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A proposito di Kavarna

...la passione per la libertà è più forte d'ogni autorità...

«La rivoluzione è guerra, e chi dice guerra dice distruzione di uomini e di cose»
Michail Bakunin

Per ogni singolo abitante di questo pianeta Wall Street è sinonimo di business, di affari, di mercato. Wall Street è il centro del capitalismo, il potere del denaro. Al numero 11 di quella strada avvengono infatti le contrattazioni della New York Stock Exchange — la più grande borsa valori del mondo — sebbene il palazzo della Borsa si trovi al 18 di Broad Street, tra gli angoli di Wall Street ed Exchange Place. È qui, nel distretto finanziario di Manhattan, che si giocano i destini dell’umanità. Sulle mutevoli cifre di quei tabelloni che indicano il valore di merci e titoli, ogni giorno si calcolano, si comprano, si vendono, si investono e si incassano i proventi dello sfruttamento ed i profitti della guerra. È qui che i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Dove l’avidità, il cinismo e l’arroganza sono di casa, una “chiamata” può decretare la morte di decine, centinaia, migliaia, se non milioni di esseri umani. Può provocare carestie, devastare eco-sistemi, cancellare paesi interi. È qui che è stato liquidato il prezzo del massacro di Ludlow, della deportazione di Bisbee, dello stesso conflitto mondiale — nella dimora del privilegio, nella chiesa del dollaro, nella cassaforte del potere.
Ed è là, sul lato a nord di Wall Street, all’angolo con Broad Street; là, sotto il palazzo della Tesoreria, accanto all’ufficio della United States Assay; là, di fronte alla banca J. P. Morgan & Company (la principale nel mondo) e ad un cantiere dove la Borsa stava costruendo un annesso — è proprio là, nel cuore pulsante del capitalismo americano e mondiale, che nella tarda mattinata di quel giovedì 16 settembre 1920, cinque giorni dopo l’incriminazione di Sacco e Vanzetti e ad un mese dalla sentenza di condanna di Vanzetti, avanzava un carretto trascinato da un cavallo. Era l’ora di punta, la strada era affollata di impiegati e fattorini che correvano su e giù indaffarati. Nessuno sembrò notare il conducente salire col carretto sul marciapiede, fermarsi davanti alla sede dell’Assay, direttamente di fronte alla banca Morgan, scendere ed allontanarsi.
La Chiesa Trinity di Broadway non aveva ancora battuto mezzogiorno, ma l’orologio della Assay segnava già le 12.01. In quel preciso istante Wall Street cessò d’essere il paradiso dei capitalisti per diventare il loro inferno sulla terra. Una quantità imprecisata di esplosivo, ricoperto da chili e chili di pesanti pezzi di metallo, esplose scatenando una tempesta di fuoco e acciaio che sventrò la strada spazzando via ogni cosa. Dal carretto, terribile e spietata, era sorta la nemesi.
Chi non era stato falciato, rimase sconvolto. «Mi stavo apprestando a svoltare ed è sembrata la fine del mondo», dirà un tassista. «Ho visto due fiammate che sembravano avvolgere tutta Wall Street e raggiungere in altezza il decimo piano dei palazzi», dirà un esportatore. «È stato il rumore più potente che abbia mai sentito in vita mia. Bastava quello a metterti k.o.», dirà un impiegato di banca. «Quello che mi ha impressionato è stato il grande boato, con tutta la carta e la polvere e le macerie e i vetri rotti che vorticavano mentre l’esplosione sprigionava la sua forza», dirà un ufficiale.
Subito dopo l’esplosione, che aveva fatto tremare per l’impatto i grattacieli fino a tre isolati di distanza, un attimo di silenzio quasi irreale. Il tempo era sembrato fermarsi. Nell’aria immobile un forte odore acido, di fumo, di polvere, di sangue. Le automobili parcheggiate, finite sottosopra, in fiamme. I sopravvissuti avevano a malapena incominciato a respirare che le finestre dei palazzi dell’intero distretto deflagrarono contemporaneamente. Con un fragore assordante «come le cascate del Niagara», una pioggia di vetri taglienti si abbatté sulle strade sottostanti colpendo tutti coloro che si trovavano sotto. «È stato uno schianto a ciel sereno», scriverà un giornalista, «un inaspettato fulmine seminatore di morte che in un baleno ha trasformato in mattatoio il più indaffarato angolo del centro finanziario d’America». Le strade erano ricoperte di cadaveri e feriti. C’era sangue dappertutto. Persone avvolte dalle fiamme cadevano a terra invocando aiuto. Tutto attorno, era il pandemonio. Ci si aspettava una nuova esplosione da un momento all’altro. La folla scappava in tutte le direzioni in preda al terrore, travolgendo i feriti, calpestando i morti — e chi cadeva era perduto.
Il bilancio finale fu di trentotto morti e alcune centinaia di feriti, di cui 143 gravi, mentre i danni materiali ammontarono a 2 milioni di dollari dell’epoca. «Il numero delle vittime, per quanto grande sia, non può dare idea della vastità dell’inferno prodotto dall’esplosione, la peggiore del genere nella storia americana», scriverà Avrich.
«Cosa diavolo ha colpito New York?», chiese uno dei sopravvissuti.
All’inizio si pensò a un incidente, alcuni testimoni affermarono di aver visto transitare un carro della DuPont Powder simile a quello che riforniva di esplosivo i molti cantieri edili operanti nella zona. Una tesi ben presto sfumata. La sera stessa gli investigatori già propendevano per l’ipotesi di una bomba; non c’era altro modo per spiegare la presenza di tutti quei proiettili metallici. La mattina del giorno seguente, sul tavolo del capo del Bureau William J. Flynn, arrivarono cinque esemplari di un volantino diversi l’uno dall’altro. Erano stati trovati pochi istanti prima dell’esplosione da un dipendente delle Poste che aveva svuotato una cassetta per le lettere, fra Cedar Street e Broadway, a poca distanza da Wall Street.
Stampigliato lettera per lettera con timbri di gomma, inchiostro rosso su carta gialla, c’era scritto:
Ricordate
Non tollereremo
Più a lungo
Liberate i prigionieri politici
O sarà
Morte sicura per tutti voi
I combattenti anarchici americani
La firma era costituita dall’unione di quelle in calce a Go-Head! (Gli anarchici americani) e a Plain Words (I combattenti anarchici). I cinque foglietti gialli differivano l’uno dall’altro per gli errori d’ortografia contenuti, tipici di uno o più stranieri. Quasi sicuramente italiani. Flynn non ebbe più dubbi sulla pista da seguire e diede subito notizia alla stampa del ritrovamento dei volantini definendo l’attentato «concepito dallo stesso gruppo di terroristi che progettò e realizzò gli attentati del 2 giugno 1919», i quali avevano messo quella bomba «nel cuore finanziario dell’America come una sfida al popolo americano ed al governo americano». Così i media si precipitarono ad annunciare ai loro lettori che erano stati i soliti red a compiere quel terribile attentato, mentre i soliti red si precipitarono a negare ogni loro coinvolgimento nella tragedia (attribuendola ad un incidente causato dalle scarse misure di sicurezza imposte dal capitalismo).
Le indagini, che a dispetto dei precisi sospetti di Flynn si indirizzarono su diverse piste, si rivelarono difficili e presto si arenarono. Quel giorno a Wall Street i piccoli e grandi servitori del Capitale erano troppo occupati a pensare al proprio lavoro per degnare della minima occhiata uno straccione e il suo ronzino. I testimoni erano tantissimi, sì, ma con versioni talmente vaghe e contrastanti che alla fine agli inquirenti era rimasto ben poco in mano. Soltanto uno aveva sostenuto di aver visto da vicino il conducente del carretto. In base alla sua testimonianza era stato fatto un identikit: «apparentemente italiano; 28 o 30 anni; altezza 1,70; media corporatura; spalle larghe; capelli scuri; carnagione scura; baffetti scuri che alla data dell’esplosione mostravano una crescita di circa due settimane. Indossava un berretto da golf schiacciato sulla fronte e una giacca kaki allacciata sul collo».
La cosiddetta «scena del crimine» avrebbe fornito ben pochi elementi. Se un’ora dopo l’esplosione la strada era presidiata da due battaglioni di soldati inviati a proteggere la Tesoreria, per permettere l’immediato ritorno al business as usual quella sera stessa le autorità inviarono sul posto un esercito di spazzini, operai e addetti alle pulizie, i quali — lavorando tutta la notte sotto la luce di potenti riflettori — ripulirono tutto. La mattina seguente Wall Street era tirata a lucido, anche se con diversi rattoppi.
Infine, pur intuendo fra chi cercare, il Bureau non aveva più dove cercare. La stragrande maggioranza degli anarchici italiani schedati come pericolosi erano già stati deportati, o erano irreperibili. Le loro sedi erano state chiuse, i loro giornali sospesi. Per di più, c’erano ben pochi agenti in grado di introdursi negli ambienti italiani. La confusione era tale che arrivarono perfino a ricercare… Sacco e Vanzetti. Appena edotti che i due sovversivi si trovavano già in prigione, ai geni del Bureau non rimase altro da fare che mettere sotto controllo il loro Comitato di difesa.
Nonostante gli innumerevoli controlli, le centinaia di interrogatori e le ricompense promesse (fino a 100.000 dollari) a chi avesse fornito degli indizi, le indagini rimasero ad un punto morto.
Flynn si vide costretto a spedire in Italia un agente sotto copertura affinché avvicinasse l’uomo che un anno e mezzo prima era stato allontanato proprio dal governo degli Stati Uniti, ovvero lo stesso Galleani. L’infiltrato non riuscì a trovarlo, né scoprì alcunché sul conto di Nicola Recchi. Tutto quello che riuscì a ricavare in tre mesi di indagini fu la conferma che l’attentatore saltato in aria a Washington il 2 giugno 1919 era Valdinoci, e che la sua morte si diceva pesasse come un macigno sull’animo di Galleani.
Nel corso del tempo ci furono alcuni arresti di presunti autori dell’attentato e nell’aprile del 1921 finì in manette anche un anarchico italiano, Tito Ligi. Sarebbero stati tutti rilasciati. Flynn fu esonerato dal suo incarico nell’agosto del 1921 e sostituito da William J. Burns, il quale non ebbe maggiore fortuna nel battere a fondo un’altra pista, quella dei comunisti russi. Insomma, nessuno riuscì mai a scoprire chi fosse stato a realizzare l’attentato di Wall Street.
Finché, nel 1991, Avrich pubblica la sua poderosa opera Sacco and Vanzetti: The Anarchist Background.
Basandosi su quanto ha trovato negli archivi della polizia federale e sui ricordi raccolti nel corso degli anni 70 e 80 fra i vecchi anarchici italo-americani sopravvissuti, Avrich — per la prima volta e senza una parvenza di dubbio — indica in Mario Buda l’autore di quell’azione. Ne aveva il carattere, la possibilità, il movente.
Per quanto ciò sia verosimile, la ricostruzione dei fatti formulata da Avrich è quanto meno imbarazzante: l’11 settembre Buda, venuto a sapere dell’incriminazione di Sacco e Vanzetti per il duplice omicidio di South Braintree, avrebbe deciso di muoversi, andando prima a Boston, poi a New York dove «acquistò un cavallo e un carretto che stipò di dinamite. La bomba, con tanto di timer, era piena di pezzi di metallo. Giovedì 16 settembre Buda guidò il carretto all’angolo tra Wall Street e Broad Street».
Davvero? In cinque giorni un latitante, che deve prendere mille precauzioni per evitare di finire sulla sedia elettrica, avrebbe fatto tutte quelle cose da solo? Senza dimenticare i sopralluoghi da fare e i volantini da lasciare nella cassetta postale poco prima o poco dopo aver portato a destinazione il carretto fatale. Ma allora, subito dopo l’attentato, Buda dovrebbe anche essersi tuffato nelle acque dell’East River ed aver varcato l’oceano con vigorose bracciate in men che non si dica, rifacendo lo stesso percorso delle navi su cui erano stati imbarcati gli anarchici italiani deportati.
Infatti, all’indomani dell’attentato di Wall Street, proprio mentre il capo del Bureau Flynn annunciava alla stampa il ritrovamento del volantino firmato “Combattenti anarchici americani”...

