di un rivoluzionario, ma un libro non è un’arma. Un libro può corrodere pregiudizi e ideologie (che contribuiscono, senza dubbio, a questa spaventosa «servitù volontaria» che conduce le masse, mentre cantano, verso il macello), ma non può abbattere un padrone o demolire una prigione . Per abbattere un padrone occorre un’arma; per demolire una prigione occorrono strumenti di distruzione. Ma prendere un’arma in mano non ci rende ancora capaci di abbattere un padrone: per far ciò, dovremmo essere convinti che è giusto, che è adeguato, che ha un senso abbattere il padrone. Come vediamo, non si possono sbrogliare tutti gli aspetti dell’intervento rivoluzionario senza parlare di nuovo al vento.
Le nostre idee allora sono solo fortezze astratte? Analizziamo questa società e comprendiamo come il padrone, tutti i padroni, debbano essere soppressi se vogliamo andare verso una società «senza Dio né padroni». Ma nella realtà non s’incontrano «tutti i padroni», è un’astrazione che rende l’idea concepibile per la ragione, ma non immediatamente operativa nella realtà. Quello che noi possiamo trovare è quel padrone, un padrone, diversi padroni riuniti magari attorno a un tavolo in una birreria parigina. Per cui non c’è da stupirsi quando, traboccanti d’idee sanguinarie di vendetta contro «tutti i padroni», si rischia di ritrovarsi piuttosto disarmati di fronte ad un padrone concreto, pur avendo il coltello tra i denti. Ecco perché tra le idee anarchiche e la realtà del dominio bisognerebbe immaginare e costruire un ponte, un’incursione. Questa è forse la definizione più ampia da poter dare nel parlare di «progetto» e di «progettualità».
Mettendo assieme tutti gli aspetti dell’intervento rivoluzionario, è possibile superare una fase ancora più difficile: immaginarli insieme per costruire un progetto che ci consenta di intervenire nella realtà. Ma attenzione, compagne e compagni che state leggendo, non è una chiacchiera o una masturbazione mentale. Questo tipo di progetto, così inteso, è qualcosa di ben altro che fare questo o quello, pubblicare un giornale o scrivere un libro, fare una rapina o incendiare una industria, organizzare una riunione o far crescere un orto. Cerca di includere, se non tutti, almeno quanti più aspetti è possibile dell’intervento rivoluzionario, per orientarli verso qualcosa da trasformare nella realtà. Ovviamente si può argomentare che fare un bollettino anarchico come questo abbia senso di per sé, che è comunque interessante contribuire all’approfondimento delle idee e alla fermentazione della discussione. Ovviamente si può dire che un attacco contro una struttura del dominio è sempre benvenuto ed è significativo, al di là di qualsiasi prospettiva più ampia in cui sia inserito (o meno). È vero, però c’è un ma… Se si fanno le cose per nostra stretta soddisfazione personale, perché no, la riflessione può anche fermarsi là, senza il bisogno di sovraccaricarsi con altre domande. Ma osiamo dire che un simile approccio corre il forte rischio di mordersi la coda, di svuotarsi dall’interno, perché la soddisfazione personale ne richiede sempre un’altra, più lontana, e così via fino a quando ci si rende conto o che non c’è più nulla da soddisfare (si è «vuoti»), o che non si è più capaci di soddisfare se stessi (e sopraggiungono la depressione e l’amarezza). Se, viceversa, vogliamo caricare ciò che facciamo di un significato che vada oltre il nostro desiderio individuale, di un significato che possa parlare anche agli altri (e perché no, al mondo intero), si è portati a pensare le cose in modo diverso, occorre pensarle altrimenti.
Per riprendere l’esempio di questo bollettino, se fosse solo per la soddisfazione di scrivere qualche (bella, a seconda dei gusti) parola sull’anarchia, vi posso dire in tutta franchezza che smetterei subito. Il mondo è già pieno di belle parole sull’anarchia, che sono là, alla portata di chiunque voglia afferrarle. No, pubblicare questo bollettino ha senso per me perché partecipa, talvolta in modo adeguato e talvolta probabilmente meno, a una progettualità più ampia, che va ben oltre questi fogli mensili messi a disposizione.
