Il macabro bilancio dei decessi aumenta di giorno in giorno, e nell'immaginario di ciascuno prende posto la sensazione, dapprima vaga e poi via via più forte, d’essere sempre più minacciati dal Triste Mietitore. Per centinaia di milioni di esseri umani, questo immaginario non è certamente nuovo, quello della morte che può colpire chiunque, in qualsiasi momento. Basti pensare ai dannati della terra sacrificati quotidianamente sull'altare del potere e del profitto: coloro che sopravvivono sotto le bombe degli Stati, in mezzo a infinite guerre per il petrolio o per le risorse minerarie, coloro che coabitano con la radioattività invisibile provocata da incidenti o da scorie nucleari, coloro che attraversano il Sahel o il Mediterraneo e che sono rinchiusi in campi di concentramento per immigrati, coloro che vengono ridotti a brani di carne e ossa dalla miseria e dalla devastazione generate dall'agroindustria e dall'estrazione di materie prime... E anche nelle terre in cui abitiamo, in epoche non molto lontane, abbiamo conosciuto il terrore delle macellerie su scala industriale, dei bombardamenti, dei campi di sterminio... creati sempre dalla sete di potere e di ricchezza degli Stati e dei padroni, sempre fedelmente istituiti da eserciti e polizia...
Ma no, oggi non stiamo parlando di quei volti di disperati che cerchiamo costantemente di tenere distanti dai nostri occhi e dalle nostre teste, né di una storia ormai passata. Il terrore comincia a diffondersi nella culla del regno della merce e della pace sociale ed è causato da un virus che può attaccare chiunque — anche se ovviamente non tutti avranno le stesse possibilità di curarsi. E in un mondo in cui si è abituati alla menzogna, in cui l'uso di cifre e statistiche è uno dei principali mezzi di manipolazione mediatica, in un mondo in cui la verità è continuamente nascosta, mutilata e trasformata dai media, possiamo solo tentare di mettere insieme i pezzi, di fare ipotesi, provare a resistere a questa mobilitazione delle menti e porsi la domanda: in quale direzione stiamo andando?
In Cina, poi in Italia, vengono imposte nuove misure repressive giorno dopo giorno, fino a raggiungere il limite che nessuno Stato aveva ancora osato varcare: il divieto di uscire di casa e di spostarsi sul territorio tranne che per motivi di lavoro o per stretta necessità. Nemmeno la guerra avrebbe potuto consentire l'accettazione di misure di tale portata da parte della popolazione. Ma questo nuovo totalitarismo ha il volto della Scienza e della Medicina, della neutralità e dell'interesse comune. Le aziende farmaceutiche, delle telecomunicazioni e delle nuove tecnologie troveranno la soluzione. In Cina, l'imposizione della geolocalizzazione per segnalare qualsiasi spostamento e ogni caso di infezione, il riconoscimento facciale e il commercio elettronico aiutano lo Stato a garantire la reclusione di ogni cittadino in casa propria. Oggi gli stessi Stati che hanno fondato la loro esistenza su detenzione, guerra e massacro, anche del loro stesso popolo, impongono la loro «protezione» attraverso divieti, confini e uomini armati. Quanto durerà questa situazione? Due settimane, un mese, un anno? È risaputo che lo stato di emergenza dichiarato dopo gli attentati è stato rinnovato più volte, fino all'integrazione definitiva delle misure di emergenza nella legislazione francese. Dove ci porterà questa nuova emergenza?
Un virus è un fenomeno biologico, ma il contesto in cui nasce, la sua propagazione e la sua gestione sono questioni sociali. In Amazzonia, in Africa o in Oceania, intere popolazioni sono state sterminate dai virus portati dai coloni, mentre questi imponevano il loro dominio e il loro modo di vivere. Nelle foreste tropicali, gli eserciti, i commercianti e i missionari hanno spinto le persone — che prima occupavano lil territorio in ordine sparso — a concentrarsi attorno a scuole, nei villaggi o nelle città. Ciò ha notevolmente facilitato la diffusione di epidemie devastanti. Oggi metà della popolazione mondiale abita in città, intorno ai templi del Capitale, e si nutre dei prodotti dell’agroindustria e dell’allevamento intensivo. Ogni possibilità di autonomia è stata sradicata dagli Stati e dall'economia di mercato. E finché la mega-macchina del dominio continuerà a funzionare, l'esistenza umana sarà sempre più soggetta a catastrofi che non hanno granché di «naturale», e ad una gestione da parte di coloro che ci privano di qualsiasi possibilità di determinare la nostra vita.
A meno che... in uno scenario sempre più oscuro e inquietante, gli esseri umani decidano di vivere da esseri liberi anche se solo per poche ore, pochi giorni o pochi anni prima della fine — piuttosto che rinchiudersi in un buco di paura e sottomissione. Come hanno fatto i prigionieri in 30 carceri italiane, di fronte al divieto di ricevere visite imposto a causa del Covid-19, ribellandosi ai propri sequestratori, devastando e bruciando le loro gabbie e, in alcuni casi, riuscendo a evadere.
Ora e sempre in lotta per la libertà!