Genova, 17 settembre, ore 14.25. Una bomba esplodeva all’interno del nuovo e maestoso palazzo della Borsa, che dalla fine di via XX settembre si affaccia su piazza De Ferrari, seminando il panico fra i presenti. Occultato in un bagno, l’ordigno era composto da un cilindro con un coperchio a vite. L’esplosione provocò danni materiali, ma nessun ferito.
La Borsa di Genova, inaugurata nel luglio del 1912, era all’epoca la principale borsa italiana. La costruzione della sua nuova sede, costata sette milioni di lire, era stata resa necessaria dalla separazione del listino valori da quello delle merci decretata nel 1905. Il nuovo palazzo, definito «un pezzo di Berlino posato sopra una piazza italiana», avrebbe dovuto quindi accogliere solo agenti di cambio, rappresentanti di banche, mediatori ed altri speculatori di tal fatta.
Alcuni giornali diedero notizia dell’attentato in un trafiletto, accanto ad articoli dettagliati sull’esplosione di New York. Furono avanzate le ipotesi più strampalate, come quella che supponeva che il vero obiettivo fosse il vicino ristorante.
Ma quella notizia parve interessare maggiormente i giornali statunitensi, i quali spiegarono al loro pubblico che «l’Italia è infestata da anarchici e si pensa che abbiano progettato una serie di attacchi internazionali». Probabilmente anche questo fatto aveva indotto Flynn a ritenere che dietro l’attentato di Wall Street ci fosse lo zampino di Galleani, il quale in cuor suo — lo vedremo a breve — come reazione all’incriminazione di Sacco e Vanzetti aveva auspicato un’azione diretta continua e spietata.
Difficile pensare che fosse una mera coincidenza, frutto di un caso fortuito, che nell’arco di 24 ore fossero stati colpiti i luoghi-simbolo del capitalismo negli Stati Uniti e in Italia, a New York e a Genova, seppur con modalità differenti. Ed è difficile, davvero difficile credere che si sia trattato di una tempestiva emulazione ispirata dalla notizia del giorno. Non solo, bisogna anche considerare il clima insurrezionale che in quel periodo si respirava in Italia.
All’inizio di settembre infatti era iniziata quell’occupazione delle fabbriche, presto dilagata in tutto il paese, che segnò l’avvio del cosiddetto biennio rosso. E per questi anarchici era fondamentale fare il possibile per dar fuoco alle polveri, con un occhio all’America (un paese da colpire senza scrupoli, roccaforte della reazione più puritana e bigotta) ed uno all’Italia (un paese solo da sospingere, perché ad un passo dalla rivoluzione).
Questo collegamento di fatti, sfuggito o trascurato dagli storici che finora si sono occupati degli anarchici italiani immigrati negli Stati Uniti — com’è accaduto per il fallito attentato al consolato italiano di New York, avvenuto l’ultimo giorno della Settimana Rossa, nel 1914 — a nostro avviso fa definitivamente piazza pulita dell’ipotesi formulata da Paul Avrich, secondo cui un solo uomo avrebbe fatto saltare in aria Wall Street per vendicarsi di quanto stava capitando a due suoi grandi amici. Non ci fu un solo responsabile, ce ne furono sicuramente diversi. E la posta in gioco era assai più consistente di un rapporto per quanto stretto di amicizia.
Quelle due azioni non possono che essere state pianificate assieme, preparate in anticipo e coordinate da chi, dopo la prima condanna inflitta a Vanzetti il primo luglio per la rapina di Bridgewater, aveva previsto lo svolgimento degli eventi.
Buda può anche darsi che vi fosse coinvolto ma, all’epoca braccato dalla polizia, potrebbe non aver preso parte affatto all’azione. E qualora l’abbia fatto, non può che averlo fatto assieme ad altri. Assieme a coloro che quel 16 settembre 1920 hanno mantenuto la promessa fatta all’inizio dell’anno precedente: «Non ci avete mostrato nessuna pietà! Noi faremo lo stesso: Vi faremo saltare in aria!». E c’era allora, come c’è tuttora, un intero mondo da far saltare in aria.

