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Mai come in questi giorni la realtà ha preso in ostaggio l'immaginazione. I nostri desideri e sogni più folli sono sovrastati da una catastrofe invisibile che ci minaccia, ci confina, legandoci mani e piedi al capestro della paura. Qualcosa di essenziale si gioca oggi attorno alla catastrofe in corso. Ignorate le poche Cassandre che da decenni lanciavano i loro avvertimenti, ora siamo passati dall'idea astratta al fatto concreto. Come dimostra l'odierna emergenza con tutti i suoi divieti, ad essere in ballo non è la mera probabilità di sopravvivere, ma qualcosa di ben più importante: la possibilità di vivere. Ciò significa che la catastrofe che oggi ci perseguita non è tanto l'imminente estinzione umana — da evitare, ci viene assicurato sia in alto che in basso, solo con una completa obbedienza agli esperti della riproduzione sociale — quanto l'onnipresente artificialità di un'esistenza la cui pervasività ci impedisce di immaginare la fine del presente.  

«Catastrofe»: dal greco katastrophé, «capovolgimento, «rovesciamento»; sostantivo del verbo katastrépho, da kata «sotto, giù» e stréphein «rovesciare, girare».  

Sin dall'antichità questo termine ha conservato fra i suoi significati quello di un avvenimento violento che porta con sé la forza di cambiare il corso delle cose, un evento che costituisce al tempo stesso una rottura e un cambiamento di senso, e che di conseguenza può essere sia un inizio che una fine. Un evento decisivo, insomma, che spezzando la continuità dell'ordine del mondo permette la nascita di tutt'altro. L'immagine facile ed immediata dell'aratro che spacca e rivolta una zolla di terra seccata ed esausta, rivivificando e preparando il terreno a una nuova semina e ad un nuovo raccolto, rende bene l'aspetto fecondo presente in un termine solitamente associato al solo epilogo drammatico. Da qui l'ambivalenza di sentimenti umani suscitati in un lontano passato dalla catastrofe, che vanno dal timor panico al fascino estremo. Al di là e contro ogni paura della morte, per lunghi secoli gli esseri umani hanno percepito l'infinito attraverso la distruzione catastrofica, cercando al suo interno la folgorante rivelazione fisica di ciò che non erano. Dal Caos primordiale all'Apocalisse, dal Diluvio universale alla Fine dei tempi, dalla torre di Babele all'anno Mille, numerosi sono stati gli immaginari catastrofici attorno ai quali l'umanità ha cercato di definirsi, nella sua relazione con la vita ed il mondo sensibile, sotto il segno dell'accidente. Il sentimento di catastrofe è stato con ogni probabilità la prima intima percezione della dirompenza dell'immaginario, una fessura permanente nella (presunta) uniformità della realtà. Avvicinarsi ai bordi di questa fessura, seguirne la linea, significava cedere alla tentazione di interrogare il destino, non ostentare la presunzione di rispondervi. Immaginaria o reale, la catastrofe possedeva la forza prodigiosa di emergere in quanto oggettivazione di ciò che eccede la più triste condizione umana. È solo verso la metà del XVIII secolo, dopo la scoperta dei resti di Pompei nel 1748 ed il grande terremoto di Lisbona del 1755, che la parola catastrofe ha cominciato ad essere usata nel comune linguaggio per definire un disastro improvviso di enormi dimensioni. Slittamento di significato facilitato dal fatto che, dopo il 1789 e la presa della Bastiglia, sarà un'altra la parola impiegata per indicare un ribaltamento, una rottura irreversibile dell'ordine preesistente in grado di preparare l'avvento di un mondo nuovo. Nato nel secolo dei Lumi, il concetto di rivoluzione non poteva però che avere un carattere intenzionale, fortemente legato alla ragione, e perciò lo si è legato al compimento di un processo, all'evoluzione di un'idea, al risultato di una scienza. È questa la profonda differenza che ha con la catastrofe che l'ha preceduta, e che in un certo senso l'accompagna. Laddove la rivoluzione è un'incarnazione della Storia, la catastrofe è una sua interruzione. Tanto la prima viene programmata nelle strutture, progettata negli scopi, organizzata nei mezzi, quanto la seconda è inaspettata nei tempi, imprevista nelle forme, inopportuna nelle conseguenze. Non innalza uomini e donne soddisfacendoli nelle loro aspirazioni e convinzioni, originali o indotte che siano, li fa precipitare al di fuori delle loro misure comuni e delle loro rappresentazioni, fino a ridurli ad elementi insignificanti di un fenomeno senza alcuna legge. Ancor più della rivoluzione, l'esplosione catastrofica del disordine spazzava via il vecchio mondo, aprendo la strada ad altre possibilità. Dopo che si è materializzato l'impensabile, gli esseri umani non possono più rimanere gli stessi poiché non hanno visto con i loro occhi crollare solo le case, i monumenti, le chiese o i parlamenti. Anche le fedi, le teorie, le leggi —  tutto è finito in macerie. L'antico fascino della catastrofe nasce da lì, da quell'orizzonte caotico irriducibile ad ogni calcolo, nel momento in cui uno sconvolgimento senza precedenti spezza bruscamente ogni riferimento stabile, ponendo brutalmente la questione del senso della vita le cui infinite ripercussioni richiedono, in risposta, un eccesso d'immaginazione. La catastrofe è servita all'individuo, nella drammatica scoperta di qualcosa che va al di là della sua identità, per confondersi nuovamente con la natura, il suolo primordiale o la fonte della creazione. Ma a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, contrassegnata dalla prima esplosione atomica, cosa è accaduto? Che la prospettiva rivoluzionaria è andata via via spegnendosi, cancellata dai cuori e dalle menti. Così al loro interno è rimasta incontrastata una sola forma possibile di sconvolgimento materiale, per di più in possesso di ulteriori formidabili mezzi tecnici per manifestarsi. Ma la catastrofe odierna ha ben poco in comune con quella degli evi trascorsi. Non è più la folgore della natura o l'opera di un Dio che pone l'essere umano davanti a se stesso — è un mero prodotto dell'arroganza scientifica, tecnologica, politica ed economica. Se mettendo a soqquadro l'ordine stabilito le catastrofi del passato incitavano a guardare in faccia l'impossibile, le catastrofi moderne si limitano a scavare ulteriormente nel possibile. Invece di aprire l'orizzonte e condurre lontano, lo chiudono ed inchiodano a quanto di più vicino ci sia. L'immaginazione selvaggia lascia il passo al rischio calcolato, per cui non si desidera più vivere un'altra vita, si ambisce a sopravvivere gestendo i danni. Una dopo l'altra, le catastrofi verificatesi in questi ultimi decenni sfilano davanti ai nostri occhi come se fossero state semplicemente una conseguenza della miopia tecno-scientifica e del cattivo governo, da superare con tecnici e politici più attenti e lungimiranti. Le catastrofi del presente e del futuro diventano perciò evitabili, o per lo meno riducibili, solo e soltanto con un controllo sempre maggiore delle attività umane, poste in condizioni di perenne emergenza. Effetto di questa logica, i disastri «naturali» vengono subito dimenticati e rimossi in un contesto distante, quasi fossero eventi minori, mentre i soli disastri «umani» occupano il centro della scena in una narrazione che ci invita ad accettare l'inaccettabile. Se ci terrorizzano, è solo perché la nostra sopravvivenza fisica come specie è minacciata. Ed è questo che andrebbe temuto più di ogni altra cosa, la catastrofe invisibile della sottomissione sostenibile, dell'amministrazione del disastro, quella che incatena e paralizza la nostra smisurata voglia di vivere imponendole distanze e misure di sicurezza.  

