Roma – Corrispondenza da Tor Sapienza
Tor Sapienza, esempio di architettura concentrazionaria. Piccolo quartiere disperso nell’immensa periferia romana. Case popolari, edifici disposti ad anello, con un unica via di accesso ed un unico bar come punto di ritrovo. Il cento di prima accoglienza (per minori non accompagnati, richiedenti asilo e misure alternative al carcere minorile) lo hanno piazzato lì, al centro della discarica sociale costruita trent’anni fa, ma è corpo estraneo anche ai codici condivisi del ghetto, unico edificio in qualche modo collegabile allo Stato, altrimenti ritiratosi da questo suo lembo estremo. Un edificio in cui vivono dei poveri considerati privilegiati perché hanno tetto e pasti assicurati.
É in questo luogo, che martedì scorso dopo un’assemblea pubblica una parte degli abitanti ha protestato contro il centro di accoglienza ed alcuni lo hanno attaccato con bombe carta.
Il Centro non ha mai creato particolari problemi a nessuno. Parlando con persone diverse (ospiti, operatori, residenti) non è emersa una chiara causa scatenante degli attacchi. Neppure i media abituati a sponsorizzare la guerra etnica, ci hanno detto qual’è stata la “colpa” degli immigrati, se non quella di esistere.
I pochi episodi citati come “causa scatenante” non coinvolgono gli ospiti del centro: i residenti lo sanno perfettamente. Non si è verificata, da quanto abbiamo appurato, una lesione degli interessi criminali di qualche capo-zona, recondita causa di episodi similari.
Cos’è successo quindi e perché?
Ci sembra che Il centro di accoglienza sia stato individuato come anello debole, come punto facile da attaccare per rendere visibili le proprie rivendicazioni e sfogare la frustrazione.
Da quanto abbiamo appreso esiste nel quartiere un forte malessere legato alla qualità della vita ed alla mancanza di servizi. Vi è una difficile convivenza, nella comune povertà, degli italiani con gli stranieri residenti in zona, in particolare con il vicino campo nomadi. Vi è un evidente dilagare di una sottocultura razzista, malcelata dietro il solito “io non sono razzista ma …”.
Esiste poi chi questi attacchi li sta pianificando da tempo. Chi fomenta e incanala l’odio, indirizzandolo contro i poveri tra i poveri. Il tutto palesemente finalizzato al controllo sociale, ad un progetto politico di destra che ricalca modelli che hanno avuto successo in Grecia e Francia.
Dietro episodi come questo, che si stanno susseguendo sul territorio romano troviamo sempre gli stessi attori: pezzi del neofascismo e famiglie criminali fanno il lavoro sporco, comitati anti-degrado ed il partito “Fratelli d’Italia” si muovono alla luce del sole.
É l’anticipo di una campagna elettorale sporca.
É, inoltre, una battaglia che questi fascisti stanno vincendo nel momento in cui sono riusciti a determinare il terreno dello scontro: quello del degrado e della sicurezza. La sinistra, con la sua aggiunta dose di ipocrisia, insegue sullo stesso piano. Il risultato per i poveri è la repressione. Per gli immigrati in particolare, ad ogni sparata di questi “cittadini per l’ordine”, seguono retate, deportazioni nei CIE, espulsioni.
Successivamente al primo assalto, diversi solidali hanno preso contatti con questa realtà. Si tratta di un quartiere di duemila abitanti con scarsa presenza di compagni, nonostante la zona di Roma est abbia un’alta concentrazione di case occupate, centri sociali, collettivi.
Mercoledì sera, quando tutto sembrava tranquillo, si è verificato un secondo attacco. In questo caso si è trattato di un’azione pianificata compiuta da non molte persone, capaci di stare in strada e reggere gli scontri. É molto probabile che una parte degli assalitori sia venuta dall’esterno del quartiere e che vi fossero fascisti. L’attacco è stato violento ed effettuato da più lati, i ragazzi del centro hanno barricato le porte e lanciato oggetti dalle finestre per impedire l’accesso.
Alcuni solidali con gli immigrati hanno tentato di radunarsi per portare un aiuto, ma sono giunti sul posto quando l’accesso al quartiere era bloccato dalla polizia giunta in forze.