A noi non interessa svelare il volto della nemesi. Al contrario, vogliamo che essa ritorni nell’oscurità che Avrich ha tentato invano di illuminare. Una ipotesi parziale non diventa verità acclarata solo perché viene ripetuta come un mantra. E di ipotesi su quei fatti lontani se ne potrebbero fare diverse, fino ad annullare ogni contorno, ogni certezza, perfino partendo dagli stessi dati forniti da Avrich.
Che razza di attendibilità si può accordare ad uno storico che con sicumera attribuisce a qualcuno un attentato per poi precisare in una piccola nota che ciò «non può essere dimostrato perché mancano le prove documentali»? E che senso ha avallare la propria tesi basandosi «su una fonte affidabile e che ritengo veritiera», quando la sua fonte non è diretta ma riporta la versione di chi potrebbe non essere affatto affidabile e veritiero? La fonte di Avrich è Charles Poggi, il cui nome compare per ben due volte nei ringraziamenti del suo libro. Tuttavia Poggi ha semplicemente sostenuto di aver appreso quelle rivelazioni dal nipote di Mario Buda, come riportato su un altro libro di Avrich, Anarchist Voices. Ma sarà stato lo stesso Buda ad averlo confidato al nipote? Oppure è stata l’impressione che lui ha tratto dalle parole dello zio dopo averci ricamato sopra?
Le conclusioni di Avrich potrebbero essere mosse da un semplice calcolo delle probabilità. È come se, eliminati gran parte dei nomi dalla lista di sospettati in suo possesso (Tizio morto, Caio deportato, Sempronio arrestato), gli fosse rimasto in mano solo quello bollente di Buda. Ma fa un doppio errore. Per prima cosa, non sembra aver tenuto conto di tutti i nomi di cui egli stesso è a conoscenza. Seconda cosa, non ha considerato quanti anarchici potrebbero essere sfuggiti alle ricerche della polizia — e quindi agli storici che seguono la polizia. Per entrambi i casi, possiamo fare qui degli esempi concreti.
All’indomani dell’attentato, il Bureau aveva ordinato una serie di esami per individuare il tipo di esplosivo che era stato usato. Tuttavia i diversi periti consultati pronunciarono pareri discordanti. Alcuni di loro sostennero che si trattava di tritolo (che produce un fumo nero, come quello visto da molti testimoni), altri che era dinamite (che produce un fumo giallastro, come quello visto da molti altri testimoni). Nel dubbio, Flynn si rivolse ad un particolare esperto, Walter Scheele, un cittadino tedesco che nel corso della guerra era stato incriminato per aver compiuto dei sabotaggi nei pressi di New York — non solo un tecnico, dunque, ma un diretto conoscitore. Dopo accurata analisi, la conclusione di Scheele fu che si trattava di gelatina esplodente, un genere di nitroglicerina usata solitamente in opere di scavo come le gallerie. Reperirla non era difficile perché nella zona di New York c’erano molti cantieri che ne facevano uso.
Ora, è lo stesso Avrich a dire più volte che fra gli anarchici chi reperiva gli esplosivi era il minatore Emilio Coda (nella cui casa, dopo la sua morte avvenuta nel 1946, venne rinvenuta della dinamite nascosta in una intercapedine). Ed è sempre Avrich a riportare su Anarchist Voices la testimonianza di un altro vecchio anarchico italo-americano, Galileo Tobia, secondo cui girava voce che Coda avesse fatto «alcuni dei lavori per cui altri si presero il merito». Ipotesi per ipotesi, perché non potrebbe essere stato questo anarchico spesso descritto come irruente, determinato e violento, a colpire Wall Street? Magari aiutato dal suo compagno di sempre, Giuseppe Scussel, il quale essendo nato sotto le Dolomiti poteva ben corrispondere all’«uomo che parlava italiano ma che assomigliava ad un austriaco» (secondo un memorandum di Hoover, sarebbe questa la descrizione di chi aveva portato a ferrare il cavallo alla vigilia dell’attentato). Dove erano Coda e Scussel il 16 settembre 1920? Erano inchiodati al loro posto di lavoro, a centinaia di chilometri di distanza? Non lo sappiamo, gli storici non lo precisano probabilmente perché i rapporti di polizia da loro consultati non lo dicono. Sappiamo solo che sfuggirono alla deportazione raggiungendo l’Europa (da cui fecero poi ritorno negli Stati Uniti), ma non sappiamo quando ciò avvenne; prima o dopo il settembre 1920?
Ed ora spostiamoci a Buenos Aires, dove alla fine degli anni 20 Severino Di Giovanni realizzò una serie di azioni dirette anche in solidarietà con Sacco e Vanzetti. Sostenuto da lontano da Raffaele Schiavina, fra i compagni al suo fianco ritroviamo Nicola Recchi, Ferruccio Coacci e Vincenzo Di Lecce (uno degli anarchici deportati assieme a Galleani). Osvaldo Bayer, nella biografia di Di Giovanni, fra gli anarchici italiani attivi in espropri ed attentati, nomina anche Umberto Lanciotti, che non compare nei libri di Avrich né in quelli degli altri storici che si sono occupati delle medesime vicende. Eppure anche Lanciotti — «ritenuto pericolosissimo per la sua audacia ed il disprezzo assoluto del pericolo», che si teneva «lontano dalle pubbliche manifestazioni e frequentava poco le sedi dei gruppi anarchici» — aveva vissuto negli Stati Uniti, dov’era emigrato nel 1913. Qui aveva partecipato alle attività dei vivaci anarchici di Scranton sostenitori di Cronaca Sovversiva e allo scoppio della guerra si era dato «molto da fare, insieme a Nicola Recchi» (di cui rimase amico e compagno per tutta la vita). E pare che Lanciotti fosse arrivato a Genova proprio nel settembre del 1920 e fino alla fine dei suoi giorni sia rimasto «sempre vicino alle posizioni di Galleani». Ecco un anarchico d’azione sfuggito sia alla polizia statunitense del passato che all’accademia del presente. Come lui, quanti altri ce ne saranno stati? E chi può essere davvero sicuro che gli anarchici che hanno collaborato con Cronaca Sovversiva per poi dare vita nel 1922 a L’Adunata dei Refrattari — fra cui ricordiamo Costantino Zonchello e Osvaldo Maraviglia — non siano mai passati all’azione?
È trascorso quasi un secolo da quelle vicende, impossibile pretendere di poterle conoscere nel dettaglio. Ciò che rimane in mano sono solo ipotesi più o meno plausibili. E quando queste sono molteplici, ogni certezza sfuma fino a dileguarsi. Rischia di rimanere cieco in eterno chi osa guardare il volto della nemesi.