Finimondo - 28/03/20

Tutto l'abilismo di un'emergenza: ecco come i corpi disabili vengano raccontati durante i giorni del Covid-19

Ogni film catastrofista, ogni romanzo di guerra, ogni graphic novel su futuri distopici è per me occasione d’esercizio immaginifico sulla mia morte. Se sei stata una bambina con disabilità e poi una ragazza con disabilità per diventare infine una donna sempre con disabilità, allora sei cresciuta con la richiesta di rimanere razionale.

Nelle esercitazioni d’evacuazione ti insegnano a stare al tuo posto, a non intralciare la fuga degli altri e ad attendere che i soccorritori vengano a salvarti. Sull’aereo starai sempre dal lato del finestrino così che le persone accanto a te possano fuggire senza doverti scavalcare.

E no, non puoi arrabbiarti. Non puoi nemmeno diventare troppo triste.

La gestione delle emergenze è una scienza e tu, cosciente della tua condizione fisica, devi capire che la società è qualcosa di complesso e in ogni emergenza l’obiettivo è di salvare il maggior numero di persone che possano poi sopravvivere.

Abbracciare i tuoi limiti è tuo dovere, gioire di quello che hai, per il tempo in cui l’avrai, è buona pratica.

Ambire alla sopravvivenza durante un’epidemia zombie sarebbe quindi uno sciocco spreco di tempo, meglio coltivare fantasie di morti eroiche in cui il tuo lascito sarà la sopravvivenza della persona amata piuttosto che di una comunità intera o un gruppo di bambini…

Coronavirus: come rinforzare una narrazione tossica

Poi arriva il coronavirus e tu vivi a pochi km da quella cittadina di cui tutti parlano perché epicentro della versione italiana della contaminazione.