Ed ecco il ma. Io non posso, non voglio, sovraccaricare le cose fatte di un senso maggiore di quello che hanno. D’altra parte posso, e voglio, dare alle cose da fare un significato più ampio quando sono collegate, quando si parlano, quando sono pensate in un insieme all’interno di un progetto, ovviamente provvisorio e certo non come un programma da realizzare. Ogni cosa, presa singolarmente, assumerà allora un altro colore, un altro gusto, qualora venga pensata così. La diffusione di volantini, ad esempio, che può diventare presto una routine deludente, può trasformarsi in altro se è pensata in relazione a un progetto. L’incendio di un’antenna, cosa magari un po’ più complicata di una semplice passeggiata notturna, echeggia in modo diverso quando un simile attacco s’inserisce in un più ampio progetto che parta da un’analisi della società contemporanea, o dal ruolo della comunicazione digitale nella riproduzione dei rapporti sociali e nell’economia capitalista. La pratica di questo genere di sabotaggi contro obiettivi sparsi un po’ dovunque, facilmente identificabili, aventi una funzione importante nel buon funzionamento della società, potrebbe quindi potenzialmente diffondersi come proposta concreta per opporsi alla duplicazione digitale del mondo e all’inaudita schiavitù di cui è portatrice. Allo stesso modo, organizzarsi in base alle affinità assume ancor più significato se si inserisce in un progetto che tenda verso, o preveda, la possibilità di un coordinamento, di un’organizzazione informale tra diversi gruppi d’affinità, ovvero con altri individui uniti in forme organizzate miranti ad attaccare le strutture del dominio.
Molti di noi, ciascuna e ciascuno a modo proprio, ne hanno abbastanza di frequentare assemblee tenute da piccoli politicanti, di vedere le nostre aspirazioni frenate da un ambiente tendente alla mediocrità e al realismo, di partecipare a lotte e a cortei dove siamo chiamati a ricoprire il ruolo di «radicali di servizio» approntato per noi dai fautori della strategia dei «rapporti di forza», di ritrovarci al rimorchio di autoritari e gestori dei conflitti. Se tu che stai leggendo non avverti questo e continui a vedere un senso nel possibilismo radicale, buona fortuna, queste righe ti saranno di ben poca utilità. Perché ciò che stiamo proponendo è di farla finita con tutto questo, pur consapevoli che ciò che viene buttato fuori dalla porta potrebbe rientrare insidiosamente dalla finestra. Perché abbiamo bisogno di questa rottura. Negli ultimi anni del resto sta emergendo un po’ dovunque in questo maledetto Esagono, ovviamente nei modi di volta in volta più disparati. Stanchi di correre dietro all’ennesimo movimento sociale e di ritrovarsi in balìa di neo-blanquisti di ogni genere, parecchi anarchici, anti-autoritari, nichilisti, singoli individui agiscono, attaccano e cercano di intervenire da diversi anni nella realtà in mille modi differenti in tutto il territorio, coi propri tempi e in piena autonomia. Sta così dipanandosi una profusione di azioni dirette, per di più in un contesto sociale (poco importa che sia più o meno apprezzato) agitato da cui scaturiscono anche riflessioni e pratiche nuove, a volte può darsi confuse, ma almeno non irreggimentate negli stretti recinti della «mobilitazione sociale» e delle sue corti di militanti.
È per questo che intendiamo qui esortare, suggerire, una riflessione su quella che definiamo «progettualità». E precisiamo subito che non si tratta di una proposta per una progettualità, ma magari per delle progettualità, perché la ricchezza di approcci che si scorgono oggi nell’agire delle compagne e dei compagni non deve in nessun caso essere legata al letto di Procuste perché si adatti a un qualsivoglia «progetto unico». Il confronto, lo scambio, la comprensione reciproca delle diverse progettualità è possibile solo qualora queste vengano enunciate, delineate — con la parola scritta o sussurrate all’orecchio, in maniera dettagliata o almeno abbozzate. Lungi da ogni logora «professione di fede», perché non creare delle connessioni tra l’idea e l’intervento nella realtà, contro la realtà? In questo, la discussione potrebbe diventare, ed è forse il momento, eminentemente operativa, vale a dire concernente prospettive concrete a breve e medio termine, con un elenco delle cose che si potrebbero fare, fino alle ipotesi di ciò che si ritiene di poter condurre in modo conflittuale in questa realtà, di come quest’ultima potrebbe svilupparsi, modificarsi, trasformarsi alla luce del nostro intervento. Una vana chiacchiera? Non credo. Difficile? Probabile.