Com’è immaginabile, l’attentato a Wall Street sollevò l’orrore generale. La società intera, dalle alte cariche dello Stato fino al più comune dei cittadini americani al 100%, condannò quanto accadde quel 16 settembre. Tutti coloro che avevano ordinato, sostenuto ed applaudito la partecipazione degli Stati Uniti alla prima guerra mondiale — il massacro che provocò oltre quindici milioni di vittime, 117.000 delle quali di nazionalità statunitense — si infuriarono davanti a quelle decine di morti e a quelle centinaia di feriti. Tutti coloro che avevano giustificato o appena biasimato i gunmen al servizio di industriali come Rockefeller responsabili di eccidi proletari in più parti degli Stati Uniti anche dopo Ludlow — come nel 1915 ad Elizabeth (sei morti) ed a Bayonne (otto morti), nel 1917 a Elaine (almeno cento morti fra i neri che lavoravano nelle piantagioni di cotone), nel 1919 a Bogalusa (quattro morti) — s’indignarono per quei mediatori, impiegati, segretarie, contabili, commercianti, stenografi, fattorini rimasti uccisi. Se rimasero insensibili davanti a chi era stato falciato dai cannoni dell’esercito o dalle mitragliatrici della milizia privata, pur commuovendosi per chi era rimasto vittima della dinamite anarchica a Wall Street, è perché la morte dei primi non li aveva toccati come quella dei secondi, in cui si immedesimavano considerandoli a ragione i loro morti. Perché sarebbe potuta toccare ad ognuno di loro, a chiunque degli aspiranti servitori in livrea nel tempio del Denaro. Interpretazione ineccepibile, la loro. Ma, soprattutto, rovesciabile. Chi, fra i milioni di esseri umani condannati quotidianamente all’ergastolo del salariato per far arricchire i vari speculatori, correva il rischio di essere a Wall Street quel giorno? Chi, se non i domestici più disponibili e servizievoli? Era il 1920, non c’erano turisti o curiosi ad affollare le strade del distretto finanziario.
A differenza della guerra militare — terrorismo di Stato che sgancia implacabilmente bombe su popolazioni inermi — la guerra sociale opera una precisa distinzione tra oppressori ed oppressi, tra sfruttatori e sfruttati. Anche quando non ha pietà, mantiene una sua etica. Infatti non era stata bombardata una qualsiasi strada di New York, era stata fatta saltare Wall Street. I commentatori che da quasi un secolo si affannano a demonizzare o a sminuire il significato di quell’azione possono riposare in pace. Non riusciranno mai a neutralizzarla. Inutile ripetere che sono stati mancati i banchieri o che non è scoppiata la rivoluzione.
È stata ammutolita l’arroganza del potere, è stato infranto il mito della sua intangibilità, è stato negato il suo monopolio della forza, è stata data una preziosissima lezione pratica: «intanto un povero immigrato con un po’ di dinamite rubata, un mucchietto di ferraglia e un vecchio ronzino era riuscito a scatenare un terrore senza precedenti nel sancta sanctorum del capitalismo americano».
È la guerra sociale, non è un’opera pia. Non si contano e ricontano gli anelli delle proprie catene, ma si va in cerca delle proprie possibilità di spezzarli. Con o senza il sostegno di chi si aggrappa agli scrupoli come l’innocente al suo alibi. Non sarà la presenza di umili uscieri a convincere i rivoluzionari a risparmiare il Parlamento.

[Parole Chiare
La «buona guerra» degli anarchici italiani
immigrati negli Stati Uniti (1914-1920)
Gratis / Indesiderabili, 2018]

Voglio credere a promesse impossibili
e voglio cambiare il mondo per renderle possibili

Mary Shelley

Scriviamo dalla sponda delle isteriche, per le isteriche, le femministe che escludono, le scassacazzo. Perché sia chiaro: non ci scusiamo di niente, non veniamo a lamentarci, siamo solo colme di rabbia. Le accuse di inquisizione che ci lanciate in modo strumentale, con l'esplicito tentativo di screditarci, non possono che aumentare il nostro disprezzo. Miriamo a distruggere questo sistema mortifero, non a conquistare alcun potere al suo interno. Non scambieremmo il nostro posto con nessuno perché essere un'alterità è più interessante di qualsiasi altra «unità del movimento».

Dicono che non dovremmo neppure esistere ma siamo sempre esistite, forse abbiamo parlato troppo poco. Non abbiamo urlato abbastanza per allontanare gli stupratori dai luoghi che vogliamo attraversare, non abbiamo reagito abbastanza di fronte al mancato riconoscimento delle varie forme di violenza, non abbiamo schiaffeggiato abbastanza quando ci rispondevano che le questioni di genere si sarebbero affrontate dopo la rivoluzione. «Non è il momento giusto», un mantra che ci hanno continuamente ripetuto. Tra molteplici tentacoli del potere che vogliono catturarci vi è quello del patriarcato che si annida nelle nostre relazioni e nelle nostre viscere, ed è tale da richiedere la forza e il coraggio di guardarsi allo specchio e riconoscere in noi queste strutture.