E scopri che no, ora che siamo al dunque tutto quell’esercizio fatto nei tuoi primi 35 anni di vita non ti sta bene per niente.

Carissimo mondo, cara televisione, car* giornalist*, adorat* espert* nelle più disparate materie scientifiche, per quanto sia lodevole il vostro tentativo di dire che il coronavirus Covid-19 è una malattia che solamente per una bassa percentuale della popolazione risulta letale, voi, ogni volta, concludete dicendo che a morire sarò io.

«Il coronavirus è pericoloso per i soggetti deboli… persone anziane… persone con pregresse malattie respiratorie…malati oncologici »

Non l’ho capito subito. Alle prime interviste mi sembrava quasi che le loro parole calmassero anche me. O forse desideravo solo essere confortata. Essere considerata anche io un soggetto da confortare.

Ma noi non lo siamo. Non lo sono io, non lo sono le persone anziane, non le oncologiche. Noi, tutt* noi, siamo l’esempio che conforta gli altri. Lo siamo quando veniamo chiamat* ad essere esempi di vita, di resistenza e di saggezza (leggi alla voce abilismo).

Lo siamo quando ci viene chiesto di accogliere nei nostri ranghi la percentuale mortale di una malattia.

In fondo viviamo così lontan* dall’idea di immortalità e così in confidenza con quella di morte, che non sarà certo un grande sforzo accettare il ruolo di casi limite in una narrazione collettiva finalizzata a non mettere in discussione la potenza dei sani.

Un’occasione sprecata

Si poteva usare in tanti modi questo momento.

Questo virus, il suo muoversi facilmente nel mondo, poteva diventare occasione per ricordarci che siamo umani e in quanto tali siamo fragili. Avremmo potuto accettare tutt* insieme che non siamo immortali, non solo noi soggetti deboli ma anche quel 40enne che sente l’eterna potenza scorrere nelle sue ossa.

Sarebbe stato bello per una volta cercare un senso più nobile in un momento effettivamente speciale. Forse si sarebbe creato un precedente illuminato, forse la cura di sé e degli altri avrebbe veramente occupato per qualche tempo il centro del mondo. E siccome sto facendo un gioco di fantasia mi piace spingermi oltre e pensare che forse il capitalismo avrebbe tremato vedendo vacillare i suoi finti corpi immortali e prestanti.

Saremmo stat* tutt* fragili e noi, che la fragilità la conosciamo da sempre, giuro che ci saremmo pres* cura di voi.

Ma non è accaduto niente di tutto questo.

Avremmo potuto navigare insieme, invece ognun* è rimast* ancorat* al suo scoglio e alla riflessione collettiva si è preferita la consolazione più immediata.

Forse mi ammalerò e se accadrà la tv mi ha detto che molto probabilmente occuperò quella piccola percentuale di senza speranza quindi, visto che come ho già detto mi organizzo la morte da quando sono bambina, ho deciso di scrivere questo articolo. Non potrò salvare nessuno con il mio trapasso e se avverrà come dicono sarà solitario e tutt’altro che eroico, però voglio dirvi che mentre il virus serpeggia a qualche km da me, io leggo Laura Pugno che nel suo “In territorio selvaggio” dice:

«Il selvaggio è deciso da noi, non esiste in natura, si crea nel momento in cui chiudiamo la porta di casa, definiamo un dentro e un fuori (…) Viene da sé, dal selvaggio, che sia pericoloso».

C.B.

Tratto da: https://pasionaria.it

La stampa ha aperto una nuova rubrica. Accanto a quelle degli Incendi, degli Assassinii, dello Sport e dei Teatri, sorge terrificante: Il Colera.

La tragica avanzata dell’epidemia è seguita passo passo e i cadaveri che essa semina sulla sua strada sono ansiosamente contati. La paura ne fa moltiplicare il numero in modo fantasmagorico, allorché la prudenza ne fa nascondere il quantitativo, con un calcolo ridicolo.

Tutti i giorni, vi sono centinaia di morti.

Da Manila a Pietroburgo, attraverso l’Asia intera, la Cina e la Siberia, il flagello entra nel cuore dell’Europa. Traverserà le acque del Pacifico, guadagnando quelle dell’Atlantico, disdegnando di percorrere lo stretto sentiero di Panama per prendere la grande strada delle terre, allo scopo di ammucchiare cadaveri su cadaveri? Nessuno lo sa.

Tutti i giorni vi sono centinaia di morti. Cos’è questo se non l’olocausto pagato al mostro per soddisfare la sua fame di morte, la sua sete di vendetta? Ma questo lavoro di necrofilo non interromperà la sua marcia. Esso va, va...

Il colera avanza.

Allora, coloro che sono felici, coloro che per assicurarsi la loro felicità giocano con la vita degli altri, coloro per cui la sofferenza degli altri, i mali degli altri non contano, costoro sono presi dalla paura.