I razzisti hanno vinto questo scontro nel momento in cui hanno fatto assumere all’episodio una dimensione di carattere nazionale, garantendosi il successo del trasferimento della struttura e costruendo un precedente riproducibile a cascata su tutto il territorio. Di questo va preso atto.
Prendendo contatti con il centro, il giorno successivo, ci è stato fatto presente come la minaccia di tornare ad incendiare il posto fatta la sera precedente fosse da prendere seriamente. Nel pomeriggio, da parte degli operatori che temevano per l’incolumità degli ospiti, è stata fatta una chiamata per intervenire a difesa nell’eventualità di un attacco.
Non nutriamo simpatia per i centri di accoglienza, ma ci sembra interessante sottolineare il fatto che da un’entità legata alle istituzioni sia partito un’ appello verso verso contesti solidali, informali o antagonisti. Ci sembra che ben simboleggi il ritirarsi dello Stato, di fronte alla crisi, dalle sue diramazioni periferiche.
Questo territorio abbandonato cos’è?
É certamente un terreno su cui rischia di insediarsi la guerra civile, la barbarie dello scontro etnico. Per qualcuno è un terreno sul quale bisogna fare ritornare lo Stato, richiamandolo ai suoi doveri. Ci piace proporre un’altra lettura, più difficile da concretizzare ma molto più allettante: quella di un terreno provvisoriamente liberato, sul quale si può trovare lo spazio per costruire forme di sperimentazione, di autonomia, auto-organizzazione, autogestione. Non chiediamo nulla ma ci riprendiamo quanto lo Stato abbandona retrocedendo.
Alla richiesta di intervento, molti hanno risposto negativamente, anteponendo considerazioni di stampo strategico, che sconsigliavano di intervenire. Insieme ad altri abbiamo risposto all’appello partendo da considerazioni di natura etica. Volevamo dire a ragazzi, alcuni con alle spalle esperienze traumatiche, che fuori da quelle mura non vi era solo odio contro di loro. Queste persone erano in pericolo, noi potevamo intervenire, quindi lo dovevamo fare.
Le considerazioni strategiche le lasciamo a persone sicuramente più abili di noi.
Siamo andati in un contesto non facile, con il centro presidiato dalle polizia, ed alcuni dei solidali sono riusciti ad entrare. Il nostri bottino politico consiste nell’accoglienza e nei sorrisi sinceri che abbiamo ricevuto dai ragazzi: siamo contenti così.
All’esterno le voce dell’arrivo dei fasci si sono susseguite senza che i fasci arrivassero. Dall’alto lato della strada si è radunato un folto gruppo di persone, visto che siamo stati invitati a parlare ci siamo avvicinati. L’impressione è stata quella di trovarsi di fronte la Folla nel senso teorico del termine, con i suoi umori, la sua imprevedibilità, la sua plasmabilità. Persone che, in fondo, hanno un gran bisogno di parlare e di sfogare il loro disagio. Ci hanno identificai come “quelli dei centri sociali”, che non sanno niente, e che vengono a gettare discredito su di loro. Ci vorrebbe molto tempo per stabile un dialogo proficuo, abbiamo una forte necessità di capire, oltre ogni letture ideologica e precostituita.
Abbiamo semplicemente detto di non avere nulla a che spartire con le guardie e questo era l’unico punto d’incontro immediatamente possibile.
Parlando della famosa guerra tra poveri, abbiamo chiesto come si potesse prendersela con dei ragazzini e non con i veri responsabili del disagio che non sono certo difficili da individuare. Qualcuno ci ha risposto – parole letterali – che il centro è solo un capro espiatorio, insomma il posto giusto per fare casino, attirare l’attenzione, farsi dare qualcosa e probabilmente, aggiungiamo noi, fare un piacere a qualcuno che poi si ricorderà.
La notte è molto buia in questa via. Nei prossimi giorni giorni arriveranno i politici a farsi fare le foto davanti al trofeo. La guerra sociale, invece, riprende da domani in un punto qualsiasi qua attorno. Chi vuole star sveglio prenda il suo posto.
Roma 13-11-2014