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Smascherare il nemico – Note sull’operazione Bialystok

Mi dolgo di ogni crimine che nella mia vita non ho commesso.
Mi dolgo di ogni desiderio che nella mia vita non ho soddisfatto.

Dichiarazione di Senna Hoy, un anarchico di Bialystok

Il 12 giugno a Roma scatta l'operazione «Bialystok», condotta da quelle merde dei ROS, che porta in carcere 7 individualità sparse fra Italia, Francia e Spagna: 5 in carcere e 2 agli arresti domiciliari.

Se non fosse che in questo caso ha a che fare con la repressione, il nome di Bialystok per molte ha invece un che di poetico: rimanda all'esperienza breve ma intensa di alcuni anarchici ebrei-polacchi che diedero vita ad uno scontro senza mediazioni contro i rappresentanti del potere in tutte le sue forme (Stato, religione, famiglia, poteri economici). Con attacchi a suon di dinamite, propaganda col fatto, cospirazioni e azioni in piccoli gruppi di affinità, quegli anarchici del primo novecento, inebriati dall'idea della riproducibilità delle loro azioni, credevano di poter incendiare i cuori di chi sa individuare il nemico. Il loro sogno, come quello di tutte quelle persone che si definiscono anarchiche, era l'insurrezione: farla finita con il mondo dell'autorità per far nascere qualcosa di inedito, attraverso una rottura violenta con tutti i dogmi e i luoghi comuni.

Pur lontani nella storia, quei compagni parlano di idee che sono tutt'altro che lettera morta, come si è visto ultimamente in tutto il mondo: le rivolte in carcere scoppiate ovunque durante la pandemia, le sommosse negli Stati Uniti contro il razzismo e la brutalità della polizia, e ancora gli insorti di Cile, Libano e Hong Kong che non si piegano alla repressione sanguinaria di chi vuol difendere i privilegi dei soliti noti. Questi sono solo alcuni esempi di come le condizioni sociali imposte attraverso lo sfruttamento creino la possibilità di rivoltarsi contro di esso, perché ci sarà sempre chi troverà il modo di ribellarsi e di attaccare la propria condizione di schiavo.

Per entrare nel merito, di cosa sono accusate queste compagne anarchiche? Prima di tutto di avere delle idee pericolose per un sistema basato sul potere e sul dominio della merce, ben difeso da un sistema tecnico che non è neutrale e che persuade la maggioranza delle persone all'opinione che questo mondo sia ineluttabile. Il sacrilegio esiste quando c'è chi interpreta la vita sempre con un coltello fra i denti, soffiando sul fuoco ogni volta che si scorgono possibilità di rottura con l'esistente o quando si sopravvive in apparente pace sociale, ispirando anche altre ad agire contro il nemico. Considerando ciò che venne scritto a proposito di un anarchico di Bialystok, “conosceva solo le gioie di una lotta intensa e febbrile. M. riconosceva solo un nemico, la tranquillità, la monotonia, la banalità”, va da sé che lo sguardo di chi cospira contro l'esistente si muove senza sosta un po' dappertutto. Se per il mondo in cui viviamo è giusto che Eni, come tante altre multinazionali, continuino a devastare il pianeta e ad alimentare guerre per l'oro nero; se gli stupri, le torture e i pestaggi che avvengono nelle caserme e nelle carceri hanno senso per mantenere questa mortifera tranquillità, allora noi stiamo dalla parte del torto con queste individualità anarchiche, accusate di aver colpito proprio questi tentacoli del dominio. Rifiutando la logica della colpevolezza e dell'innocenza, non c'interessa sapere se siano state loro o meno, ma siamo ben contenti di sapere che queste pratiche siano esistite in passato e continuino ad esistere ancora oggi.

Per le accuse che pendono sulla testa dei compagni incarcerati non ha senso separare la repressione che colpisce gli antiautoritari da quella che cerca di stroncare, spesso preventivamente (come nel caso dell'operazione Ritrovo ai danni delle anarchiche di Bologna), ogni critica all'ordine e qualunque sintomo di rivolta non recuperabile dai falsi critici dell'esistente. Fra una minaccia “terroristica” e un contagio del virus della servitù, fra “lotta alla criminalità” e gestione della guerra all'epoca dell'epidemia, il discorso repressivo sta usando il suo manganello concettuale per difendersi dagli assalti del presente. In un periodo in cui il mondo sta cambiando ad una diversa velocità, dove la militarizzazione degli spazi diventa sempre più asfissiante, le condizioni di sopravvivenza si fanno sempre più stringenti e il controllo totalitario della tecnologia fa i conti più con la persuasione dei suoi sudditi che con la critica di qualche individuo affascinato dall'autismo degli insorti, la questione essenziale è come e perché sconvolgere il mondo dell'identico con la passione dello straordinario. Per non darsi al banale, per difendere tutte le ribelli rinchiuse nelle galere e per guardarsi la mattina allo specchio e rendersi conto che la tetra realtà non può fermare i sogni di sovversione. Alla fine anche le più pessimiste l'avranno notato: se purtroppo alcuni anarchici scendono a compromessi con la fandonia della politica o con l'orrore della violenza gregaria, non prendendo una posizione chiara ed etica neanche quando accadono sopraffazioni inaccettabili, le idee sovversive invece, quando la rabbia esplode, sono linfa vitale per scardinare questo mondo. L'attacco degli insorti al mondo poliziesco partito dall'ennesimo omicidio ai danni di un afroamericano non ci parla proprio di questo? Vogliamo lasciarci assuefare dalla monotonia (anche quella militante) o viverci l'utopia?