Volantino distribuito a Parigi il 14 marzo 2020, durante la manifestazione dei Gilet gialli - Traduzione: Finimondo
Sopravvivere nella società contemporanea significa esistere al cospetto dell'emergenza. La minaccia costituita da ciò che l'occhio umano non può assolutamente scrutare pesa quotidianamente sulla propria esistenza. Fenomeni al di fuori del proprio spazio di intervento minacciano costantemente la propria vita, le proprie relazioni e l'ambiente in cui si vive. Un nemico invisibile è approdato ormai da un mese in Italia divenendo la principale preoccupazione dello stato come dei suoi abitanti. Giorno dopo giorno, minuto dopo minuto sempre la solita litania. Proclami in televisione, alla radio, nei luoghi pubblici (ovunque vi sia uno schermo, una bacheca, un altoparlante) diffondono gli stessi consigli; vicini di casa, colleghi di lavoro, sconosciuti nelle strade… quasi tutti ripetono nei loro discorsi le stesse parole chiave: controllo, sicurezza, sacrificio, obbedienza. Quando il dominio va incontro ad un periodo di instabilità, causato ad esempio dalla possibile diffusione di un epidemia, non può che cogliere la palla al balzo per rinforzare il proprio potere.
I disastri prodotti dall'espansione del sistema tecnico, con il suo rapporto di sopraffazione verso quello che rimane di naturale intorno a noi, con i suoi vincoli sociali ed esistenziali, con la sua connessione globale permanente, si ripresentano alla porta del suo avvenire. Un terremoto, un alluvione, un incendio divengono fenomeni catastrofici solo dal momento in cui l'ambiente naturale è stato sostituito dall'ambiente tecnico. Un terremoto non crea molti danni dove il territorio non è sovrastato da palazzi di cemento, un'alluvione non devasterebbe intere zone abitate se prima le acque non venissero incanalate funzionalmente all'interno di argini, un incendio non devasterebbe intere foreste se le temperature non fossero in costante crescita a causa dell'effetto serra. Allo stesso modo un virus non sarebbe così facilmente una minaccia globale se la densità di popolazione e i mezzi di trasporto non rendessero gli spostamenti da una parte all'altra del mondo una questione di ore. Il carattere di questi problemi è tale da non poter essere risolti dal sistema stesso, in quanto è possibile solo una soluzione che metta in discussione le sue stesse fondamenta. Ciò che gli resta da fare è sperimentare il miglior metodo di compensazione, cioè quello che garantisca al meglio la sua stabilità. Il primo passo è quello di allontanare da sé una qualsiasi parvenza di responsabilità: le devastazioni prodotte da una calamità naturale sono conseguenze del carattere imprevedibile della natura, l'esplosione di un reattore nucleare è un rarissimo incidente dovuto ad un errore umano. Una volta stabilite le procedure per gestire la catastrofe a proprio vantaggio, il passo successivo è quello di incolpare chiunque non le rispetti. Lo stato tecnico si erge a unico garante della situazione trasferendo le proprie responsabilità a chiunque non rispetti il comportamento da esso imposto.
A Fukushima nelle zone altamente contaminate da radiazioni, per lo più entro i 30 chilometri di distanza dalla centrale, gli abitanti venivano riforniti di tutto il materiale necessario ad analizzare il livello di radioattività del terreno: contatori Geiger, guanti, maschere e così via. Quando una persona manifestava problemi di salute causati dall'esposizione alle radiazioni lo stato e la Tepco (azienda del settore energetico nucleare giapponese) potevano tranquillamente pulirsene le mani sostenendo che se quella persona aveva una malattia, ciò fosse dovuto ad una scorretta esecuzione della procedura, ad un comportamento irresponsabile. Se migliaia di bambini sono morti di tumore la responsabilità fu dell'industria nucleare che riversò tonnellate di elementi radioattivi nell'aria e nell'acqua, o dei loro genitori che gli hanno permesso di giocare per terra nel parco? Oggi in Italia a milioni di persone viene intimato di rinchiudersi in casa, uscire solo per necessità, evitare di incontrarsi con altre persone o averci qualsiasi tipo di contatto fisico. Sugli schermi viene mostrato come lavarsi le mani o indossare una mascherina. Chi decide di non rispettare queste direttive, chi non accetta di privarsi della propria libertà di movimento e cadere ostaggio della paranoia, diviene di conseguenza un propagatore del contagio, capro espiatorio, nemico pubblico per eccellenza. A chi meglio scaricare il peso della responsabilità di non essere in grado di garantire la salute delle persone in un mondo contaminato, se non a coloro che si oppongono alla propria reclusione all'interno dei meccanismi del potere. Ciò che contraddistingue la radioattività tanto quanto l'epidemia è l'invisibilità e quindi imprevedibilità della sua diffusione e delle sue conseguenze. L'impossibilità di avere la situazione sotto controllo, spinge il cittadino ad affidarsi a chi sia in grado di propugnargli una soluzione immediata, quindi a porsi completamente nelle mani di tecnici, scienziati, burocrati: anime pie del totalitarismo imperante. A quel punto la sopravvivenza delle persone diventa interamente costituita da una serie di procedure da seguire, di controlli a cui sottostare, di pressioni psicologiche e sociali a cui essere costantemente sottoposti. Ogni scelta, ogni gesto devono essere considerati e calibrati sulla base di istruzioni, le proprie priorità vanno tradotte nelle categorie di priorità del potere. Se guardare un tramonto può essere considerato rischioso e superfluo, mettersi in coda davanti a un supermercato diventa la priorità giornaliera. Se a Fukushima le persone devono cronometrare il tempo che passano fuori dalla propria casa per poi correre a farsi una doccia, a Milano ognuno deve stare almeno ad un metro di distanza da qualsiasi altra persona ed entrare nei supermercati in fila uno alla volta muniti di guanti e mascherina. La cosa drammatica è che niente di tutto ciò sarà in grado di controllare gli effetti delle radiazioni, né tanto meno bloccare la diffusione di un contagio.
