«La rivoluzione è guerra, e chi dice guerra dice distruzione di uomini e di cose»
Michail Bakunin
Per ogni singolo abitante di questo pianeta Wall Street è sinonimo di business, di affari, di mercato. Wall Street è il centro del capitalismo, il potere del denaro. Al numero 11 di quella strada avvengono infatti le contrattazioni della New York Stock Exchange — la più grande borsa valori del mondo — sebbene il palazzo della Borsa si trovi al 18 di Broad Street, tra gli angoli di Wall Street ed Exchange Place. È qui, nel distretto finanziario di Manhattan, che si giocano i destini dell’umanità. Sulle mutevoli cifre di quei tabelloni che indicano il valore di merci e titoli, ogni giorno si calcolano, si comprano, si vendono, si investono e si incassano i proventi dello sfruttamento ed i profitti della guerra. È qui che i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Dove l’avidità, il cinismo e l’arroganza sono di casa, una “chiamata” può decretare la morte di decine, centinaia, migliaia, se non milioni di esseri umani. Può provocare carestie, devastare eco-sistemi, cancellare paesi interi. È qui che è stato liquidato il prezzo del massacro di Ludlow, della deportazione di Bisbee, dello stesso conflitto mondiale — nella dimora del privilegio, nella chiesa del dollaro, nella cassaforte del potere.
Ed è là, sul lato a nord di Wall Street, all’angolo con Broad Street; là, sotto il palazzo della Tesoreria, accanto all’ufficio della United States Assay; là, di fronte alla banca J. P. Morgan & Company (la principale nel mondo) e ad un cantiere dove la Borsa stava costruendo un annesso — è proprio là, nel cuore pulsante del capitalismo americano e mondiale, che nella tarda mattinata di quel giovedì 16 settembre 1920, cinque giorni dopo l’incriminazione di Sacco e Vanzetti e ad un mese dalla sentenza di condanna di Vanzetti, avanzava un carretto trascinato da un cavallo. Era l’ora di punta, la strada era affollata di impiegati e fattorini che correvano su e giù indaffarati. Nessuno sembrò notare il conducente salire col carretto sul marciapiede, fermarsi davanti alla sede dell’Assay, direttamente di fronte alla banca Morgan, scendere ed allontanarsi.
La Chiesa Trinity di Broadway non aveva ancora battuto mezzogiorno, ma l’orologio della Assay segnava già le 12.01. In quel preciso istante Wall Street cessò d’essere il paradiso dei capitalisti per diventare il loro inferno sulla terra. Una quantità imprecisata di esplosivo, ricoperto da chili e chili di pesanti pezzi di metallo, esplose scatenando una tempesta di fuoco e acciaio che sventrò la strada spazzando via ogni cosa. Dal carretto, terribile e spietata, era sorta la nemesi.
Chi non era stato falciato, rimase sconvolto. «Mi stavo apprestando a svoltare ed è sembrata la fine del mondo», dirà un tassista. «Ho visto due fiammate che sembravano avvolgere tutta Wall Street e raggiungere in altezza il decimo piano dei palazzi», dirà un esportatore. «È stato il rumore più potente che abbia mai sentito in vita mia. Bastava quello a metterti k.o.», dirà un impiegato di banca. «Quello che mi ha impressionato è stato il grande boato, con tutta la carta e la polvere e le macerie e i vetri rotti che vorticavano mentre l’esplosione sprigionava la sua forza», dirà un ufficiale.
Subito dopo l’esplosione, che aveva fatto tremare per l’impatto i grattacieli fino a tre isolati di distanza, un attimo di silenzio quasi irreale. Il tempo era sembrato fermarsi. Nell’aria immobile un forte odore acido, di fumo, di polvere, di sangue. Le automobili parcheggiate, finite sottosopra, in fiamme. I sopravvissuti avevano a malapena incominciato a respirare che le finestre dei palazzi dell’intero distretto deflagrarono contemporaneamente. Con un fragore assordante «come le cascate del Niagara», una pioggia di vetri taglienti si abbatté sulle strade sottostanti colpendo tutti coloro che si trovavano sotto. «È stato uno schianto a ciel sereno», scriverà un giornalista, «un inaspettato fulmine seminatore di morte che in un baleno ha trasformato in mattatoio il più indaffarato angolo del centro finanziario d’America». Le strade erano ricoperte di cadaveri e feriti. C’era sangue dappertutto. Persone avvolte dalle fiamme cadevano a terra invocando aiuto. Tutto attorno, era il pandemonio. Ci si aspettava una nuova esplosione da un momento all’altro. La folla scappava in tutte le direzioni in preda al terrore, travolgendo i feriti, calpestando i morti — e chi cadeva era perduto.