Da «parte nostra», ovvero da questi fogli che escono ormai da due anni, potremmo enunciare un progetto maturato in maniera informale in quest’ultimo periodo (vale a dire, senza un centro e tramite contributi diretti e indiretti), attraverso numerosi scritti, scambi ed esperimenti. Partendo da un approccio insurrezionale dell’anarchismo che ci è caro, da un anarchismo cioè basato sull’auto-organizzazione, l’autonomia, l’informalità e l’attacco, ci sembra che un tale progetto dovrebbe nel contempo continuare ad analizzare l’evoluzione dello Stato, la ristrutturazione tecnologica dell’economia e della società, e l’intreccio di questa ristrutturazione con le guerre, l’abbrutimento, la perdita del linguaggio e l’assalto all’interiorità degli esseri umani. Tali analisi portano a considerare «la guerra sociale» non in base a criteri classici (scontro tra sfruttati e sfruttatori, più o meno mediati dalle diverse strutture di gestione come il partito o il sindacato), ma piuttosto come un insieme, contraddittorio e complesso, tra lotte specifiche che si articolano contro una precisa struttura o nocività del potere, esplosioni di rabbia — espressione di una diffusa ma molto effimera insofferenza —, mobilitazioni di massa che sfuggono alla mediazione politica classica (come i gilet gialli), o anche interventi più specificamente «anarchici» che tendono alla disorganizzazione, alla destabilizzazione della ristrutturazione tecnologica della società.
Mettendo da parte i primi tre ambiti — per il momento, anche perché altri sono probabilmente nella posizione migliore per farlo, in particolare per quanto riguarda le lotte specifiche in corso — possiamo abbozzare una possibile progettualità su questo quarto aspetto. Essa consiste grosso modo nel proporre come campo d’intervento le infrastrutture, spesso facilmente identificabili, che oggi permettono in gran parte il funzionamento della società connessa: i trasporti, l’energia, la comunicazione. Se solo l’insurrezione può aprire orizzonti veramente altri, rivoluzionari, si può comunque già agire senza attendere che rallenti la corsa del treno del dominio che avanza a tutta velocità verso l’abisso, o anche tentare di farlo deragliare. L’eventualità che una proliferazione di attacchi contro queste infrastrutture possa portare ad una significativa destabilizzazione, ovvero ad una rivolta di massa, non può certo essere garantita (comunque sia, eterna diffidenza verso tutti coloro che ci invitano ad agire sbandierando garanzie), pur non essendo esclusa. Lo si è potuto vedere di recente in Cile, dove il sabotaggio dei trasporti pubblici nella capitale all’interno di una contestazione, ci sia permesso di dirlo, piuttosto banale, contro l’aumento del prezzo dei biglietti, ha, se non scatenato, almeno fatto da scintilla o favorito una rivolta di grande ampiezza. È un’ipotesi, né più né meno, ma che pone in ogni caso questioni operative immediate in ciò che c’è da pensare, preparare e fare.
Inoltre, al di là dei quattro gatti anarchici sparsi qui e là, si può constatare che anche diversi conflitti locali sono incentrati sulle infrastrutture. Qui a venir contestata è la costruzione di un parco eolico, là è una linea dell’alta tensione; altrove, ci si oppone all’apertura di una miniera, all’installazione di un ripetitore o di un apparato 5G (questa mostruosità ancora sottovalutata per ciò che realmente inaugura: un’interconnessione di ogni oggetto, ossia una rete invisibile che collegherà tutto al dominio). Molti di questi conflitti presentano certamente forti connotazioni cittadiniste, ma si vede anche come possano essere più inclini a favorire la pratica del sabotaggio che quella del pettegolezzo: non si discute con una struttura ostile, la si distrugge.
A chi ritiene che una tale progettualità sia extra-terrestre e, considerata l’adesione entusiasta delle masse alle protesi tecnologiche, che rimanga appannaggio volontarista di qualche illuminato, potremmo rispondere evidenziando i piccoli conflitti che brulicano un po’ dovunque, ma anche tutti quei piccoli gruppi che già hanno deciso di colpire questo tipo di strutture specifiche durante il movimento dei gilet gialli.