Siamo davanti al possibile epicentro della catastrofe. Essa è in atto da molto tempo. I richiami all'ordine vogliono far proseguire la catastrofe perché solo in essa prende forma un'oppressione giustificata e apparentemente irreversibile. Allora la decisione vitale sta in questa scelta: incatenarsi nelle proprie dimore della rovina o scatenare le cattive passioni per danzare sulle macerie di un mondo infettato da potere e servitù?
“La tradizione degli oppressi ci insegna che lo «stato di emergenza» in cui viviamo è la regola.Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto.Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazionedel vero stato di emergenza;e ciò migliorerà la nostra posizionenella lotta contro il fascismo”
Iniziare mettendo le mani avanti non è certo mossa di gran stile, ma
non si può tenere il timone del ragionamento tra gli imperiosi flutti di
queste settimane in altro modo. Ecco perché mettere nero su bianco
alcune considerazioni su ciò che sta accadendo negli ultimi giorni dopo
la proclamazione della zona rossa in tutt’Italia e della pandemia da
parte dell’Oms richiede una certa cautela e la possibilità di tornare
sui propri passi e ragionarvi ancora. Le
rifessioni da aggiustare non mancheranno man mano che la situazione
muterà, e la mutazione in un tempo dell’ultravelocità e dell’iperstoria
non è una componente secondaria – basterebbe anche solo vedere i
cambiamenti degli atteggiamenti di milioni di “italiani” a seconda degli
input informazionali dati loro di minuto in minuto, da quelli dei
politici ai più banali articolini dei media che passano da suggerire
aperitivi spensierati a far affollare con disperazione i supermercati
notturni. Tuttavia si oscillerebbe tra l’insensato e l’improvvisato se
ci si lasciasse andare a questo flusso e se non si ripescassero per la
giusta occasione degli strumenti meno contestuali, magari proprio le vecchie lezioni impolverate sulla rivoluzione per darle finalmente una possibilità consistente.
La situazione del momento non necessita di grosse descrizioni già
pienamente note e vissute sulla pelle: un’epidemia virulenta (generata
dal nuovo virus Covid-19) si sta estendendo a livello globale e crea in
una fetta consistente di popolazione che la contrae una malattia
respiratoria acuta. La linea di contagio esponenziale sin dall’inizio
indica con assoluta certezza l’insufficienza delle strutture ospedaliere
per i tanti individui che svilupperanno complicazioni. Le specifiche
della gestione sanitaria pubblica le lasceremo però ai feticisti dei
conti delle ultime spending review, mentre pare necessario
perlomeno partire da una considerazione semplice: la diffusione non si
sarebbe potuta bloccare con nessuna risorsa statuale, né con la faccia
malevola dell’estrema territorializzazione militare, né con quella più
bonaria di un sistema sanitario pubblico in forma smagliante. O per
meglio dire, il sistema capitalistico nella sua forma di sfruttamento
uomo/natura e uomo/uomo, con le sue caratteristiche predatorie nei
confronti di ambiente e classi sfruttate al fine di produrre profitto e
riprodurre sé stesso, non può garantire nessuna reale lotta al contagio.
Ed è proprio questa ovvietà svelata nella sua terribile concretezza a
smontare il più forte mito del progresso di questo secolo. Le magnifiche sorti e progressive
presentate ormai come illimitate nulla possono al banco di prova della
realtà contro gli effetti della devastazione del capitalismo nella sua
interconnessione globale; a ogni effetto di questo sfacelo, che
sia un virus o l’innalzamento dei mari, non c’è soluzione immediata o
che possa rispondere alla forma del discorso pubblico dello stato
nazionale, ancora ancorato alla retorica dell’universalità novecentesca.
In questo senso ci troviamo di fronte a un inedito, non perché virus e
catastrofi naturali siano solo effetto della devastazione capitalistica
di cui sopra, come insegnano le vicende della Terra, ma perché in questo
caso è stato imposto un limite secco alla fiducia del discorso
imperante sulla tecnologia. Ebbene sì, perché una soluzione medica non
c’è e non si trova in pochi mesi nonostante i più avanzati studi
internazionali e la corsa delle case farmaceutiche ad arrivare per prime
al vaccino, perché non basta un atto di limitazione dei flussi da parte
di uno o più stati a fronte della complessità dell’organizzazione umana
oggi, perché il mondo lasciato a specchiarsi in una superfice virtuale,
in cui è talvolta difficile distinguere il possibile dall’impossibile, è
in realtà così fragile.