Davanti ai soliti disastri, l’epidemia ordinaria, il ricco fugge lasciando la città attaccata in preda al flagello. Ma il colera avanza, avanza sempre e, se va lentamente, procede sicuro. Fuggire davanti ad esso, non è che ritardare l’istante in cui vi prenderà allo stomaco, per portarvi alla morte.

E dove scappare, d’altronde? Se esso è dietro di noi, verso Pietroburgo, non è anche davanti a noi, verso Manila? E se non gli costa niente attraversare gli immensi deserti di terra del Gobi e della Siberia, che gli costerà superare gli immensi deserti di mare del Pacifico?

Il colera avanza... bisogna dunque arrestarlo.

Uno strano desiderio di solidarietà nasce da questa paura e da questo bisogno. Gli uomini sentono infine che sono uomini, e che non vi è ricco e povero di fronte a questo nemico del genere umano, di fronte al colera.

L’indifferenza del ricco si fonde, davanti alla prova comune, con la debolezza del povero.

I fortunati si accorgono d’un tratto che vi sono dei disgraziati che vivono dei resti della loro tavola, delle briciole della loro felicità. Si accorgono che accanto ai loro palazzi, alle loro ville, alle loro confortevoli dimore, vi sono dei tuguri, delle capanne, delle caserme, in cui si intasa il resto dell’umanità. Si accorgono che il loro lusso è pagato dalla miseria altrui.

Essi hanno paura... e capiscono, di colpo, che una solidarietà li lega agli altri uomini, che sono qualcosa solo per essi, e che lo stesso male che uccide il povero ucciderà anche loro senza pietà...

E il ricco preoccupato sente il suo cuore aprirsi alla pietà, sanguinare alla vista del dolore del povero.

I giornali ci dicono che a San Pietroburgo “è stata aperta una sottoscrizione nazionale, e i crediti che permetterà di realizzare saranno impiegati per dare ai poveri della città un nutrimento più sano e dell’acqua bollita”.

Amara ironia... Il ricco che non ha saputo consacrare qualche istante della sua vita per preservarsi, si sente minacciato nella sua stessa vita se non partecipa alla difesa contro il male che prende tutti.

La solidarietà lega gli uomini attraverso le frontiere della fortuna, le demarcazioni delle patrie, gli odi delle razze. E quel patriota che ride della fame in Indocina, quel cattolico romano che gioisce delle persecuzioni che si abbattono sulle razze semitiche, quel ricco indifferente al male della fame e del freddo che distrugge il suo vicino, tutti sono obbligati a riconoscersi solidali con coloro il cui dolore non li interessava.

La fame ha portato gli Indiani a gettarsi su innominabili rifiuti e il colera li ha presi; i Semiti, scacciati dalla persecuzione, hanno trasportato il male e i Poveri, al di fuori di tutte le leggi dell’igiene, sono stati, rapidamente, il terreno di coltura che ha permesso al male di espandersi in pieno nelle città civilizzate.

Questa solidarietà mostra tutta la debolezza, tutta la menzogna dell’attuale società; di questa organizzazione in cui si pensa di potersi occupare solamente del benessere di una minoranza, senza pensare che anche al di fuori dei processi rivoluzionari, le leggi di affinità rendono comuni, un giorno o l’altro, i mali che colpiscono la maggioranza.

E tuttavia, trovo che il tributo pagato dall’umanità sia stato abbastanza leggero. Vorrei che vi fossero più morti e che il mostro fosse più insaziabile di vite umane.

Il colera avanza...

E tuttavia, trovo che va molto lentamente, troppo lentamente, e, costi quello che costi, vorrei vederlo passare attraverso quella Germania militarista e questa Francia coccardiera che gioiscono anche adesso dei recenti successi delle differenti manovre.

Sì, vorrei che la lezione fosse più crudele ancora e che, davanti al male terrificante, gli uomini apprendessero infine che devono utilizzare tutte le loro forze, tutte le loro possibilità per lottare in comune associazione contro la natura per il più grande benessere di tutti.

Sì, vorrei che gli uomini comprendessero che non è possibile disinteressarsi del male di alcuno e che un’organizzazione sociale in cui qualcuno è dimenticato porta in sé la fessura che scuoterà tutto l’edificio.

Governanti, economisti e politici, finanzieri e legislatori, voi avete scatenato il colera sull’umanità: sono le vostre cattive leggi, è la vostra avidità di guadagno, il vostro desiderio di godimento mai sazio che fanno sì che milioni di uomini siano la preda designata dell’epidemia.