Il bilancio finale fu di trentotto morti e alcune centinaia di feriti, di cui 143 gravi, mentre i danni materiali ammontarono a 2 milioni di dollari dell’epoca. «Il numero delle vittime, per quanto grande sia, non può dare idea della vastità dell’inferno prodotto dall’esplosione, la peggiore del genere nella storia americana», scriverà Avrich.
«Cosa diavolo ha colpito New York?», chiese uno dei sopravvissuti.
All’inizio si pensò a un incidente, alcuni testimoni affermarono di aver visto transitare un carro della DuPont Powder simile a quello che riforniva di esplosivo i molti cantieri edili operanti nella zona. Una tesi ben presto sfumata. La sera stessa gli investigatori già propendevano per l’ipotesi di una bomba; non c’era altro modo per spiegare la presenza di tutti quei proiettili metallici. La mattina del giorno seguente, sul tavolo del capo del Bureau William J. Flynn, arrivarono cinque esemplari di un volantino diversi l’uno dall’altro. Erano stati trovati pochi istanti prima dell’esplosione da un dipendente delle Poste che aveva svuotato una cassetta per le lettere, fra Cedar Street e Broadway, a poca distanza da Wall Street.
Stampigliato lettera per lettera con timbri di gomma, inchiostro rosso su carta gialla, c’era scritto:
Ricordate
Non tollereremo
Più a lungo
Liberate i prigionieri politici
O sarà
Morte sicura per tutti voi
I combattenti anarchici americani
La firma era costituita dall’unione di quelle in calce a Go-Head! (Gli anarchici americani) e a Plain Words (I combattenti anarchici). I cinque foglietti gialli differivano l’uno dall’altro per gli errori d’ortografia contenuti, tipici di uno o più stranieri. Quasi sicuramente italiani. Flynn non ebbe più dubbi sulla pista da seguire e diede subito notizia alla stampa del ritrovamento dei volantini definendo l’attentato «concepito dallo stesso gruppo di terroristi che progettò e realizzò gli attentati del 2 giugno 1919», i quali avevano messo quella bomba «nel cuore finanziario dell’America come una sfida al popolo americano ed al governo americano». Così i media si precipitarono ad annunciare ai loro lettori che erano stati i soliti red a compiere quel terribile attentato, mentre i soliti red si precipitarono a negare ogni loro coinvolgimento nella tragedia (attribuendola ad un incidente causato dalle scarse misure di sicurezza imposte dal capitalismo).
Le indagini, che a dispetto dei precisi sospetti di Flynn si indirizzarono su diverse piste, si rivelarono difficili e presto si arenarono. Quel giorno a Wall Street i piccoli e grandi servitori del Capitale erano troppo occupati a pensare al proprio lavoro per degnare della minima occhiata uno straccione e il suo ronzino. I testimoni erano tantissimi, sì, ma con versioni talmente vaghe e contrastanti che alla fine agli inquirenti era rimasto ben poco in mano. Soltanto uno aveva sostenuto di aver visto da vicino il conducente del carretto. In base alla sua testimonianza era stato fatto un identikit: «apparentemente italiano; 28 o 30 anni; altezza 1,70; media corporatura; spalle larghe; capelli scuri; carnagione scura; baffetti scuri che alla data dell’esplosione mostravano una crescita di circa due settimane. Indossava un berretto da golf schiacciato sulla fronte e una giacca kaki allacciata sul collo».
La cosiddetta «scena del crimine» avrebbe fornito ben pochi elementi. Se un’ora dopo l’esplosione la strada era presidiata da due battaglioni di soldati inviati a proteggere la Tesoreria, per permettere l’immediato ritorno al business as usual quella sera stessa le autorità inviarono sul posto un esercito di spazzini, operai e addetti alle pulizie, i quali — lavorando tutta la notte sotto la luce di potenti riflettori — ripulirono tutto. La mattina seguente Wall Street era tirata a lucido, anche se con diversi rattoppi.