Ed è proprio lo svelamento scenico di questa fragilità a solleticare i
sogni un po’ sopiti di noi sovversivi. Fino a qualche settimana fa
sembrava non muoversi foglia senza previsione statistica, la normalità
dello sfruttamento capitalista sembrava irremovibile a fronte di una
diminuzione costante e senza opposizione delle tutele sociali, la
repressione carceraria schiacciante. Di certo non si vuole sostenere che
tutto ciò sia finito e che la pandemia del coronavirus sia una ventata
d’aria fresca, tuttavia non si può ignorare l’energia che potrebbe
scaturire da questo momento di crisi gestionaria, basterebbe anche solo
quell’assaggio scaturito dalle rivolte in quasi tutte le carceri
italiane di qualche giorno fa a farne sentire il gusto dolce.
In cinese crisi si dice “weiji” e il suo ideogramma è formato da
“rischio” e “opportunità”. In realtà anche in italiano il termine
“crisi” ha lo stesso significato ed è una cosa nota e banale che in
medicina, ad esempio, la fase critica è quella in cui il paziente o
guarisce, o muore. La storia rivoluzionaria insegna che i momenti
critici non sono mai rosei, se non lo è certamente questo virus,
tantomeno lo sono state le epidemie della Parigi ottocentesca o l’enorme
tragedia umana lasciata dalla Grande Guerra. Proprio quest’ultimo
esempio dovrebbe suggerire quanto l’afflato rivoluzionario non potesse
rimpiangere la normalità dello stato liberale pre-bellico. Fu catastrofe
immane, preceduta da altri conflitti locali mai dilagati su larga
scala, ma anche l’opportunità, finita presto e come ahinoi sappiamo, di
far scoppiare una rivoluzione.
Del resto non sono queste le occasioni in cui “quelli di sotto” non
possono più sopravvivere come prima e “quelli di sopra” non riescono più
a governare come prima? Invece di lamentarsi del governo che chiude le
scuole, della perturbazione dello status quo, un movimento
rivoluzionario (la cui esistenza è un’ipotesi di fantapolitica, quindi
se ne può parlare liberamente e senza timore) dovrebbe proclamare
immediatamente lo sciopero generale a tempo indeterminato e promuovere
l’auto-organizzazione per garantire beni e servizi indispensabili.
Il tutto non per tornare nei ranghi della normalità del diritto di
assembramento o di sciopero, ma per trasformare la crisi in spaccatura
definitiva. Piuttosto ingenuo, se non conservatore, il giudizio
sofisticato di chi pensa che non si debba trasformare quest’emergenza
sanitaria in crisi sociale: o non vede che la crisi è già in atto, o è
spaventato di perdere le condizioni di vita a cui era affezionato,
seppur aspramente criticate. L’idea che tornare alla normalità del
diritto sia cosa buona e che il terreno della normalità sia il meno
scivoloso in cui muoversi per intaccare il reale è smontato dalla
mestizia degli ultimi decenni di deserto. I dati della miseria sociale
li lasceremo ai sociologi se riusciranno a tornare al loro agognato
luogo di lavoro, ci permettiamo di continuare a diffidare degli amanti
della gradualità con cui si accompagnano fino alla pensione.
Per ora non c’è nessun movimento rivoluzionario ma la crisi sì, con
un governo che nonostante la quarantena nazionale non può impedire la
circolazione dei lavoratori per non intaccare ulteriormente produzione,
PIL e titoli di borsa, con un isolamento domiciliare di cui non si vede
la fine, con un reddito incerto o persino già perso dall’inizio.
D’altra parte dopo lunghissimi anni ci sono, oltre che le patrie
galere a ferro e fuoco, più scioperi che si stanno diffondendo
velocemente, dalla Fiat di Pomigliano, alla Bartolini di Caorso, agli
stabilimenti Ikea, ai portuali di Genova, alla Wirhlpool di Cassinetta,
gli operai incrociano le braccia organizzandosi spontaneamente in tutto
il paese. Le forme del lavoro e la faglia di conflitto tra chi dovrà per
forza uscire a lavorare, tra chi non avrà un soldo stando a casa, chi
una casa neanche ce l’ha da una parte, e i ceti tutelati dall’altra, di
certo scompaginerà, ancor più dei modelli organizzativi delle aziende,
le divisioni sociali.
E quindi, come la facciamo diventare un’opportunità?