Tuttavia, la cosa più importante non è nemmeno questa. La cosa più importante è che una tale progettualità (e — lo ripetiamo, perché sarebbe davvero un peccato essere fraintesi su questo punto — senza escluderne altre, a condizione che siano argomentate e discutibili, altrimenti riguardano solo chi le sviluppa, senza aggiungere altro), una tale progettualità, quindi, potrebbe contenere diversi aspetti dell’intervento rivoluzionario. Essa ci permetterebbe di abbandonare nettamente dei percorsi che non sono i nostri e che possono solo condurre alla cogestione, alla politica, alla riproduzione di miti confortanti sulle «masse», gli «sfruttati», i «proletari», per imboccare una via che sia nostra, che ci appartenga, anche a costo di sbagliare (auspicando di avere la capacità di valutarlo in maniera critica costantemente, ma andando fino in fondo alle cose piuttosto che a metà). Su questa strada, tutto è da scoprire, anche se possiamo attingere a certe esperienze del passato e soprattutto cogliere i suggerimenti che la realtà ci lancia di continuo.
Infine, il fatto di rifiutare la centralizzazione e preferire la diffusione e l’ordine sparso all’accentramento, l’agire in pochi alla manifestazione di massa, l’autonomia materiale e mentale al programma da realizzare, offrirebbe a tale progettualità delle qualità non insignificanti.
«Dopo l'invenzione dell'elettricità, il mondo è appeso a un filo»
Constatazione terribile ed affascinante al tempo stesso. Terribile per chi vuole che il mondo sia in perfetto ed incessante funzionamento, dotato di un’energia inesauribile in grado di accrescere all’infinito la volontà di potenza militare, politica ed economica. Allora quel filo va nascosto, va controllato, va sorvegliato, va protetto e difeso in tutte le maniere, perché dalla sua integrità dipende l’ordine nelle strade e nei mercati, nei ministeri e nelle banche, nei pensieri e nei sogni. Affascinante per chi, sapendo che ad essere così appeso non è affatto il mondo, ma un determinato mondo (quello dell’autorità, della merce, dell’industria), vede nella fragilità del legame di questa robusta dipendenza una possibilità di porre fine alla civile obbedienza per fare ingresso nella libertà selvaggia. Allora quel filo va scoperto, nel duplice significato: va trovato e va aperto. Va individuato e va mandato in cortocircuito. Perché quel filo, prima di offuscare le nostre coscienze permettendoci la comodità di avere a disposizione cibi freschi, case tiepide, divertimenti spettacolari, alimenta la distruzione del pianeta attraverso il saccheggio delle risorse naturali, l’avvelenamento delle acque, l’inquinamento dell’aria, scatenando guerre che provocano massacri ed esodi... per non parlare degli effetti che ha su esseri umani privati di ogni originalità ed autonomia mentre fungono da ingranaggi della riproduzione sociale. La potenza collettiva della mega-macchina si basa infatti sull’impotenza individuale di chi la serve — e viceversa. Non ha senso attendere il collasso della civiltà, non ha senso attendere un movimento di protesta di massa che cerchi di impedirlo attraverso un cambio di governo, non ha senso misurare con precisione quanto dista l’apocalittico baratro che già si intravede davanti ai nostri occhi.Occorre bloccate tutto. Se non è la soluzione, di certo è una scommessa — quanto di più sensato si possa fare qui ed ora al fine di strappare il tempo e lo spazio necessari per sperimentare una vita che non conosca istruzioni d’uso. E per bloccare tutto vanno scoperti i fili che riforniscono di energia sia l’oppressione della politica che l’alienazione della società, sia la corsa agli armamenti che il corso dell’economia, sia il potere che la servitù. È quel che tenteremo di fare in queste pagine, coniugando critiche e proposte, riflessioni e documentazioni, passato e presente. Chissà che lungo questo percorso non scopriamo anche un altro filo, quello che dà impulso all’azione legando cuore e testa, sensibilità e intelligenza. Dopo la notte più buia, l’aurora.
Sommario
• La casa del diavolo
• Ladri di fuoco
• Il mondo in un cavo
• Niente di nuovo
• La disperazione è antiquata
• Il freno d’emergenza
• Avversi anche a se stessi
• Corrispondenze
• Impazienti
• Chi assassina la terra
• Meno male...