Infine, pur intuendo fra chi cercare, il Bureau non aveva più dove cercare. La stragrande maggioranza degli anarchici italiani schedati come pericolosi erano già stati deportati, o erano irreperibili. Le loro sedi erano state chiuse, i loro giornali sospesi. Per di più, c’erano ben pochi agenti in grado di introdursi negli ambienti italiani. La confusione era tale che arrivarono perfino a ricercare… Sacco e Vanzetti. Appena edotti che i due sovversivi si trovavano già in prigione, ai geni del Bureau non rimase altro da fare che mettere sotto controllo il loro Comitato di difesa.
Nonostante gli innumerevoli controlli, le centinaia di interrogatori e le ricompense promesse (fino a 100.000 dollari) a chi avesse fornito degli indizi, le indagini rimasero ad un punto morto.
Flynn si vide costretto a spedire in Italia un agente sotto copertura affinché avvicinasse l’uomo che un anno e mezzo prima era stato allontanato proprio dal governo degli Stati Uniti, ovvero lo stesso Galleani. L’infiltrato non riuscì a trovarlo, né scoprì alcunché sul conto di Nicola Recchi. Tutto quello che riuscì a ricavare in tre mesi di indagini fu la conferma che l’attentatore saltato in aria a Washington il 2 giugno 1919 era Valdinoci, e che la sua morte si diceva pesasse come un macigno sull’animo di Galleani.
Nel corso del tempo ci furono alcuni arresti di presunti autori dell’attentato e nell’aprile del 1921 finì in manette anche un anarchico italiano, Tito Ligi. Sarebbero stati tutti rilasciati. Flynn fu esonerato dal suo incarico nell’agosto del 1921 e sostituito da William J. Burns, il quale non ebbe maggiore fortuna nel battere a fondo un’altra pista, quella dei comunisti russi. Insomma, nessuno riuscì mai a scoprire chi fosse stato a realizzare l’attentato di Wall Street.
Finché, nel 1991, Avrich pubblica la sua poderosa opera Sacco and Vanzetti: The Anarchist Background.
Basandosi su quanto ha trovato negli archivi della polizia federale e sui ricordi raccolti nel corso degli anni 70 e 80 fra i vecchi anarchici italo-americani sopravvissuti, Avrich — per la prima volta e senza una parvenza di dubbio — indica in Mario Buda l’autore di quell’azione. Ne aveva il carattere, la possibilità, il movente.
Per quanto ciò sia verosimile, la ricostruzione dei fatti formulata da Avrich è quanto meno imbarazzante: l’11 settembre Buda, venuto a sapere dell’incriminazione di Sacco e Vanzetti per il duplice omicidio di South Braintree, avrebbe deciso di muoversi, andando prima a Boston, poi a New York dove «acquistò un cavallo e un carretto che stipò di dinamite. La bomba, con tanto di timer, era piena di pezzi di metallo. Giovedì 16 settembre Buda guidò il carretto all’angolo tra Wall Street e Broad Street».
Davvero? In cinque giorni un latitante, che deve prendere mille precauzioni per evitare di finire sulla sedia elettrica, avrebbe fatto tutte quelle cose da solo? Senza dimenticare i sopralluoghi da fare e i volantini da lasciare nella cassetta postale poco prima o poco dopo aver portato a destinazione il carretto fatale. Ma allora, subito dopo l’attentato, Buda dovrebbe anche essersi tuffato nelle acque dell’East River ed aver varcato l’oceano con vigorose bracciate in men che non si dica, rifacendo lo stesso percorso delle navi su cui erano stati imbarcati gli anarchici italiani deportati.
Infatti, all’indomani dell’attentato di Wall Street, proprio mentre il capo del Bureau Flynn annunciava alla stampa il ritrovamento del volantino firmato “Combattenti anarchici americani”...
Genova, 17 settembre, ore 14.25. Una bomba esplodeva all’interno del nuovo e maestoso palazzo della Borsa, che dalla fine di via XX settembre si affaccia su piazza De Ferrari, seminando il panico fra i presenti. Occultato in un bagno, l’ordigno era composto da un cilindro con un coperchio a vite. L’esplosione provocò danni materiali, ma nessun ferito.
La Borsa di Genova, inaugurata nel luglio del 1912, era all’epoca la principale borsa italiana. La costruzione della sua nuova sede, costata sette milioni di lire, era stata resa necessaria dalla separazione del listino valori da quello delle merci decretata nel 1905. Il nuovo palazzo, definito «un pezzo di Berlino posato sopra una piazza italiana», avrebbe dovuto quindi accogliere solo agenti di cambio, rappresentanti di banche, mediatori ed altri speculatori di tal fatta.