«Scopo del terrore e dei suoi atti è di estorcere totalmente l'adattamento degli uomini al proprio principio, affinché anch'essi riconoscano, in definitiva, ancora solo uno scopo: quello dell'autoconservazione. Quanto più gli uomini hanno in mente senza scrupoli la propria sopravvivenza, tanto più diventano marionette psicologiche di un sistema che non ha altro scopo che mantenere se stesso al potere» Leo Löwenthal, 1945
Ecco, ci siamo. Da poche ore è stato dichiarato lo stato d’emergenza sanitaria su tutto il territorio nazionale. Serrata quasi totale. Strade e piazze semi-deserte. Proibito uscire di casa senza una ragione ritenuta valida (da chi? ma dalle autorità, naturalmente). Proibito incontrarsi e abbracciarsi. Proibito organizzare qualsivoglia iniziativa che preveda anche solo un minimo di presenza umana (dalle feste ai raduni). Proibito stare troppo vicini. Sospensione di ogni socialità. Ammonimento a stare chiusi in casa il più possibile, aggrappati ad un qualche dispositivo elettronico in attesa di notizie. Obbligo di seguire le direttive. Obbligo di portare sempre con sé una «autocertificazione» che giustifichi i propri spostamenti, anche se si esce a piedi. Per chi non dovesse sottomettersi a simili misure è prevista una sanzione che può prevedere l'arresto e la detenzione. E tutto ciò per cosa? Per un virus che tuttora divide gli stessi esperti istituzionali a proposito della sua effettiva pericolosità, come dimostrano le stesse polemiche fra virologi di pareri opposti (per non parlare della sostanziale indifferenza che gli mostrano non pochi paesi europei)? E se anziché il coronavirus, con il suo tasso di mortalità del 2-3% ovunque nel mondo tranne che nel nord Italia (chissà se è l'acido nucleico ad incattivirsi a contatto con la polenta, oppure se è la schiatta padana ad essere gracilina), fosse arrivato in queste lande un Ebola capace di decimare la popolazione dell’80-90%, cosa sarebbe accaduto? Si passava direttamente a sterilizzare i focolai tramite bombardamenti? Certo, tenuto conto dei legami tra le dinamiche delle società industriali e la moderna concezione occidentale della libertà, non sorprende che per arginare un contagio virale si applichi una politica che impone a tutti gli arresti domiciliari e il coprifuoco. Ciò che stupisce semmai è che tali misure vengano recepite così passivamente, non soltanto tollerate, ma introiettate e giustificate dalla quasi totalità delle persone. E non solo dai menestrelli di corte che invitano tutti a starsene a casa, non solo dai cittadini perbene che si incoraggiano (e si controllano) a vicenda sicuri che «andrà tutto bene», ma persino da chi oggi — davanti allo spauracchio infettivo — non è più disponibile a sentire i (fino a ieri osannati) ritornelli contro lo «stato di eccezione», preferendo schierarsi a favore di una fantomatica materialità dei fatti. Per quel che vale, giacché mai come nei momenti di panico (con l'eclissi della ragione che comporta) ogni parola risulta inutile, torniamo sullo psicodramma popolare in corso nel Belpaese, sui suoi effetti sociali più che sulle sue cause biologiche. Che questo virus provenga dai pipistrelli o da qualche laboratorio militare segreto, cosa cambia nell'immediato? Nulla, una ipotesi vale l'altra. Al di là della mancanza di informazioni e di competenze più precise al riguardo, resta pur sempre valida una banale constatazione: virus simili possono essere effettivamente trasmessi da determinate specie animali, così come fra i tanti apprendisti stregoni delle «armi non convenzionali» ci può ben essere qualcuno di più cinico o sbadato. E allora? Ciò detto, dovrebbe essere fin troppo scontato che nel mondo attuale è l'informazione a decretare ciò che esiste. Letteralmente, esiste solo ciò di cui parlano i media. E ciò che tacciono, non esiste. Da questo punto di vista, ha ragione chi sostiene che per fermare l'epidemia basterebbe spegnere la televisione. Senza l'allarmismo mediatico che attorno ad essa è stato sollevato, inizialmente solo qui in Italia, nessuno avrebbe prestato grande attenzione ad una imprevista forma influenzale, le cui vittime sarebbero state ricordate solo dai loro cari e da qualche statistica. Non sarebbe la prima volta. È ciò che è accaduto con le 20.000 vittime provocate qui in Italia a partire dall'autunno del 1969 dall'influenza di Hong Kong, la cosiddetta «influenza spaziale». All'epoca i mass-media ne parlarono parecchio, era dall'anno precedente che seminava morte in giro per il pianeta, eppure venne considerata semplicemente come una forma influenzale più virulenta del solito. Tutto qui. Del resto, ve lo immaginate cosa avrebbe provocato in Italia la proclamazione dello stato di emergenza nel dicembre del 1969? Alle autorità avrebbe senz'altro fatto comodo, ma sapevano di non poterselo permettere. Sarebbe stata l'insurrezione. Si dovettero accontentare della paura seminata dalle stragi di Stato. Ora, è sensato ritenere che un virus estremo-orientale sia esploso nel mondo con tale virulenza solo qui in Italia? È assai più verosimile che solo qui in Italia gli organi d'informazione abbiano deciso di dare risalto alla notizia dell'arrivo dell'epidemia. Che si sia trattato di una precisa scelta o di un errore di comunicazione, questo potrà essere a lungo materia di dibattito. Ad essere fin troppo palese, in compenso, è il panico che hanno scatenato. E a chi e a cosa esso