È parecchio dura sentirsi accomunate al femminismo mainstream o a quel vetero femminismo filo-istituzionale ma, nonostante le spiegazioni a riguardo, continuano a ribadirlo e farciscono il loro pressapochismo aggiungendo che censuriamo, limitiamo il desiderio altrui, costituiamo dei tribunali. La lotta radicale a questa società e la ricerca di strutture protettive legalitarie sono due cose incomparabili, non vogliamo lasciarci ingabbiare in forme legali e le ripugniamo con la medesima rabbia e determinazione che ci spinge a voler distruggere l'esistente. Ma va bene così, tanto più che ci siamo salvate da una vita di merda a sciropparci discorsi teorici su come dovremmo essere anarchiche mentre le nostre compagne vengono inascoltate, derise, stuprate. Discorsi che non spalancano ad alcun orizzonte bensì aiutano ad indossare una benda nera che rende ciechi e spoglia dell'unicità l'individuo.
Ci facciamo cazziare da loro che hanno paura, come se fosse colpa nostra, dovremmo sentirci responsabili di quello che subiamo. Non sta a chi detiene un privilegio sentirsi responsabili delle dinamiche di potere che mette in atto, dei sottili schemi sessisti che ingabbiano relazioni, che creano ruoli. Sta a noi sentirci responsabili di quello che ci capita, di volerci convivere. È incredibile che chi detiene un privilegio venga a piangere perché la sottomessa non ci mette del suo. O facciamo le vittime, o non scopiamo come si deve, in ogni caso non abbiamo capito niente. Chissenefrega, non vogliamo piacervi ma essere la vostra spina nel fianco.

Nello stesso ordine di idee vi sono quei femminismi transfobici o pro-life che assomigliano tanto a una propaganda catto-fascista così rumorosa. Dobbiamo procreare e non scostarci dal binarismo uomo e donna, maschio o femmina, altrimenti verremo punite. Non dobbiamo allargare la prospettiva, riportando le esperienze di tutte quelle persone che hanno deciso di avvicinarsi il più possibile all'immagine che hanno di sé, nonostante i divieti religiosi e i pregiudizi morali di coloro che le vogliono ingabbiare nei corpi in cui sono nate. E se invece ci azzardiamo ad includere nelle nostre narrazioni questi vissuti, allora il nostro femminismo è ideologico ed escludente nei confronti di tutte coloro che si sentono vere donne, di tutte le persone che difendono una certa mistica della femminilità o della mascolinità e che ripudiano che un corpo non sentito come proprio possa essere trasformato.

Apparteniamo al sesso della paura, dell'umiliazione ed è su questi precetti che si costruisce la cultura dello stupro. Ma ci dicono che non è esattamente stupro, nessuno si considera uno stupratore, ciò che è successo è un'altra cosa. Lo stupro è inaccettabile, certamente, quello che fanno loro è altro. Già, perché se non avessimo voluto farci stuprare avremmo dovuto dire di no, una compagna non può non riuscire a farlo. Siamo disgustate. La parola di una compagna che muove un'accusa di stupro è prima di tutto una parola che viene messa in dubbio, bisogna sempre dimostrare che non eravamo d'accordo. Talvolta viene chiamata violenza o fattaccio ma finché quell'aggressione non viene chiamata con il suo nome perde la sua oscurità, sembra una strategia che ha una sua utilità. Dal momento che lo chiamiamo stupro tutte le credenze crollano e si mette in moto una messa in discussione totalizzante. Noi vogliamo strappare lo stupro a quell'incubo assoluto, al non detto, decidiamo di rialzarci e venirne fuori nel migliore dei modi possibili, anche vendicandoci. Nessuna parla di limitare le proprie pulsioni sessuali ma semplicemente capire cosa vuol dire NO, a prescindere dal modo in cui questo rifiuto viene manifestato.

Dinamiche di sopraffazione vorrebbero spacciarcele come simpatiche, pulsionali. Il termine sessualità è ben lungi dall'essere accostato alla violenza, se vi è consenso e desiderio, una complicità fra due o più corpi che si incontrano nell'atto del piacere. Ciò che definiamo violento è il controllo esercitato su di noi, decidere per noi.

Vogliamo guardarci allo specchio e spogliarci di tutte queste puzzolenti catene che ci vogliono far indossare, riuscendo a distruggerle sperimentando la meravigliosa possibilità di conoscerci. Le nostre parole parlano di noi, le nostre azioni parlano di noi, le nostre fantasie sessuali parlano di noi e dei nostri sogni.
Ardenti di desiderio lottiamo per l'esplosione di questo ordine che ci vuole accondiscendenti. Vittimizzazione, xenofemminismo, femminismo istituzionale, morale, linguaggio politically correct, mancato riconoscimento delle violenze. C'è sempre qualcuno che ha interesse che le cose restino come sono, e che non si provi a scavare in quella profondità oscura e infernale. Ci dicono che dobbiamo rimanere piantonate, normate ma non siamo addomesticabili. Vogliamo travolgere, non ci facciamo ammansire ed esprimiamo la nostra forza, che non determina una dominazione, ma genera caos. Conviviamo con ciò che ci viene imposto e con rabbia ascoltiamo tutto quello che non vogliamo sentire. Non abbiamo intenzione di scusarci per quello che ci impongono, né di far finta di trovarlo giusto. Siamo sopravvissute di una violenza inaudita, questa è la proposta: che se ne vadano a cagare, con la loro arroganza di sapere, con la loro ostentazione di far parte del movimento, con la loro capacità di lavarsene le mani sempre. È difficile sopportare sempre queste stronzate.

Non vogliamo che ci zittiscano, non vogliamo sottrarci al conflitto, è ora che la feccia si rivolti così com'è: puzzolente e stracciona ma ardente di sogni.

Si aprirà l’11 settembre a Lecce, un maxi processone contro quasi un centinaio di manifestanti, accusati, a vario titolo, di essersi opposti alla realizzazione del gasdotto Tap. Una sorta di evento spettacolare con grandi numeri, fatto più per impressionare e lasciare un segno repressivo che in qualche modo sia da monito anche per altri. Al di là della sede scelta per il processo, l’aula bunker, ufficialmente per motivi legati alle norme anti-covid, ufficiosamente per creare un clima adatto alla criminalizzazione dell’opposizione a Tap, che cosa resti nelle mani di accaniti e ligi dipendenti dell’Ordine e dell’Economia, non è molto. Non abbiamo nulla, infatti, da cui doverci difendere. Al contrario: questo processo dovrebbe essere un’accusa che si ribalta contro coloro che devastano la terra, per un progresso che ha svelato il suo volto marcio ormai da secoli. Infrastrutture impattanti, come un gasdotto, alimentano un sistema energivoro che produce solo devastazione, controllo, repressione. Basta guardarsi attorno. Non vi è nulla che non sia connesso e collegato alle altre cose. Per questo non possiamo pensare che la realizzazione di un gasdotto sia solo questo.