Sfruttati economicamente, pecoroni polizieschi, operai ed elettori, voi avete scatenato il colera sull’umanità: è la vostra tacita accettazione, la vostra passività di fronte allo sfruttamento, la vostra rassegnazione davanti alla sofferenza, davanti alla miseria, il vostro consenso all’abiezione e alla sporcizia che fanno di voi tutti il campo in cui scorazzeranno presto i corvi della morte.

Il colera avanza...

E che, è dunque così temibile, questo bacillo, che gli uomini tremano di paura quando lo si evoca?

Sì, è temibile e sarà temibile fintanto che le forze umane si consacreranno a togliersi l’un l’altro il pane necessario, a disputarsi la loro parte di felicità e di vita.

Sarà temibile fintanto che gli uomini saranno divisi da forze contraddittorie che lottano fra esse: fintanto che vi saranno Tedeschi e Francesi, Russi e Giapponesi; fintanto che vi saranno padroni ed operai, ricchi e poveri.

Sarà temibile fintanto che gli uomini useranno la loro vita per costruire fucili, sciabole e cannoni per lottare contro altri uomini; fintanto che le donne sapranno da altre persone delle minaccie di guerra o dei corsi delle borse finanziarie. Allorché questi uomini potranno lottare contro il male aumentando la ricchezza di tutti; allorché queste donne potranno dedicarsi ai fanciulli per farne uomini sani e robusti; gli uni e le altre potranno conoscere ed applicare le leggi dell’igiene che li preserveranno dagli attacchi del male.

Perché questa lezione sia proficua, per dimostrare a chiare lettere a tutti l’atrocità delle leggi sociali ed economiche, l’assurdità criminale della proprietà e del salario, la menzogna del patriottismo e delle religioni, non sono sufficienti le molte migliaia di cadaveri sparsi nei campi di battaglia e durante gli scioperi; non sono sufficienti le tante vittime delle rivoluzioni e del grisù; non sono sufficienti nemmeno le migliaia e migliaia di esseri umani uccisi sotto i continui e atroci attacchi della miseria...

... Tutto questo non basta, oh povero, per vincere la tua passività, la tua rassegnazione; oh ricco, per vincere la tua arroganza, la tua lussuria e i tuoi appetiti...

... Ebbene sia,... che il colera avanzi...

Che avanzi presto attraverso l’Europa corrotta dal lusso e dalla miseria, che si apra varchi attraverso l’umanità; che svuoti i palazzi e le capanne sotto i suoi terribili attacchi ...

... Allora, può essere, gli uomini si ricorderanno che sono uomini e agiranno come uomini; allora solamente, consacrando tutto il loro spirito, tutte le loro forze contro il comune nemico, scacceranno il male e potranno conoscere la felicità.

Il colera avanza...

24 settembre 1908

Tratto da:

I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati.
Albert Camus, La peste

Caos… o no?

L’arrivo dell’epidemia in Italia è il punto di partenza di uno stravolgimento non ancora conosciuto. L’economia sta crollando. Centinaia di miliardi di euro sono spariti. Gli esercizi commerciali chiudono. Uffici pubblici, scuole, palestre… tutto è bloccato. Solo i supermercati e i negozi di prima necessità restano aperti e vengono giornalmente svuotati. Le persone per lo più escono di casa solo per fare la spesa. Spaventate, non parlano tra loro, ognuno cerca di fare il più in fretta possibile. Sembra quasi uno scenario pre-apocalittico, qualcuno potrebbe pensare che questo sia il preludio di un periodo di caos. Eppure la situazione odierna è tutto meno che caotica: milioni di persone rinunciano a uscire di casa in nome di una responsabilità collettiva farcita di patriottismo, lo Stato ordina e i cittadini obbediscono, chi per paura, chi per evitare ritorsioni; le relazioni per lo più sono mediate da supporti informatici e il contatto umano è divenuto oltraggio alla salute collettiva. L’economia si orienta sulle piattaforme via web, grosse multinazionali gestiscono interamente il traffico di merce e catene di supermercati diventano il principale punto di riferimento per soddisfare i bisogni. L’istruzione avviene tramite connessione a distanza, di certo ora le aule saranno silenziose… Cosa ci sarebbe di caotico in tutto ciò?
Certo, la situazione negli ospedali è tutto meno che sotto controllo, ma perché dovrebbe poi così stupire, lo Stato si è forse mai preoccupato della salute delle persone? La malattia più che una minaccia è un’opportunità di profitto o controllo.