giovi. Perché, bisogna ammetterlo: non c'è nulla in grado di seminare terrore più di un virus. È il nemico perfetto, invisibile e potenzialmente onnipresente. A differenza di quanto accade con gli jihadisti medio-orientali, la sua minaccia estende e legittima pressoché all'infinito la necessità di controllo. Non vanno sorvegliati di tanto in tanto i possibili carnefici (alcuni), ma sempre e comunque le possibili vittime (tutti quanti). Non è sospetto «l’arabo» che si aggira con fare losco in luoghi considerati sensibili, ma chi respira perché respira. Se si trasforma un problema sanitario in un problema di ordine pubblico, se si pensa che il modo migliore per curare sia quello di reprimere, allora diventa chiaro il motivo per cui uno dei candidati al ruolo di super-commissario della lotta contro il coronavirus fosse l’ex-capo della polizia ai tempi del G8 di Genova 2001 ed attuale presidente della principale industria bellica italiana (ma poiché gli affari sono affari, alla fine gli è stato preferito un manager dalla formazione militare, l’amministratore delegato dell’agenzia nazionale per gli investimenti e lo sviluppo dell’impresa). Si tratta forse di rispondere alle esigenze espresse in Senato da un noto politico, il quale ha dichiarato che «questa è la terza guerra mondiale che la nostra generazione è impegnata a vivere, destinata a cambiare le nostre abitudini più dell’11 settembre»? Dopo Al-Qaeda, ecco il Covid-19. Ed ecco anche i bollettini di questa guerra al tempo stesso virtuale e virale, i numeri di morti e feriti, le cronache dai fronti di battaglia, la narrazione degli atti di sacrificio e di eroismo. Ora, a cosa è mai servita nel corso della storia la retorica della propaganda bellica, se non a mettere da parte ogni divergenza e mobilitarsi per fare quadrato attorno alle istituzioni? Nel momento del pericolo, non ci devono essere né divisioni né tantomeno critiche, ma solo unanime adesione dietro alla bandiera della patria. Così, in queste ore all’interno dei palazzi si sta ventilando l’ipotesi di dare vita ad un governo di salute pubblica. Senza dimenticare un primo effetto collaterale niente affatto sgradito: chiunque esca fuori dal coro non può che essere un disfattista, meritevole di linciaggio per alto tradimento. Come già detto, noi non sappiamo se questa emergenza sia il frutto di un premeditato progetto strategico o di una corsa ai ripari dopo un errore compiuto. Sappiamo però che — oltre a spianare ogni resistenza al dominio di Big Pharma sulle nostre esistenze — servirà a diffondere e consolidare la servitù volontaria, a far introiettare l'obbedienza, ad abituare ad accettare ciò che è inaccettabile. Cosa c'è di meglio per un governo che ha perduto da tempo ogni minima parvenza di credibilità, e per estensione per una civiltà palesemente in putrefazione? La scommessa lanciata dal governo italiano è enorme: istituire una zona rossa di 300.000 chilometri quadrati come risposta al nulla. Può una popolazione di 60 milioni di persone scattare sull'attenti e gettarsi ai piedi di chi le promette di salvarla da una minaccia inesistente, come un cane di Pavlov sbavava al semplice suono di una campanella? Si tratta di un esperimento sociale il cui interesse per i risultati travalica i confini italiani. La fine delle risorse naturali, gli effetti della degradazione ambientale ed il costante sovraffollamento annunciano lo scatenamento un po’ dovunque di conflitti la cui prevenzione e gestione da parte del potere richiederà misure draconiane. È ciò che alcuni hanno già battezzato «ecofascismo», le cui prime misure non saranno molto dissimili da quelle prese oggi dal governo italiano (che infatti farebbero la delizia di ogni Stato di polizia). Per testare su larga scala provvedimenti del genere, l'Italia è il paese catalettico giusto e un virus è il pretesto trasversale perfetto. Finora i risultati per gli ingegneri di anime ci sembrano entusiasmanti. Con pochissime eccezioni, tutti sono disponibili a rinunciare ad ogni libertà e dignità in cambio dell'illusione della salvezza. Se poi il vento a favore dovesse cambiare direzione, per impedire l’effetto boomerang potranno sempre annunciare che il pericoloso virus è stato debellato. Per adesso a farne le spese sono stati i detenuti uccisi o massacrati nel corso delle rivolte scoppiate in una trentina di penitenziari dopo la sospensione dei colloqui. Ma ovviamente non si è trattato di imbarazzante «macelleria messicana», bensì di lodevole disinfestazione italiana. Che l'emergenza offra a chi esercita l'autorità la possibilità di adottare pubblicamente comportamenti fino a ieri tenuti segreti, lo si nota anche nei piccoli fatti di cronaca: a Monza una donna di 78 anni visitata al policlinico perché affetta da febbre, tosse e difficoltà respiratoria, è stata sottoposta a Tso dopo aver rifiutato di farsi ospedalizzare per sospetto coronavirus. Poiché il Tso, istituito nel 1978 con la famosa legge 180, può essere applicato solo a cosiddetti malati psichici, quel ricovero coatto è stato un «abuso di potere» (come amano dire le anime belle democratiche). Uno dei tanti commessi quotidianamente, solo che in questo caso non è stato necessario minimizzarlo od occultarlo, ed è stato reso pubblico senza che si sollevasse la minima critica. Allo stesso modo, a Roma sono stati arrestati sette stranieri rei di... giocare a carte in un parco. È il minimo