Alcuni giornali diedero notizia dell’attentato in un trafiletto, accanto ad articoli dettagliati sull’esplosione di New York. Furono avanzate le ipotesi più strampalate, come quella che supponeva che il vero obiettivo fosse il vicino ristorante.
Ma quella notizia parve interessare maggiormente i giornali statunitensi, i quali spiegarono al loro pubblico che «l’Italia è infestata da anarchici e si pensa che abbiano progettato una serie di attacchi internazionali». Probabilmente anche questo fatto aveva indotto Flynn a ritenere che dietro l’attentato di Wall Street ci fosse lo zampino di Galleani, il quale in cuor suo — lo vedremo a breve — come reazione all’incriminazione di Sacco e Vanzetti aveva auspicato un’azione diretta continua e spietata.
Difficile pensare che fosse una mera coincidenza, frutto di un caso fortuito, che nell’arco di 24 ore fossero stati colpiti i luoghi-simbolo del capitalismo negli Stati Uniti e in Italia, a New York e a Genova, seppur con modalità differenti. Ed è difficile, davvero difficile credere che si sia trattato di una tempestiva emulazione ispirata dalla notizia del giorno. Non solo, bisogna anche considerare il clima insurrezionale che in quel periodo si respirava in Italia.
All’inizio di settembre infatti era iniziata quell’occupazione delle fabbriche, presto dilagata in tutto il paese, che segnò l’avvio del cosiddetto biennio rosso. E per questi anarchici era fondamentale fare il possibile per dar fuoco alle polveri, con un occhio all’America (un paese da colpire senza scrupoli, roccaforte della reazione più puritana e bigotta) ed uno all’Italia (un paese solo da sospingere, perché ad un passo dalla rivoluzione).
Questo collegamento di fatti, sfuggito o trascurato dagli storici che finora si sono occupati degli anarchici italiani immigrati negli Stati Uniti — com’è accaduto per il fallito attentato al consolato italiano di New York, avvenuto l’ultimo giorno della Settimana Rossa, nel 1914 — a nostro avviso fa definitivamente piazza pulita dell’ipotesi formulata da Paul Avrich, secondo cui un solo uomo avrebbe fatto saltare in aria Wall Street per vendicarsi di quanto stava capitando a due suoi grandi amici. Non ci fu un solo responsabile, ce ne furono sicuramente diversi. E la posta in gioco era assai più consistente di un rapporto per quanto stretto di amicizia.
Quelle due azioni non possono che essere state pianificate assieme, preparate in anticipo e coordinate da chi, dopo la prima condanna inflitta a Vanzetti il primo luglio per la rapina di Bridgewater, aveva previsto lo svolgimento degli eventi.
Buda può anche darsi che vi fosse coinvolto ma, all’epoca braccato dalla polizia, potrebbe non aver preso parte affatto all’azione. E qualora l’abbia fatto, non può che averlo fatto assieme ad altri. Assieme a coloro che quel 16 settembre 1920 hanno mantenuto la promessa fatta all’inizio dell’anno precedente: «Non ci avete mostrato nessuna pietà! Noi faremo lo stesso: Vi faremo saltare in aria!». E c’era allora, come c’è tuttora, un intero mondo da far saltare in aria.
A noi non interessa svelare il volto della nemesi. Al contrario, vogliamo che essa ritorni nell’oscurità che Avrich ha tentato invano di illuminare. Una ipotesi parziale non diventa verità acclarata solo perché viene ripetuta come un mantra. E di ipotesi su quei fatti lontani se ne potrebbero fare diverse, fino ad annullare ogni contorno, ogni certezza, perfino partendo dagli stessi dati forniti da Avrich.
Che razza di attendibilità si può accordare ad uno storico che con sicumera attribuisce a qualcuno un attentato per poi precisare in una piccola nota che ciò «non può essere dimostrato perché mancano le prove documentali»? E che senso ha avallare la propria tesi basandosi «su una fonte affidabile e che ritengo veritiera», quando la sua fonte non è diretta ma riporta la versione di chi potrebbe non essere affatto affidabile e veritiero? La fonte di Avrich è Charles Poggi, il cui nome compare per ben due volte nei ringraziamenti del suo libro. Tuttavia Poggi ha semplicemente sostenuto di aver appreso quelle rivelazioni dal nipote di Mario Buda, come riportato su un altro libro di Avrich, Anarchist Voices. Ma sarà stato lo stesso Buda ad averlo confidato al nipote? Oppure è stata l’impressione che lui ha tratto dalle parole dello zio dopo averci ricamato sopra?