Esso invece è la realizzazione di un’opera che colonizza i luoghi e le menti. È l’espressione di un sistema economico che sta spingendo al baratro il pianeta, alla morte e alla schiavitù milioni di individui. Abbiamo una sensazione strana. Da qualche tempo ormai, da quando è scoppiata la questione xylella, questo territorio vive una trasformazione senza precedenti. Sulla morte della foresta di ulivi che lo abitavano, aleggiano gli interessi di lobby varie, dal turismo all’agricoltura industriale, tutto sembra andare nella direzione di un cambiamento economico radicale che impoverirà profondamente la natura di questi luoghi. E nel deserto che avanza, le infrastrutture energetiche troveranno di sicuro meno ostacoli. Tentativi in corso ormai da tempo anche con l’energia rinnovabile. Questo è ciò che sembra stia accadendo. Potremmo sbagliarci, ma che vi sia una lenta espropriazione di questi territori e di coloro che li abitano non sembra affatto fantascienza. Basta vedere che fine hanno fatto le tradizioni musicali, ormai imbalsamate, come in un museo, ad uso esclusivo della società dello spettacolo televisivo. Viene in mente ciò che è accaduto in Argentina, dove i Benetton hanno realizzato un museo dedicato ai Mapuche, dopo averli espropriati, uccisi e repressi, così da eliminarli e zittirli una volta per tutte e rendere testimonianza di ciò che si vuole solo passato. Ecco, nel Salento Nuovo non si vuole più vita ma solo testimonianza, sfruttamento, privatizzazione, morte culturale, omologazione, gentrificazione, emigrazione. Perciò, in questo processo, il posto da imputato è l’unico su cui ci si possa sedere, per avere tentato di opporsi almeno in parte al filo spinato che si sta ergendo davanti a noi. Ed averlo fatto praticamente, lottando, mettendo in mezzo i propri corpi. Se c’è qualcosa da difendere in questa storia, è proprio l’autodeterminazione di alcune decine di individui che, a dispetto di tutto, hanno provato ad essere sabbia negli ingranaggi del sistema industriale. E vanno difese anche le pratiche messe in atto, dai blocchi stradali, ai sabotaggi, dai disturbi arrecati alle ditte coinvolte, alle pietre. Molto poco purtroppo, ma è dall’esperienza che si impara di più, poiché l’esperienza rimane nel vissuto degli individui e delle popolazioni. Per cui, signori giudici, avete ben poco da giudicare. La vostra legge serve a garantire lo sfruttamento e il privilegio. Infrangerla è il minimo che si possa fare.

Alcuni anarchici, imputati e non

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Il nuovo numero di Sterpaglia, aperiodico errante kavernicolo, è fuori sui peggiori muri e nei luoghi pulsanti della città in rovina.

Qui sotto trovate l'indice degli scritti e se cliccate sul link potete leggerlo, scaricarlo e diffonderlo.

Nel numero di Settembre 2020:
Il Caos delle chimere
La conquista della coscienza infelice
Carogne e fischietti
Paura?!

Fino a tempi non lontani la medicina si sforzava di valorizzare ciò che avviene in natura: favoriva la tendenza delle ferite a sanarsi, del sangue a coagularsi, dei batteri a farsi sopraffare dall'immunità naturale. Oggi invece essa cerca di materializzare i sogni della ragione. I contraccettivi orali, per esempio, vengono ordinati «per prevenire un evento normale nelle persone sane». Certe terapie inducono l'organismo a interagire con delle molecole o delle macchine in modi che non hanno precedenti nell'evoluzione. I trapianti implicano la completa obliterazione delle difese immunologiche programmate geneticamente. Perciò il collegamento fra il bene del malato e il successo dello specialista non si può dare per presupposto; ormai dev'essere dimostrato, e l'apporto netto della medicina al carico di malattia della collettività va calcolato dall'esterno della professione. Ma qualunque accusa contro la medicina per il danno clinico ch'essa provoca non è che il primo passo nell'incriminazione della medicina patogena. Il segno lasciato nei campi è solo un ricordo del danno ben maggiore procurato dal barone al villaggio devastato dalla sua caccia.

Iatrogenesi sociale

La medicina pregiudica la salute non soltanto con la diretta aggressione agli individui, ma anche per l'effetto della sua organizzazione sociale sull'intero ambiente. Quando il danno medico alla salute individuale è prodotto da un modo di trasmissione sociopolitico, parlerò di «iatrogenesi sociale», intendendo con questo termine tutte le menomazioni della salute dovute appunto a quei cambiamenti socioeconomici che sono stati resi desiderabili, possibili o necessari dalla forma istituzionale assunta dalla cura della salute. La iatrogenesi sociale designa una categoria eziologica che abbraccia molteplici manifestazioni. Insorge allorché la burocrazia medica crea cattiva salute aumentando lo stress, moltiplicando rapporti di dipendenza che rendono inabili, generando nuovi bisogni dolorosi, abbassando i livelli di sopportazione del disagio o del dolore, riducendo il margine di tolleranza che si usa concedere all'individuo che soffre, e addirittura abolendo il diritto di autosalvaguardarsi. La iatrogenesi sociale agisce quando la cura della salute si tramuta in un articolo standardizzato, un prodotto industriale; quando ogni sofferenza viene «ospitalizzata» e la case diventano inospitali per le nascite, le malattie e le morti; quando la lingua in cui la gente potrebbe far esperienza del proprio corpo diventa gergo burocratico; o quando il soffrire, il piangere e il guarire al di fuori del ruolo di paziente sono classificati come una forma di devianza.

Monopolio medico

Come il suo corrispettivo clinico, la iatrogenesi sociale, da aspetto occasionale, può svilupparsi fino a diventare una caratteristica intrinseca al sistema medico.

Quando l'intensità dell'intervento biomedico supera una soglia critica, la iatrogenesi clinica si trasforma in errore, infortunio o difetto, in una insanabile perversione della pratica medica. Allo stesso modo, quando l'autonomia professionale degenera in un monopolio radicale e la gente è resa incapace di far fronte al proprio ambiente, allora la iatrogenesi sociale diventa il principale prodotto dell'organizzazione medica.

Il monopolio radicale va più in fondo di quello di una ditta o di un governo. Può assumere varie forme. Quando una città viene costruita intorno ai veicoli, toglie valore ai piedi umani; quando la scuola ha la prelazione sull'apprendimento, svaluta l'autodidatta; quando l'ospedale diventa il centro di raccolta obbligato di tutti quelli che si trovano in condizioni critiche, impone alla società una nuova forma di agonia. I monopoli comuni si accaparrano il mercato; i monopoli radicali rendono la gente incapace di fare da sé. Il monopolio commerciale limita il flusso di merci; il monopolio sociale, più insidioso, paralizza la produzione dei valori d'uso non commerciali. I monopoli radicali usurpano ancora di più la libertà e l'indipendenza: rimodellando l'ambiente e «appropriandosi» di quelle sue caratteristiche generali che avevano fin lì permesso alla gente di cavarsela da sola, obbligano un'intera società a sostituire i valori d'uso con delle merci.

L'istruzione intensiva fa dell'autodidatta un candidato alla disoccupazione, l'agricoltura intensiva elimina il contadino autosufficiente, lo spiegamento di polizia sgretola la capacità d'autocontrollo della comunità. La propagazione maligna della medicina ha risultati analoghi: trasforma l'assistenza reciproca e l'automedicazione in atti illeciti o criminosi. Come la iatrogenesi clinica diventa incurabile dai medici quando raggiunge una intensità critica e può allora regredire solo con un ridimensionamento dell'impresa, così la iatrogenesi sociale è reversibile solo mediante un'azione politica che riduca il dominio professionale.