• Caracremada
Filo scoperto è espressione di alcuni singoli individui che non intendono venire a patti con questo mondo, con chi lo governa e con ciò che lo alimenta, né cedere alle lusinghe di chi pretende che possa esistere uno Stato giusto, una tecnologia neutra, un’energia pulita — per farla finita con la politica, in qualsiasi modo si manifesti. È uno strumento che vuole fornire e ricevere stimoli in grado di affinare uno sguardo critico su quanto ci circonda. Per non agevolare smanie di protagonismo e sudditanze, per non alimentare pregiudizi, per far dialogare in primo luogo le idee, abbiamo deciso di non firmare nessuno scritto, citazioni a parte, né di indicarne la provenienza (come è il caso di alcune libere traduzioni di testi stranieri, che sono stati tagliati e adattati a questo formato). Ciò non implica una non assunzione di responsabilità o la volontà di appropriarsi di testi altrui, tutt’altro: il nostro tentativo è che si sviluppino discussioni a 360°, e se possibile anche di più. Naturalmente, chiunque abbia una qualsiasi critica da fare, precisazioni da aggiungere o commenti da esprimere, chi desidera dialogare con l’autore o l’autrice di un articolo oppure conoscere la fonte di uno scritto, può scrivere alla nostra casella postale elettronica: filoscoperto@riseup.net
Il
calendario di Stato è pieno di commemorazioni. Giorni in cui veniamo
sollecitati per decreto regio a sforzare una memoria sempre più
artificiale su avvenimenti a noi talvolta sconosciuti. I nostri occhi
devono chiudersi su quanto mortifica quotidianamente le nostre vite, per
spalancarsi soltanto su ciò che un tempo travolse le esistenze di
altri.
Manifestazioni,
funzioni, celebrazioni, ci fanno ripercorrere a distanza di sicurezza
quanto ci è stato insegnato sugli orrori del passato per farci sentire
al riparo da ciò che sperimentiamo sulla nostra pelle nel presente.
Le
giornate della Memoria parziale e del Ricordo mistificato sembrano
istituite solo per giustificare e riprodurre gli anni della Rimozione
totale.
Ogni 27
gennaio veniamo invitati a commemorare le vittime dell’Olocausto, i
milioni di ebrei e non ebrei soppressi nei lager nazisti. Affinché
simili tragedie non debbano ripetersi mai più, le autorità elargiscono
onoreficenze ai sopravvissuti o ai loro parenti, inaugurano lapidi a
perenne monito, finanziano Treni della Memoria che conducono i ragazzi a
visitare il lager di Auschwitz. Tutte nobili iniziative. Tuttavia,
prima di arrivare a Cracovia, tutta questa memoria farà tappa anche alla
Risiera di San Sabba (Trieste) — campo di sterminio dotato di forno
crematorio —, a Gonars (Udine), a Renicci di Anghiari (Arezzo), a
Chiesanuova (Padova), a Monito (Treviso), a Fraschette di Alatri
(Frosinone), a Colfiorito (Foligno), a Cairo Montenotte (Savona) e in
tutti i paesi dove all’epoca sorsero campi di concentramento italiani?
No, la
memoria istituzionale è selettiva. Ricorda volentieri gli orrori
perpetrati dallo Stato tedesco, ma solo per far meglio dimenticare
quelli commessi dallo Stato italiano.
Sottolineando
la responsabilità degli altri si cerca di legittimare e rendere
plausibile una propria irresponsabilità in quei fatti lontani, laddove
dovrebbe essere noto che il governo fascista italiano fu il principale
alleato del governo nazista tedesco nonché, in un certo senso,
l’ispiratore.
Ma c’è di
peggio. La messa in mostra degli orrori di ieri serve soprattutto a
coprire gli orrori di oggi, offuscando l’indissolubile legame che li
unisce. La rituale esibizione del Male assoluto nazista è necessaria, va
ripetuta di anno in anno, perché serve a rendere più accettabile il
Male relativo democratico. Così si piangono gli ebrei rinchiusi nei
lager di ieri con l’accusa di aver infestato l’Europa, mentre si tace
sugli immigrati clandestini che vengono rinchiusi sotto i nostri occhi
nei lager di oggi (i Cie) con l’accusa di infestare l’Europa. Si
maledicono i gerarchi nazisti che hanno costruito i vecchi campi di
concentramento, ma si lodano i politici democratici —Verdi e
Rifondazione Comunista inclusi — che hanno costruito quelli nuovi. Ci si
interroga ancora sull’infame collaborazionismo del Sonderkommando, ma
si giustifica il collaborazionismo della Croce Rossa o della
Misericordia.
