“La tradizione degli oppressi ci insegna che lo «stato di emergenza» in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo”
Iniziare mettendo le mani avanti non è certo mossa di gran stile, ma non si può tenere il timone del ragionamento tra gli imperiosi flutti di queste settimane in altro modo. Ecco perché mettere nero su bianco alcune considerazioni su ciò che sta accadendo negli ultimi giorni dopo la proclamazione della zona rossa in tutt’Italia e della pandemia da parte dell’Oms richiede una certa cautela e la possibilità di tornare sui propri passi e ragionarvi ancora. Le rifessioni da aggiustare non mancheranno man mano che la situazione muterà, e la mutazione in un tempo dell’ultravelocità e dell’iperstoria non è una componente secondaria – basterebbe anche solo vedere i cambiamenti degli atteggiamenti di milioni di “italiani” a seconda degli input informazionali dati loro di minuto in minuto, da quelli dei politici ai più banali articolini dei media che passano da suggerire aperitivi spensierati a far affollare con disperazione i supermercati notturni. Tuttavia si oscillerebbe tra l’insensato e l’improvvisato se ci si lasciasse andare a questo flusso e se non si ripescassero per la giusta occasione degli strumenti meno contestuali, magari proprio le vecchie lezioni impolverate sulla rivoluzione per darle finalmente una possibilità consistente.
La situazione del momento non necessita di grosse descrizioni già pienamente note e vissute sulla pelle: un’epidemia virulenta (generata dal nuovo virus Covid-19) si sta estendendo a livello globale e crea in una fetta consistente di popolazione che la contrae una malattia respiratoria acuta. La linea di contagio esponenziale sin dall’inizio indica con assoluta certezza l’insufficienza delle strutture ospedaliere per i tanti individui che svilupperanno complicazioni. Le specifiche della gestione sanitaria pubblica le lasceremo però ai feticisti dei conti delle ultime spending review, mentre pare necessario perlomeno partire da una considerazione semplice: la diffusione non si sarebbe potuta bloccare con nessuna risorsa statuale, né con la faccia malevola dell’estrema territorializzazione militare, né con quella più bonaria di un sistema sanitario pubblico in forma smagliante. O per meglio dire, il sistema capitalistico nella sua forma di sfruttamento uomo/natura e uomo/uomo, con le sue caratteristiche predatorie nei confronti di ambiente e classi sfruttate al fine di produrre profitto e riprodurre sé stesso, non può garantire nessuna reale lotta al contagio.
Ed è proprio questa ovvietà svelata nella sua terribile concretezza a smontare il più forte mito del progresso di questo secolo. Le magnifiche sorti e progressive presentate ormai come illimitate nulla possono al banco di prova della realtà contro gli effetti della devastazione del capitalismo nella sua interconnessione globale; a ogni effetto di questo sfacelo, che sia un virus o l’innalzamento dei mari, non c’è soluzione immediata o che possa rispondere alla forma del discorso pubblico dello stato nazionale, ancora ancorato alla retorica dell’universalità novecentesca. In questo senso ci troviamo di fronte a un inedito, non perché virus e catastrofi naturali siano solo effetto della devastazione capitalistica di cui sopra, come insegnano le vicende della Terra, ma perché in questo caso è stato imposto un limite secco alla fiducia del discorso imperante sulla tecnologia. Ebbene sì, perché una soluzione medica non c’è e non si trova in pochi mesi nonostante i più avanzati studi internazionali e la corsa delle case farmaceutiche ad arrivare per prime al vaccino, perché non basta un atto di limitazione dei flussi da parte di uno o più stati a fronte della complessità dell’organizzazione umana oggi, perché il mondo lasciato a specchiarsi in una superfice virtuale, in cui è talvolta difficile distinguere il possibile dall’impossibile, è in realtà così fragile.