Il monopolio radicale si nutre di se stesso. La medicina iatrogena rafforza una società morbosa nella quale il controllo sociale della popolazione da parte del sistema medico diventa un'attività economica fondamentale; serve a legittimare ordinamenti sociali in cui molti non riescono ad adattarsi; definisce inabili gli handicappati e genera sempre nuove categorie di pazienti. L'individuo che è irritato, nauseato e menomato dal lavoro e dallo svago industriali può trovare scampo solo in una vita sotto vigilanza medica e viene distolto o escluso dalla lotta politica per un mondo più sano.

La iatrogenesi sociale non è ancora accettata come una normale eziologia di stato morboso. Se si ammettesse che la diagnosi spesso serve come mezzo per convertire le lagnanze politiche contro lo stress della crescita in richieste di maggiori terapie che significano solo maggiori quantità dei suoi costosi e stressanti prodotti, il sistema industriale perderebbe una delle sue principali difese. Nello stesso tempo, la consapevolezza della misura in cui la cattiva salute iatrogena è trasmessa politicamente scuoterebbe le basi del potere medico molto di più di qualunque catalogo delle insufficienze tecniche della medicina.

Cure indipendenti dai valori?

Il problema della iatrogenesi sociale viene spesso confuso con l'autorità diagnostica del guaritore. Per disinnescare il problema e difendere la propria reputazione, alcuni medici insistono sull'ovvio: e cioè che non si può praticare la medicina senza che si abbia una creazione iatrogena di malattia. La medicina crea sempre la malattia come stato sociale. Il guaritore ufficialmente riconosciuto trasmette agli individui le possibilità sociali di comportarsi da malati. Ogni cultura ha un proprio modo di concepire la malattia e quindi una sua peculiare maschera sanitaria. La malattia prende i suoi caratteri dal medico, il quale assegna agli attori uno dei ruoli disponibili. Rendere la gente legittimamente malata è altrettanto implicito nel potere del medico quanto il potenziale tossico nel rimedio che funziona. Lo stregone padroneggia veleni e incantesimi. L'unico termine che avevano i greci per «medicinale», pharmakon, non faceva distinzioni tra il potere di guarire e il potere di uccidere.

La medicina è un'impresa morale, e inevitabilmente perciò dà contenuto al bene e al male. In ogni società la medicina, al pari del diritto e della religione, definisce ciò che è normale, giusto o desiderabile. La medicina ha l'autorità di etichettare come malattia legittima ciò che lamenta un individuo, di dichiarare malato un altro che non si lamenta, e di rifiutare a un terzo il riconoscimento sociale della sua sofferenza, della sua invalidità e persino della sua morte. È la medicina che autentica un certo dolore come «meramente soggettivo», una determinata infermità come simulazione e certe morti (e non altre) come suicidio. Il giudice stabilisce che cosa è legale e chi è colpevole, il prete dichiara che cosa è sacro e chi ha violato un tabù; il medico decide che cosa è un sintomo e chi è malato. Egli è un imprenditore morale, dotato di poteri inquisitori per scoprire certi torti da raddrizzare. Come tutte le crociate, la medicina crea un nuovo gruppo di diversi ogni volta che fa attecchire una nuova diagnosi. La morale è altrettanto implicita nella malattia quanto nel delitto o nel peccato.

Nelle società primitive è ovvio per tutti che l'esercizio dell'arte medica comporta il riconoscimento di un potere morale: nessuno chiamerebbe lo stregone se non gli riconoscesse l'abilità di discernere gli spiriti maligni da quelli buoni. In una civiltà superiore questo potere si espande. Qui la medicina è esercitata da specialisti a tempo pieno, i quali controllano vaste popolazioni per mezzo di istituzioni burocratiche. Questi specialisti formano professioni le quali esercitano sul loro lavoro un tipo di controllo che è unico nel suo genere. Diversamente dai sindacati, infatti, esse debbono la loro autonomia non alla vittoria conseguita in una lotta, ma a un mandato di fiducia. Diversamente dalle associazioni di mestiere, le quali si limitano a stabilire chi ha il diritto di lavorare e a quali patti, esse stabiliscono anche quale lavoro bisogna fare. Nata spesso da riforme delle facoltà di medicina (negli Stati Uniti, per esempio, alla vigilia della prima guerra mondiale), la professione medica è la manifestazione, in un settore particolare, del controllo sulla struttura del potere di classe acquisito dalle élite di formazione universitaria nel corso dell'ultimo secolo. Soltanto i dottori oggi «sanno» che cosa costituisce una malattia, chi è malato, e che cosa bisogna fare al malato e a quelli che essi considerano «esposti ad uno speciale rischio». Paradossalmente, la medicina occidentale, che ha sempre affermato di voler tenere separato il proprio potere dalle religione e dalla legge, l'ha ormai esteso al di là di ogni precedente. In alcune società industriali la classificazione sociale è stata medicalizzata a tal punto che ogni devianza deve avere un'etichetta medica. L'eclissi della componente esplicitamente morale della diagnosi medica ha così conferito all'autorità asclepiea un potere totalitario.

Si è difeso il divorzio della medicina dalla morale con l'argomento che le categorie mediche, a differenza di quelle giuridiche e religiose, poggiano su fondamenti scientifici non soggetti a giudizio morale. L'etica sanitaria è stata occultata in un reparto specializzato, che aggiorna la teoria alla pratica effettiva. I tribunali e la legge, quando non vengono impiegati per far rispettare il monopolio asclepieo, sono trasformati in portieri dell'ospedale, addetti a selezionare tra i postulanti quelli che rispondono ai criteri stabiliti dai medici. Gli ospedali diventano monumenti di scientismo narcisistico, concretizzazioni dei pregiudizi professionali ch'erano di moda il giorno in cui fu posta la loro prima pietra e che spesso risultano superati il giorno dell'inaugurazione. L'impresa tecnica del medico vanta un potere esente da valori. In un simile contesto, è ovvio, diventa facile schivare il problema della iatrogenesi sociale di cui mi occupo. Il danno medico mediato politicamente viene visto come inerente al mandato della medicina, e chi lo critica è considerato un sofista che cerca di giustificare l'intrusione dei profani nel territorio di competenza del medico. Proprio per questo motivo è urgente un'analisi profana della iatrogenesi sociale. L'affermazione che l'attività terapeutica sarebbe indipendente dai valori è ovviamente un nefasto nonsenso, e i tabù che hanno fatto scudo alla medicina irresponsabile cominciano a crollare.