***

Eppure sappiamo anche che nel loro ordine, appena sotto la superficie, cova il disordine, si nasconde la ribellione, la sensazione di vita negata, più o meno raggiungibile e comprensibile dalle singole coscienze. Esiste un potenziale inespresso in termini di desiderio. Questo potenziale più viene bandito e negato più acquista pericolosità, perché potrebbe prendere fuoco in qualsiasi momento. O forse no, forse già tutto è perduto, solo noi (noi chi?) proviamo ancora passioni e desideri?
Eppure se nessuna delle due possibilità cambia la scelta individuale di continuare l’attacco al potere, cambia profondamente il modo in cui possiamo rifiutare l’idea dell’ineluttabile eterna riproduzione del presente stato di cose. Diamo forza, cercando di percepire la tensione soffocata, all’idea che un mondo altro sia possibile, e che questo non sia il migliore dei mondi, l’unico mondo possibile.

Alternativa o cogestione?

Come accade tuttavia in molti momenti storici in cui non è minata alla radice l’autorità del sistema sociale regnante, l’alternativa difficilmente riesce ad imboccare le strade dell’alterità, per ritrovarsi più spesso impantanata nella miseria della cogestione.
Cosa significa oggi aiutare a distribuire mascherine? Significherebbe o che viene concertata e coordinata la propria azione con la Protezione Civile ed il Comune oppure che è dietro l’angolo la repressione da parte di militari e poliziotti perché vengono violate le leggi ed i decreti che vietano di uscire di casa.
Questo sistema sociale ha creato un mondo dove vivono 7-8-9 miliardi di persone.

Come diceva Huxley nel suo profetico romanzo “Il Mondo Nuovo”:

“La stabilità. Non c’è civiltà senza stabilità sociale. Non c’è stabilità sociale senza stabilità individuale.
La macchina gira, gira, e deve continuare a girare, sempre. E’ la morte se si arresterà. Un miliardo di persone formicolavano sulla terra. Le ruote cominciarono a girare. In centocinquant’anni ce ne furono due miliardi.
Fermate tutte le ruote. In centocinquanta settimane non ne rimane, ancora, che un miliardo; mille migliaia di migliaia di uomini e donne sono morti di fame. Le ruote devono girare regolarmente, ma non possono girare se non sono curate. Ci devono essere uomini per curarle, uomini costanti come le ruote sul loro asse, uomini sani di mente, uomini obbedienti, stabili nella loro soddisfazione. Gridando: ‘Bambino mio, madre mia, mio unico, unico amore’; gemendo: ‘Mio peccato, mio Dio terribile’; urlando per il dolore, rabbrividendo per la febbre, piangendo la vecchiaia e la povertà, come possono curare le ruote? E se non possono curare le ruote… Sarebbe arduo seppellire o bruciare i cadaveri di mille migliaia di migliaia di uomini e di donne.”

***

Quali sono i nostri problemi e quali sono quelli del Dominio?
Dobbiamo forse risolvere il problema dell’inquinamento? Non ci iscriviamo a biologia, abbattiamo un traliccio dell’alta tensione per spegnere una fabbrica.
Dobbiamo forse risolvere il problema della povertà? Non fondiamo una banca etica, la rapiniamo e cerchiamo di distruggere il mondo del commercio ed anche quello della sua falsificazione “equosolidale”.
Dobbiamo forse risolvere il problema delle malattie? Non studiamo medicina, cerchiamo di abbattere questo sistema sociale. Perché l’azione rivoluzionaria non ristruttura la prigione, non la migliora. L’abbatte per creare il vuoto, per dare la possibilità alla vita di sbocciare.
L’alterità può infatti nascere solo dove non esiste il potere dello Stato, e soffoca se questi spazi in cui prova a germogliare non si allargano ma restano circoscritti a piccole sacche controllate.
Purtroppo i morti sono causati da questo mondo, dalle nostre scelte collettive di vita – anzi, di sopravvivenza. Non dalle nostre scelte individuali di lotta. Ed una rivoluzione è lastricata di sangue e di morti, perché questa è la condizione in cui questo sistema sociale ha messo l’umanità: non poter più esistere senza di esso. Come potrebbe esistere l’umanità senza la scienza del nucleare, dal momento in cui la prima centrale è stata accesa e la prima scoria prodotta? Il prezzo delle scelte di chi è vissuto prima di noi ricadrà sul futuro ancora per molti anni, ma non cominciare già da ora a pagare il debito di sofferenze non fa che aumentare le sofferenze complessive.

***

Il freno d’emergenza è un pericolo.
Se non lo tiriamo, però, il Dominio continuerebbe ad approfondirsi, andando a cambiare ed a dominare anche materialmente le nostre esistenze. Per questo non è possibile accettare cogestione, né rinviare la conflittualità che dovrebbe essere permanente: perché il disastro è il loro e loro devono pagarlo. E deve finire.
Chi vuole un mondo di libertà non è responsabile dei massacri del Dominio, neppure di quelli che avverranno domani o dopo il suo crollo. Chiaramente non bisogna perdere di vista la conseguenza tra mezzi e fini, ma occorre anche saper guardare al mondo con un certo distacco.