Ed è proprio lo svelamento scenico di questa fragilità a solleticare i sogni un po’ sopiti di noi sovversivi. Fino a qualche settimana fa sembrava non muoversi foglia senza previsione statistica, la normalità dello sfruttamento capitalista sembrava irremovibile a fronte di una diminuzione costante e senza opposizione delle tutele sociali, la repressione carceraria schiacciante. Di certo non si vuole sostenere che tutto ciò sia finito e che la pandemia del coronavirus sia una ventata d’aria fresca, tuttavia non si può ignorare l’energia che potrebbe scaturire da questo momento di crisi gestionaria, basterebbe anche solo quell’assaggio scaturito dalle rivolte in quasi tutte le carceri italiane di qualche giorno fa a farne sentire il gusto dolce.
In cinese crisi si dice “weiji” e il suo ideogramma è formato da “rischio” e “opportunità”. In realtà anche in italiano il termine “crisi” ha lo stesso significato ed è una cosa nota e banale che in medicina, ad esempio, la fase critica è quella in cui il paziente o guarisce, o muore. La storia rivoluzionaria insegna che i momenti critici non sono mai rosei, se non lo è certamente questo virus, tantomeno lo sono state le epidemie della Parigi ottocentesca o l’enorme tragedia umana lasciata dalla Grande Guerra. Proprio quest’ultimo esempio dovrebbe suggerire quanto l’afflato rivoluzionario non potesse rimpiangere la normalità dello stato liberale pre-bellico. Fu catastrofe immane, preceduta da altri conflitti locali mai dilagati su larga scala, ma anche l’opportunità, finita presto e come ahinoi sappiamo, di far scoppiare una rivoluzione.
Del resto non sono queste le occasioni in cui “quelli di sotto” non possono più sopravvivere come prima e “quelli di sopra” non riescono più a governare come prima? Invece di lamentarsi del governo che chiude le scuole, della perturbazione dello status quo, un movimento rivoluzionario (la cui esistenza è un’ipotesi di fantapolitica, quindi se ne può parlare liberamente e senza timore) dovrebbe proclamare immediatamente lo sciopero generale a tempo indeterminato e promuovere l’auto-organizzazione per garantire beni e servizi indispensabili. Il tutto non per tornare nei ranghi della normalità del diritto di assembramento o di sciopero, ma per trasformare la crisi in spaccatura definitiva. Piuttosto ingenuo, se non conservatore, il giudizio sofisticato di chi pensa che non si debba trasformare quest’emergenza sanitaria in crisi sociale: o non vede che la crisi è già in atto, o è spaventato di perdere le condizioni di vita a cui era affezionato, seppur aspramente criticate. L’idea che tornare alla normalità del diritto sia cosa buona e che il terreno della normalità sia il meno scivoloso in cui muoversi per intaccare il reale è smontato dalla mestizia degli ultimi decenni di deserto. I dati della miseria sociale li lasceremo ai sociologi se riusciranno a tornare al loro agognato luogo di lavoro, ci permettiamo di continuare a diffidare degli amanti della gradualità con cui si accompagnano fino alla pensione.
Per ora non c’è nessun movimento rivoluzionario ma la crisi sì, con un governo che nonostante la quarantena nazionale non può impedire la circolazione dei lavoratori per non intaccare ulteriormente produzione, PIL e titoli di borsa, con un isolamento domiciliare di cui non si vede la fine, con un reddito incerto o persino già perso dall’inizio.
D’altra parte dopo lunghissimi anni ci sono, oltre che le patrie galere a ferro e fuoco, più scioperi che si stanno diffondendo velocemente, dalla Fiat di Pomigliano, alla Bartolini di Caorso, agli stabilimenti Ikea, ai portuali di Genova, alla Wirhlpool di Cassinetta, gli operai incrociano le braccia organizzandosi spontaneamente in tutto il paese. Le forme del lavoro e la faglia di conflitto tra chi dovrà per forza uscire a lavorare, tra chi non avrà un soldo stando a casa, chi una casa neanche ce l’ha da una parte, e i ceti tutelati dall’altra, di certo scompaginerà, ancor più dei modelli organizzativi delle aziende, le divisioni sociali.
E quindi, come la facciamo diventare un’opportunità?
Macerie, 12/03/20