che potesse capitare a possibili untori privi di ogni «senso di responsabilità». Già, la responsabilità. Si tratta di una parola oggi sulla bocca di tutti. Bisogna essere responsabili, sollecitazione che viene martellata di continuo e che tradotta dalla neo-lingua del potere significa una cosa sola: bisogna obbedire alle direttive. Eppure non è difficile capire che è proprio obbedendo che si evita ogni responsabilità. La responsabilità ha a che fare con la coscienza, il felice incontro fra sensibilità ed intelligenza. Indossare una mascherina o stare tappati in casa solo perché l'ha dettato un funzionario del governo non denota responsabilità attiva, bensì obbedienza passiva. Non è frutto di intelligenza e sensibilità, ma di creduloneria e dabbenaggine condite con una buona dose di pavidità. Per essere un atto di responsabilità dovrebbe sorgere dal cuore e dalla testa di ogni individuo, non venire ordinato dall'alto ed imposto dietro minaccia di punizione. Ma, come è facile intuire, se c'è una cosa che il potere teme più di ogni altra è proprio la coscienza. Perché è dalla coscienza che nasce la contestazione e la rivolta. Ed è proprio per sterilizzare ogni coscienza che veniamo bombardati 24 ore su 24 dai più futili programmi televisivi, intrattenimenti telematici, chiacchiericci radiofonici, cinguettii telefonici... mastodontica impresa di formattazione sociale il cui scopo è la produzione dell'idiozia di massa. Ora, se si considerassero le ragioni avanzate per dichiarare questa emergenza con un minimo di sensibilità e di intelligenza, cosa ne verrebbe fuori? Che uno stato di emergenza inaccettabile è stato dichiarato per motivi inverosimili da un governo inattendibile. Può infatti uno Stato che ignora le 83.000 vittime provocate ogni anno da un mercato di cui detiene il monopolio, e che gli frutta un ricavo netto di 7,5 miliardi di euro, essere credibile quando afferma di istituire in tutto il paese una zona rossa per arginare la diffusione di un virus che — a detta di molti fra gli stessi virologi — contribuirà a provocare la morte di alcune centinaia di persone già ammalate, ammazzandone magari qualcuna direttamente? Forse che per impedire che ogni anno 80.000 persone crepino per l'inquinamento atmosferico, lorsignori hanno mai pensato di bloccare su tutto il territorio nazionale le fabbriche, le centrali elettriche, le automobili? Ed è questo stesso Stato che negli ultimi dieci anni ha chiuso oltre 150 ospedali ad invocare oggi maggiore responsabilità? Quanto alla materialità dei fatti, ci sia permesso di dubitare che si voglia affrontarla veramente. Di certo non lo vogliono i sinistri imbecilli che di fronte al massacro attuato in ogni ambito da questa società sono capaci solo di tifare per la rivincita dello Stato sociale buono (con la sua sanità pubblica e le sue grandi opere utili) sullo Stato liberale cattivo (taccagno con i poveri e generoso con i ricchi, del tutto impreparato ed approssimativo ad affrontare la “crisi”). E ancor meno lo vogliono i bravi cittadini pronti a rimanere a digiuno di libertà pur di avere briciole di sicurezza. Perché affrontare la materialità dei fatti significa anche e soprattutto considerare cosa si voglia fare del proprio corpo e della propria vita. Significa anche accettare che la morte ponga fine alla vita, perfino a causa di una pandemia. Significa anche rispettare la morte, e non pensare di poterla evitare affidandosi alla medicina. Tutti moriremo, nessuno escluso. È la condizione umana: soffriamo, ci ammaliamo, moriamo. A volte con poco, a volte con tanto dolore. La medicalizzazione forsennata, con il suo delirante proposito di sconfiggere la morte, non fa altro che radicare l’idea secondo cui la vita va conservata, non vissuta. Non è la stessa cosa. Se la salute — come l'OMS si vanta di sostenere fin dal 1948 — non è la semplice assenza di malattia, bensì il pieno benessere fisico, psichico e sociale, è evidente che l'umanità intera è una malata cronica, e non certo a causa di un virus. E questo benessere totale come dovrebbe essere ottenuto, con un vaccino ed un antibiotico da assumere in ambiente asettico, oppure con una vita vissuta all'insegna della libertà e dell'autonomia? Se negli ospedali spacciano così facilmente la «presenza dei parametri vitali» per «forma di vita», non è perché si è ormai dimenticata la differenza fra vita e sopravvivenza? Il leone, il cosiddetto re degli animali, simbolo di forza e bellezza, vive mediamente 10-12 anni finché è libero nella savana. Quando si trova in uno zoo, al sicuro, la durata della sua vita può raddoppiare. Chiuso in una gabbia è meno bello, meno forte — è triste ed obeso. Gli hanno tolto il rischio della libertà per dargli la certezza della sicurezza. Ma in questa maniera non vive più, può al massimo sopravvivere. L'essere umano è il solo animale che preferisce trascorrere i suoi giorni in cattività piuttosto che in natura. Non ha bisogno di un cacciatore che gli punti contro un fucile, ci sta volontariamente dietro le sbarre. Circondato ed intontito da protesi tecnologiche, la natura non sa più nemmeno cosa sia. Ed è felice, persino orgoglioso della superiorità della sua intelligenza. Avendo imparato a fare di conto, sa che otto giorni da essere umano sono più di uno da leone. I suoi parametri vitali sono presenti, soprattutto quello considerato fondamentale dalla nostra società: il consumo di merci.