E questa
rimozione va ben oltre i limiti tracciati dal filo spinato, entra fin
negli aspetti più banali della nostra quotidianità. Tutti rimangono
sgomenti di fronte al numero tatuato sul braccio dei deportati; ma
quanti di noi considerano innocue le carte di identità e i codici
fiscali che riducono l’essere umano ad una cifra da amministrare?
Tutti s’indignano per il clima di paura che regnava all’epoca, ma quanti
invocano quel sistema di videosorveglianza moderno che tratta chiunque
come un nemico da controllare? Più in generale la condanna della guerra e
dei suoi massacri è unanime, ma quanti protestano contro le industrie
belliche o le basi militari presenti sul nostro territorio? Infine, deve
essere perché ogni anno ci rammentiamo quanto era cattivo «l’invasor»
che l’esercito italiano si trova oggi in paesi come l’Iraq o
l’Afghanistan...
Ogni 10
febbraio siamo dunque invitati a commemorare i cosiddetti “martiri delle
foibe”! Qui la retorica del Ricordo sconfina nel puro artifizio, la
storia si fa mito, le parole perdono significato per venire arruolate
dalla propaganda più becera, quella che trasforma una lotta di
liberazione dal nazifascismo in una persecuzione etnica ai danni di
nostri connazionali. Cosa sono le foibe? Chi sarebbero questi martiri da
compiangere? Cavità rocciose assai diffuse nella zona del Carso, le
foibe sono sempre servite per far sparire in fretta i cadaveri causati
da guerre, scontri e regolamenti di conti. Nel corso della storia
queste buche profonde hanno inghiottito un po’ tutti, senza distinzione
di nazionalità (austriaci, italiani, tedeschi, croati, sloveni), di
statuto (militari e civili), o di idee (fascisti e antifascisti). Comode
fosse comuni, insomma, riempite da più parti. Infoiati per i loro
vecchi camerati infoibati, i rappresentanti della destra più o meno
estrema cercano da mezzo secolo di farli passare per buoni e semplici
italiani trucidati da cattivi comunisti slavi mentre si trovavano
casualmente di passaggio in quelle regioni. Al di là del numero dei
cadaveri rinvenuti nelle foibe, gonfiato a dismisura per suscitare
maggiore impressione e rendere più credibile la favola di una
purificazione etnica indiscriminata, è chiaro che questa commemorazione
non è riservata alle vittime della prima guerra mondiale, né a quelle di
vendette private, e tanto meno ai partigiani (italiani e slavi) caduti
in combattimento. Come si vede, anche il ricordo istituzionale è
selettivo.
Fra gli
infoibati commemora solo i «martiri italiani, vittime del comunismo».
Ovvero i miliziani fascisti dediti ai rastrellamenti, gli agenti della
polizia segreta OVRA, i collaborazionisti italiani filonazisti e i
confidenti questurini che trovarono la morte alla fine della seconda
guerra mondiale per mano dei partigiani di Tito, pronti a far nascere un
nuovo regime. Anche in questo caso si opera una doppia rimozione, una
sul passato e l’altra sul presente.
Da un
lato ci si scorda che il governo fascista italiano perseguitò le
popolazioni slovene e croate fin dagli anni 20, costruì anche là dei
campi di concentramento (come quello di Arbe), dichiarò guerra alla
Jugoslavia nel 1941 invadendo parte della Slovenia e della Dalmazia. I
massacri italiani avvenuti in quelle terre, che causarono decine di
migliaia di vittime, seminarono quel vento che più tardi avrebbe
raccolto tempesta. Dall’altro lato, il ricordo della presunta
persecuzione etnica subita non sembra proprio aver impedito alle attuali
autorità italiane di sgomberare i campi rom, nel tentativo di
costringere i loro abitanti (famiglie di uomini, donne, anziani e
bambini) ad un esodo verso i loro cosiddetti paesi d’origine. Come non
notare che l’istituzione della giornata del Ricordo accompagna il
montare del razzismo e della xenofobia in Italia?