Le conclusioni di Avrich potrebbero essere mosse da un semplice calcolo delle probabilità. È come se, eliminati gran parte dei nomi dalla lista di sospettati in suo possesso (Tizio morto, Caio deportato, Sempronio arrestato), gli fosse rimasto in mano solo quello bollente di Buda. Ma fa un doppio errore. Per prima cosa, non sembra aver tenuto conto di tutti i nomi di cui egli stesso è a conoscenza. Seconda cosa, non ha considerato quanti anarchici potrebbero essere sfuggiti alle ricerche della polizia — e quindi agli storici che seguono la polizia. Per entrambi i casi, possiamo fare qui degli esempi concreti.
All’indomani dell’attentato, il Bureau aveva ordinato una serie di esami per individuare il tipo di esplosivo che era stato usato. Tuttavia i diversi periti consultati pronunciarono pareri discordanti. Alcuni di loro sostennero che si trattava di tritolo (che produce un fumo nero, come quello visto da molti testimoni), altri che era dinamite (che produce un fumo giallastro, come quello visto da molti altri testimoni). Nel dubbio, Flynn si rivolse ad un particolare esperto, Walter Scheele, un cittadino tedesco che nel corso della guerra era stato incriminato per aver compiuto dei sabotaggi nei pressi di New York — non solo un tecnico, dunque, ma un diretto conoscitore. Dopo accurata analisi, la conclusione di Scheele fu che si trattava di gelatina esplodente, un genere di nitroglicerina usata solitamente in opere di scavo come le gallerie. Reperirla non era difficile perché nella zona di New York c’erano molti cantieri che ne facevano uso.
Ora, è lo stesso Avrich a dire più volte che fra gli anarchici chi reperiva gli esplosivi era il minatore Emilio Coda (nella cui casa, dopo la sua morte avvenuta nel 1946, venne rinvenuta della dinamite nascosta in una intercapedine). Ed è sempre Avrich a riportare su Anarchist Voices la testimonianza di un altro vecchio anarchico italo-americano, Galileo Tobia, secondo cui girava voce che Coda avesse fatto «alcuni dei lavori per cui altri si presero il merito». Ipotesi per ipotesi, perché non potrebbe essere stato questo anarchico spesso descritto come irruente, determinato e violento, a colpire Wall Street? Magari aiutato dal suo compagno di sempre, Giuseppe Scussel, il quale essendo nato sotto le Dolomiti poteva ben corrispondere all’«uomo che parlava italiano ma che assomigliava ad un austriaco» (secondo un memorandum di Hoover, sarebbe questa la descrizione di chi aveva portato a ferrare il cavallo alla vigilia dell’attentato). Dove erano Coda e Scussel il 16 settembre 1920? Erano inchiodati al loro posto di lavoro, a centinaia di chilometri di distanza? Non lo sappiamo, gli storici non lo precisano probabilmente perché i rapporti di polizia da loro consultati non lo dicono. Sappiamo solo che sfuggirono alla deportazione raggiungendo l’Europa (da cui fecero poi ritorno negli Stati Uniti), ma non sappiamo quando ciò avvenne; prima o dopo il settembre 1920?
Ed ora spostiamoci a Buenos Aires, dove alla fine degli anni 20 Severino Di Giovanni realizzò una serie di azioni dirette anche in solidarietà con Sacco e Vanzetti. Sostenuto da lontano da Raffaele Schiavina, fra i compagni al suo fianco ritroviamo Nicola Recchi, Ferruccio Coacci e Vincenzo Di Lecce (uno degli anarchici deportati assieme a Galleani). Osvaldo Bayer, nella biografia di Di Giovanni, fra gli anarchici italiani attivi in espropri ed attentati, nomina anche Umberto Lanciotti, che non compare nei libri di Avrich né in quelli degli altri storici che si sono occupati delle medesime vicende. Eppure anche Lanciotti — «ritenuto pericolosissimo per la sua audacia ed il disprezzo assoluto del pericolo», che si teneva «lontano dalle pubbliche manifestazioni e frequentava poco le sedi dei gruppi anarchici» — aveva vissuto negli Stati Uniti, dov’era emigrato nel 1913. Qui aveva partecipato alle attività dei vivaci anarchici di Scranton sostenitori di Cronaca Sovversiva e allo scoppio della guerra si era dato «molto da fare, insieme a Nicola Recchi» (di cui rimase amico e compagno per tutta la vita). E pare che Lanciotti fosse arrivato a Genova proprio nel settembre del 1920 e fino alla fine dei suoi giorni sia rimasto «sempre vicino alle posizioni di Galleani». Ecco un anarchico d’azione sfuggito sia alla polizia statunitense del passato che all’accademia del presente. Come lui, quanti altri ce ne saranno stati? E chi può essere davvero sicuro che gli anarchici che hanno collaborato con Cronaca Sovversiva per poi dare vita nel 1922 a L’Adunata dei Refrattari — fra cui ricordiamo Costantino Zonchello e Osvaldo Maraviglia — non siano mai passati all’azione?