C'è un che di paradossale nel fatto che gli abitanti della nostra titanica civiltà, così appassionata di superlativi, si agitino in preda al nervosismo di fronte ad uno dei più minuscoli microrganismi viventi. Come osano poche decine di milionesimi di centimetro di materiale genetico mettere a repentaglio la nostra pacifica esistenza? È la natura. Detto brutalmente fra noi, considerato ciò che le abbiamo fatto sarebbe anche giusto che ci spazzasse via. E tutti i vaccini, le terapie intensive, gli ospedali del mondo, non potranno mai farci nulla. Anziché pretendere di domarla, dovremmo (re)imparare a convivere con la natura. In società selvagge, cioè senza rapporti di potere, non in Stati civili. Ma questo comporterebbe un «cambio di comportamento» assai poco gradito a chi ci governa, a chi vorrebbe governarci, a chi vuole essere governato.
Che la vita sociale si svolga a distanza, in fondo, non è una novità. Ormai da tempo le persone vengono persuase che il modo migliore per comunicare e avere relazioni sia quello che utilizza un dispositivo. Protesi dell’essere umano, lo smartphone e i suoi affini, hanno trasformato i modi di stare assieme, di informarsi, imparare, comunicare, scrivere, leggere. Il passo successivo è una robotizzazione del vivente, la tecnica che pervade ogni luogo, ogni aspetto della vita quotidiana. Un superamento della natura e del naturale a favore di esseri e luoghi artificiali. Uno scenario simile non ha bisogno di vita sociale, non ha bisogno di relazioni, emozioni, pensieri, ha bisogno solo di ordine, disciplina, regolamentazione, macchine. Forse ora il Dominio prova a fare un passo in avanti e utilizza un problema sanitario, la diffusione di un virus, per arrivare quanto meno ad un’irreggimentazione generalizzata, il resto poi andrà da sé. Viene in mente la fantascienza, ma gli Stati hanno strumenti ormai lontani secoli a cui attingere senza dover ricorrere all’ignoto. Il distanziamento sociale imposto per legge che prevede il divieto di baci e abbracci e la soppressione della gran parte delle attività sociali, ricorda gli stati d’emergenza, in cui si impongono regole di vita sociale da rispettare per non incappare in denunce e arresti. E in effetti la istituzione di zone rosse e di postazioni di controllo, la limitazione della libertà di circolazione, l’obbligo dell’isolamento domiciliare per chi provenga da zone considerate infette con possibilità di controllo da parte delle forze dell’ordine, ma soprattutto il divieto di assembramenti, cioè di riunioni pubbliche, è la gestione poliziesca di una problematica sanitaria. Non a caso nelle dieci regole consigliate dallo Stato italiano per evitare la diffusione del virus, si prevede che in caso di febbre si debbano contattare prima i carabinieri. Ma gli stati d’emergenza sono le misure previste anche in situazioni di conflitto o insurrezionali, come accaduto di recente in Cile. Lo Stato decreta per legge che i cittadini sono sua proprietà e può disporne come meglio crede. Non è per questioni sanitarie, né di benessere della popolazione che si impongono gli stati d’emergenza, ma per far introiettare regole, infondere disciplina. E in effetti, per ottenere obbedienza, il modo più sicuro è quello di spargere terrore, diffondere paura. Creare ansia e panico, divulgare continuamente dati, rendere tutto sensazionalistico ed eccezionale. Incutere paura è una pratica di guerra e di tortura, nonché di governo e anche in questo gli Stati sono specializzati. E la guerra è ritornata prepotentemente in auge dopo essere stata allontanata e cancellata per lunghi anni. Oggi la guerra è qui, anzi ovunque. I capi di Stato si dichiarano in guerra contro un nemico alquanto singolare, un virus, ma non è lui il loro avversario né il loro obiettivo, ma i loro stessi sudditi. Per tale motivo la questione in gioco, forse più importante, è quella di tenere vivo il pensiero critico, senza minimizzare nulla. Dopo aver, a braccetto con l’Economia, industrializzato e devastato la natura, desertificato il pensiero, ora si annullano le emozioni. Niente baci, niente abbracci. Tuttavia, se il Dominio ci vuole totalmente dipendenti da sé, se lo Stato cancella la vita sociale e in parte anche economica, ciò significa che non abbiamo bisogno dello Stato. Che possiamo autorganizzare le nostre iniziative, le nostre forme di educazione, le nostre economie, i nostri svaghi. E anche in questo caso non abbiamo bisogno di ricorrere alla fantascienza ma all’esperienza, alla memoria, alla volontà e al coraggio. Uno dei modi ce lo stanno suggerendo i detenuti in lotta nelle carceri italiane che questo stato d’emergenza vorrebbe sepolti vivi. E che la normalità sia interrotta si, ma dalla rivolta.