***

Tuttavia, è anche vero che il ritmo di questi giorni è forsennato, e la coscienza del disastro diventa sempre più lampante ai più. Che accadrà quando la paura lascerà il campo al desiderio di speranza o alla speranza del desiderio?
Un mondo inaspettato
E allora? Una situazione di questo tipo coglie impreparati.
Come amanti della libertà, aspiriamo a vedere le trame di questo regime d’emergenza sfaldarsi a causa di un’ingestibile focolaio di passioni. Eppure ci domandiamo anche come cambiano le possibilità di intervento quando tutta una serie di garanzie, soprattutto le più materiali, vengono negate o semplicemente diventano non più garantite dal sistema sociale e dal suo funzionamento. Come continuare ad avere rapporti e organizzarsi, per di più se si vive a grandi distanze? Come è possibile diffondere idee senza disperderle nel regno virtuale dell’opinione, se difficilmente è possibile comunicare al di fuori di uno schermo?
Per di più, se le comunicazioni e la memoria vengono affidate esclusivamente ai social network, che hanno il potere di eliminare e censurare tutto all’improvviso, come conservare il ricordo di ciò che accade, bombardati come siamo dalle notizie prodotte dall’eterno presente? Con quali mezzi è possibile farlo autonomamente quando stamperie e tipografie sono chiuse per decreto? E quali rischi comporta il tentativo di rompere questo macabro silenzio?

Guardando al passato

Uno sguardo al passato, in questo periodo, potrebbe essere un buon punto di partenza per cercare di orientarsi sulle scelte da compiere. Senza però distogliere la mente dal presente, che ci offre una prospettiva inedita ed unica.
Esperienze passate di individui e gruppi anarchici potrebbero illuminarci riguardo all’importanza del possesso di diverse capacità, conoscenze e mezzi che hanno permesso di dare del filo da torcere allo Stato e ai suoi mezzi repressivi.
Anche in tempi di guerra o dittatura militare, in cui le condizioni di precarietà erano ben più radicali di quelle attuali, c’è chi è riuscito a continuare a lottare, diffondendo idee di rivolta e mettendole in pratica. Ma quali sono questi fantomatici mezzi e quelle capacità di cui si parlava prima? Un esempio che può sembrare tanto banale quanto lampante è la possibilità di stampare autonomamente del materiale cartaceo in grandi quantità e in tempi brevi da poter diffondere.
Nel novecento era una pratica comune che chi redigesse un giornale avesse anche le conoscenze e i mezzi materiali a propria disposizione affinché fosse possibile stampare le copie da distribuire. In molte città erano diffuse tipografie clandestine dove era possibile per i compagni stampare i propri volantini, manifesti, opuscoletti, libri e così via. Così era ad esempio in molte città della Russia ai tempi del regima zarista e di quello bolscevico, o in Argentina sotto la dittatura di Uriburu, dove un Severino di Giovanni – da latitante – poteva passare in breve tempo dal rapinare banche a stampare libri ed opuscoli.
Altre possibilità sono relative alla conoscenza approfondita del territorio in cui si vive e del sapersi muovere in esso inosservati. Pensate a un Caracremada che per decenni è riuscito a compiere sabotaggi in territorio franchista, in compagnia o da solo, varcando i Pirenei ogni volta per tornare in Francia solo settimane più tardi. Se di certo le forme di controllo assumono sembianze diverse nella storia, riflettere sulle condizioni di chi le ha eluse in passato potrebbe essere propedeutico a sviluppare forme di evasione nel presente. Come si combina la conoscenza del territorio con la propensione contemporanea al nomadismo ed al continuo spostamento nello spazio? E se le attuali restrizioni imposte fossero di stimolo ad imparare a muoversi intelligentemente su un territorio, dovendo in qualche modo evitare di essere fermati?
Eppure è solo col tempo, e non nell’immediato, che è possibile far ciò. Ed ora che scenari ci si prospettano?

Guardando al domani

Semplificando, forse all’eccesso, ci si aprono solo due alternative. Ovviamente possiamo intervenire con la nostra azione, non siamo in balia degli eventi o in attesa che la Storia faccia il suo corso. La nostra volontà ha un peso ed un ruolo in ciò che avviene, tanto vicino a noi che in lontananza. La prima possibilità è che il Dominio riesca a trovare una propria nuova stabilità, normalizzando la situazione e continuando a riprodurre il suo mondo e le relazioni da lui prodotte. L’altra è che questo Dominio cominci a perdere pezzi, ad avvitarsi su se stesso in una sempre maggiore instabilità, crollare inesorabilmente.
I tempi potrebbero essere, per qualsiasi scenario, tanto rapidi quanto inaspettati.