È trascorso quasi un secolo da quelle vicende, impossibile pretendere di poterle conoscere nel dettaglio. Ciò che rimane in mano sono solo ipotesi più o meno plausibili. E quando queste sono molteplici, ogni certezza sfuma fino a dileguarsi. Rischia di rimanere cieco in eterno chi osa guardare il volto della nemesi.
Com’è immaginabile, l’attentato a Wall Street sollevò l’orrore generale. La società intera, dalle alte cariche dello Stato fino al più comune dei cittadini americani al 100%, condannò quanto accadde quel 16 settembre. Tutti coloro che avevano ordinato, sostenuto ed applaudito la partecipazione degli Stati Uniti alla prima guerra mondiale — il massacro che provocò oltre quindici milioni di vittime, 117.000 delle quali di nazionalità statunitense — si infuriarono davanti a quelle decine di morti e a quelle centinaia di feriti. Tutti coloro che avevano giustificato o appena biasimato i gunmen al servizio di industriali come Rockefeller responsabili di eccidi proletari in più parti degli Stati Uniti anche dopo Ludlow — come nel 1915 ad Elizabeth (sei morti) ed a Bayonne (otto morti), nel 1917 a Elaine (almeno cento morti fra i neri che lavoravano nelle piantagioni di cotone), nel 1919 a Bogalusa (quattro morti) — s’indignarono per quei mediatori, impiegati, segretarie, contabili, commercianti, stenografi, fattorini rimasti uccisi. Se rimasero insensibili davanti a chi era stato falciato dai cannoni dell’esercito o dalle mitragliatrici della milizia privata, pur commuovendosi per chi era rimasto vittima della dinamite anarchica a Wall Street, è perché la morte dei primi non li aveva toccati come quella dei secondi, in cui si immedesimavano considerandoli a ragione i loro morti. Perché sarebbe potuta toccare ad ognuno di loro, a chiunque degli aspiranti servitori in livrea nel tempio del Denaro. Interpretazione ineccepibile, la loro. Ma, soprattutto, rovesciabile. Chi, fra i milioni di esseri umani condannati quotidianamente all’ergastolo del salariato per far arricchire i vari speculatori, correva il rischio di essere a Wall Street quel giorno? Chi, se non i domestici più disponibili e servizievoli? Era il 1920, non c’erano turisti o curiosi ad affollare le strade del distretto finanziario.
A differenza della guerra militare — terrorismo di Stato che sgancia implacabilmente bombe su popolazioni inermi — la guerra sociale opera una precisa distinzione tra oppressori ed oppressi, tra sfruttatori e sfruttati. Anche quando non ha pietà, mantiene una sua etica. Infatti non era stata bombardata una qualsiasi strada di New York, era stata fatta saltare Wall Street. I commentatori che da quasi un secolo si affannano a demonizzare o a sminuire il significato di quell’azione possono riposare in pace. Non riusciranno mai a neutralizzarla. Inutile ripetere che sono stati mancati i banchieri o che non è scoppiata la rivoluzione.
È stata ammutolita l’arroganza del potere, è stato infranto il mito della sua intangibilità, è stato negato il suo monopolio della forza, è stata data una preziosissima lezione pratica: «intanto un povero immigrato con un po’ di dinamite rubata, un mucchietto di ferraglia e un vecchio ronzino era riuscito a scatenare un terrore senza precedenti nel sancta sanctorum del capitalismo americano».
È la guerra sociale, non è un’opera pia. Non si contano e ricontano gli anelli delle proprie catene, ma si va in cerca delle proprie possibilità di spezzarli. Con o senza il sostegno di chi si aggrappa agli scrupoli come l’innocente al suo alibi. Non sarà la presenza di umili uscieri a convincere i rivoluzionari a risparmiare il Parlamento.
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La «buona guerra» degli anarchici italiani
immigrati negli Stati Uniti (1914-1920)
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