La medicalizzazione del bilancio

La misura più semplice della medicalizzazione della vita è la quota del reddito annuo tipico che viene spesa su ordine del medico. […]

In tutti i paesi la medicalizzazione del bilancio è in rapporto con ben note situazioni di sfruttamento all'interno della struttura di classe. Non c'è dubbio che il dominio delle oligarchie capitalistiche negli Stati Uniti, l'arroganza dei nuovi mandarini in Svezia, la servilità e l'etnocentrismo dei professionisti moscoviti e le manovre di corridoio degli ordini dei medici e dei farmacisti, come pure la nuova ondata di sindacalismo corporativo nel settore sanitario, costituiscono tanti formidabili ostacoli a una distribuzione delle risorse che avvantaggi i malati anziché i loro sedicenti tutori. Ma la ragione fondamentale per cui queste costose burocrazie sono perniciose per la salute non sta nella loro funzione strumentale, bensì nella loro funzione simbolica; esse esaltano tutte quante il concetto di prestazioni di assistenza per la componente umana della megamacchina, e le critiche che rivendicano una prestazione migliore e più equa non fanno che consolidare l'impegno sociale a tener occupata la gente in lavori che la fanno ammalare. La guerra tra i fautori delle mutue e quelli che invece vogliono un servizio sanitario nazionale, come la guerra tra chi difende e chi combatte la libera professione, sposta l'attenzione pubblica dal danno causato dalla medicina che protegge un ordinamento sociale distruttivo, al fatto che i medici fanno meno di quanto ci si aspetta a tutela della società dei consumi.

Al di là di una certa incidenza sul bilancio, il denaro che espande il controllo medico sullo spazio, sugli orari, sull'istruzione, sulla dieta, sul disegno delle macchine e dei beni finisce inevitabilmente per scatenare un «incubo forgiato di buone intenzioni». Il denaro può sempre minacciare la salute; troppo denaro la corrompe. Al di là di un certo punto, ciò che può produrre denaro o ciò che si può comprare col denaro restringe l'ambito della «vita» scelta autonomamente. Non soltanto la produzione ma anche il consumo accentua la scarsità di tempo, di spazio e di scelta. Il prestigio della merce medica non può quindi che insidiare la coltivazione della salute, la quale, all'interno di un ambiente dato, dipende in larga misura dal vigore innato e congenito. Quanto più tempo, fatica e sacrifici vengono spesi per produrre medicina-merce, tanto maggiore sarà il sottoprodotto, cioè la falsa idea che la società abbia una provvista di salute riposta che può essere tirata fuori e messa sul mercato. La funzione negativa del denaro è quella di un indicatore della svalutazione dei beni e servizi che non si possono comprare. Più alto è il prezzo da sborsare per carpire il benessere, tanto maggiore è il prestigio politico d'una espropriazione della salute pubblica.

L'invasione farmaceutica

Non occorrono dottori per medicalizzare ifarmaci di una società. Anche senza troppi ospedali e facoltà di medicina una cultura può diventare preda di una invasione farmaceutica. Ogni cultura ha i suoi veleni, i sui rimedi, i suoi placebo e i suoi scenari rituali per la loro somministrazione. La maggior parte di essi è destinata ai sani più che ai malati. I potenti farmaci medici distruggono facilmente la struttura, radicata nella storia, che adatta ogni cultura ai suoi veleni; di solito essi procurano più danno che beneficio alla salute, e finiscono con l'instaurare una nuova mentalità per cui il corpo viene visto come una macchina, azionata da manopole e interruttori meccanici.

[…] Ancora 10 anni fa, in Messico, quando la popolazione era povera, i medicinali relativamente scarsi e la maggior parte dei malati era assistita dalla vecchia nonna o dall'erborista, i prodotti farmaceutici erano accompagnati da un foglietto di spiegazioni; oggi che le medicine sono più abbondanti, potenti e pericolose e si vendono per televisione e per radio e la gente che ha fatto le scuole si vergogna della propria residua fede nel guaritore azteco, il foglietto descrittivo è stato sostituito da un'avvertenza sempre uguale che dice: «Da usare secondo prescrizione medica». La finzione intesa a esorcizzare il farmaco medicalizzandolo, in realtà, non fa che confondere l'acquirente: ammonendolo a consultare un medico gli fa credere d'essere incapace di badare a se stesso. Nella maggior parte del mondo i medici non sono abbastanza ben distribuiti per poter prescrivere terapie a doppio taglio ogni volta che occorre, ed essi stessi nella maggioranza dei casi sono impreparati, o troppo ignoranti, per poter prescrivere con la necessaria cautela. Di conseguenza la funzione del medico, specialmente nei Paesi poveri, è diventata banale: il dottore si è trasformato in una volgare macchina da ricette che tutti prendono in giro, e la maggioranza della gente prende ormai le stesse medicine, altrettanto a caso, ma senza il suo benestare. […]

Lo stigma preventivo

Mentre l'intervento curativo si veniva concentrando sempre su stati per i quali esso è inefficace, costoso e doloroso, la medicina cominciava a smerciare prevenzione. Il concetto di morbosità si è esteso fino ad abbracciare i rischi pronosticati. Dopo la cura delle malattie, anche la cura della salute è diventata una merce, cioè qualcosa che si compra e non che si fa. […] Ci si tramuta in pazienti senza essere malati. La medicalizzazione della prevenzione diventa così un altro grande sintomo di iatrogenesi sociale. Essa tende a trasformare la mia responsabilità personale per il mio futuro in gestione del mio essere da parte di qualche agenzia. […]

L'esecuzione sistematica di controlli diagnostici precoci su vaste popolazioni garantisce al medico-ricercatore un'ampia base da cui attingere i casi che meglio si adattano ai sistemi di cura esistenti o che sono più utili per portare avanti le indagini, servano o no le terapie a guarire o a dare sollievo. Ma mentre avviene questo, le persone si rafforzano nell'idea di essere delle macchine la cui durata dipende dalle visite all'officina di manutenzione, e sono così non solo obbligate ma trascinate a pagare perché la corporazione medica possa fare i suoi studi di mercato e sviluppare la sua attività commerciale.

La diagnosi, sempre, aggrava lo stress, stabilisce un'incapacità, impone inattività, concentra i pensieri del soggetto sulla non-guarigione, sull'incertezza e sulla sua dipendenza da futuri ritrovati medici: tutte cose che equivalgono a una perdita di autonomia nella determinazione di sé. Inoltre, isola la persona in un ruolo speciale, la separa dai normali e dai sani ed esige sottomissione all'autorità di un personale specializzato. Quando tutta una società si organizza in funzione di una caccia preventiva alle malattie, la diagnosi assume allora i caratteri di una epidemia. Questo strumento tronfio della cultura terapeutica tramuta l'indipendenza della normale persona sana in una forma intollerabile di devianza. Alla lunga, l'attività principale di una simile società dai sistemi introvertiti porta alla produzione fantomatica di speranza di vita come merce. Identificando l'uomo statistico con gli uomini biologicamente unici, si crea una domanda insaziabile di risorse finite. L'individuo è subordinato alle superiori «esigenze» del tutto, le misure preventive diventano obbligatorie, e il diritto del paziente a negare il consenso alla propria cura si vanifica allorché il medico sostiene ch'egli deve sottoporsi alla diagnosi non potendo la società permettersi il peso d'interventi curativi che sarebbero ancora più costosi.

Tratto da Nemesi medica di Ivan Illich, 1976