Come non
accorgersi che la rivendicazione di un’identità nazionale serve ad
imporre una omologazione che nega ogni differenza, equiparando
sfruttatori e sfruttati, oppressori ed oppressi, aguzzini e vittime?
La sola
memoria che va preservata, il solo ricordo che va coltivato, non è certo
quello degli “italiani, brava gente”, lasciando ai soli tedeschi,
sloveni e croati il ruolo di carnefici.
Gli
orrori del passato come quelli del presente dimostrano che ogni Stato —
qualsiasi esso sia, vecchio o nuovo, occidentale o orientale, governato
dalla destra o dalla sinistra — si fonda sullo sterminio di massa.
L’iprite usata dai militari italiani in Etiopia nel 1935 anticipa il
fosforo usato dai militari statunitensi a Falluja nel 2004.
Ogni
bandiera è imbrattata di sangue, ogni inno nazionale copre urla e
lamenti. Ogni uomo sarà sempre un massacratore e un complice di
massacratori, finché non si deciderà a farla finita con tutti gli
eserciti e con tutti i governi.
Come ogni volta, anche quest’anno si festeggia la giornata della memoria. Le istituzioni si danno un bel da fare nell’istituire i viaggi nei luoghi dell’orrore: i lager nazisti. Un giorno santo per ritrovare un po’ di quella vomitevole purezza del dimenticato, la quale viaggia parallelamente con le atrocità contemporanee. Visitare dei luoghi di tortura e di sterminio può impressionare: questo lo si può intuire. Far riaffiorare un passato funesto, dice qualcuno, è il miglior modo per non scordare. A patto di chiudere gli occhi sui genocidi e le torture di oggi. Tutto lo squallore democratico riesce a reinventarsi le menzogne più cruente. Sopravviviamo in una crudeltà continua, con un viaggio della memoria a portata di mano. La manfrina ideologica di questa giornata è la seguente: dobbiamo ricordare questo passato perché è stato una parentesi atroce della storia. Ecco che la menzogna si completa, il senso di vomito fa il resto. Bisognerebbe essere sinceri ma non è possibile: difendere i privilegi del dominio è qualcosa di ecumenico. Il sacrilegio è capire che il periodo dei lager nazisti non è una parentesi oscura della storia dell’umanità, ma una parte fondamentale della continuazione della storia dell’oppressione. I lager nazisti vengono dopo i genocidi perpetrati dagli occidentali ai danni delle comunità indigene dell’America Latina. Vogliamo parlare degli indiani d’America? E dei buoni cristiani nelle Crociate e nelle Inquisizioni? Cosa pensiamo della prima rivoluzione industriale dove il lager ha iniziato a chiamarsi fabbrica? Ma non solo il passato terrorizza, anche il presente è la continuazione della civiltà del genocidio. Cosa sono i CPR se non lager? E i laboratori di sperimentazione fatti sugli animali, insieme agli allevamenti intensivi? La storia è la storia di continue guerre. Come disse Simone Weil: «Il grande errore in cui cadono quasi tutte le analisi riguardanti la guerra è di considerare la guerra come un episodio di politica estera, mentre è prima di tutto un fatto di politica interna, e il più atroce di tutti.» La memoria è viva se riesce anche a vendicare le atrocità del passato dando respiro ad una possibilità che esse cessino definitivamente. E allora come non ricordare le distruzioni delle carceri nelle rivolte di Londra di fine 800, l’abbattimento della Bastiglia nella rivoluzione francese o le sommosse che portarono tante carceri spagnole nel 1936, durante l’insurrezione contro il fascista Franco, ad essere, finalmente, un cumulo di macerie? E come non sentire i battiti del cuore a mille quando qualche CPT/CIE/CPR viene distrutto dai prigionieri o quando gli animali vengono liberati dalle gabbie di qualche laboratorio scientifico messo a ferro e a fuoco? Forse bisognerebbe porgere la propria sensibilità verso questi fatti, per distruggere i lager di oggi, come quelli di ieri. La memoria, così, diventerebbe un profondo e continuo esercizio di gratitudine.