***

Nel primo caso occorrerebbe comprendere che cosa significa vivere in uno stato d’emergenza come questo e trovare il modo per non farsi in futuro bloccare nella propria azione da simili limitazioni esterne. C’è sempre una prossima volta.
Pensiamo a cosa accadrebbe se venissero in futuro oscurati e filtrati determinati siti. O se venissero disattivate le nostre SIM dei cellulari. Saremmo muti. Oggi più che mai, dato che non abbiamo nemmeno modo di stampare in quanto dipendiamo da aziende di stampa e copisterie e magari non abbiamo più nemmeno gli indirizzi delle persone con cui vorremmo comunicare. Pensiamo anche a tutti quegli elementi di conoscenze ed abilità che è necessario sviluppare nel tempo e non nell’emergenza. Oggi abbiamo ciò che abbiamo, i nostri limiti e la nostra ignoranza. O forse altri individui si sentono invece pronti? Ed un domani, come vogliamo sentirci? E cosa vorremmo saper fare?

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Nel secondo caso dovremmo essere in grado in primo luogo di sopravvivere e in secondo luogo di fare in modo che il Dominio non si ripresenti sotto altre spoglie. La città è facilmente isolabile e non è in grado di autosostenersi: necessita di rifornimenti che vengano portati dall’esterno per poter continuare ad esistere.
La città è fondamentalmente un luogo che potrebbe rivelarsi all’improvviso inospitale perché costruito ad immagine e somiglianza dei poteri che l’hanno plasmata ed è quindi funzionale solo ad essi. Le reti di relazioni potrebbero venir distrutte in un battito d’ali dalla fuga verso luoghi in cui è ancora possibile la sussistenza, dove non esiste solo cemento. Con l’impossibilità di procurarsi benzina e magari non poterci telefonare o scrivere mail, vivere insieme diventa necessario per poter vivere bene e cospirare insieme. Scegliere le persone con cui stare, se vogliamo stare con altre persone, perché il futuro potrebbe essere incerto. Se ci auguriamo che le antenne saranno bruciate e le infrastrutture crollate, occorrerà capire come reinventarci la vita, e dove. E forse conviene cominciare a porsi questi interrogativi, anche se abbiamo sempre pensato che il problema della distruzione fosse così enorme da non dover mai porci, nelle nostre vite, altre questioni. E cominciare a seminare qualcosa, perché non è detto che, con la produzione just in time, esistano ancora depositi di pasta da assaltare o magazzini da saccheggiare vicino a dove abitiamo(1). Il cibo potrebbe finire anche prima che sboccino i fiori.
Forse la Comune di Parigi sarebbe durata più a lungo se dalle campagne fossero insorti gruppi di rivoluzionari che in ordine sparso avessero attaccato le retrovie dell’esercito repubblicano rompendone l’accerchiamento.

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Quale di questi due scenari pensiamo che potrebbe essere più plausibile? A seconda dei luoghi e delle sensibilità le risposte potrebbero essere differenti.
Senza ricette, ma con le idee chiare
Usciamo dall’illusione che il crollo dello stato e del Dominio possa essere un processo uniforme. Su tutto il territorio mondiale le dinamiche e le tempistiche saranno diverse, a macchia di leopardo, rendendo in breve tempo più caotica e confusa la situazione.
Forse non avremmo mai pensato di scriverlo davvero, rassegnati come ormai siamo all’ineluttabile realtà del nostro mondo. Ma potremmo davvero riuscire a vedere la nascita di forme di vita altre. Sarà difficile giudicare, come eravamo abituati a fare, le diverse situazioni da lontano. 30 km potrebbero distanziare esperienze e modi di vita differenti, separati da un cordone sanitario di militari e polizia.
Non si possono dare ricette, oggi meno di ieri. Occorre intelligenza, generosità, sfrontatezza ed intuizione per capire cosa fare, dove e come, con che tempi. Quali sono i tempi della distruzione e della costruzione non è faccenda uniforme per tutte le sensibilità. Tuttavia una sola cosa potrà rendere traducibili le esperienze e comunicabili le intuizioni: la chiarezza di intenti. E che, in questo periodo di trasformazione, resti ben ferma la volontà di distruggere ogni forma di potere dal mondo in cui viviamo, dentro e fuori di noi.

Per l’Attacco, qui e ora.
Per la Vita, qui e ora.

Amici di penna

(1)  Riportiamo alla memoria questo vecchio contributo di A.M. Bonanno sulle prospettive insurrezionali e su alcune sue riflessioni rispetto alle capacità organizzative, mentali e fisiche che occorre sviluppare (cfr. ad esempio pg 21): https://collafenice.files.wordpress.com/2013/09/trascizione-incontro-23-giugno.pdf

Fonte: https://plagueandfire.noblogs.org/it/